Dialetto tergestino: differenze tra le versioni

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Dopo aver letto le "Reliquie ladine" l'archeologo triestino [[Dante Vaglieri]] (1865-1913) scrive da Roma a Jacopo Cavalli una lettera<ref name="ref_A" /> in cui riporta i ricordi della propria famiglia sul dialetto tergestino e in particolare quelli della madre. Nella lettera, di cui vengono riportati di seguito i passi più significativi, vengono citate anche alcune espressioni in tergestino, evidenziate in corsivo nel testo.
 
“Io ignorava che Ella raccogliesse da persone viventi ricordi dell'antico dialetto triestino, altrimenti Le avrei scritto prima. Lontano dagli studi linguistici, non mi sono immischiato nella questione sollevata dal mio ex condiscepolo al Ginnasio Comunale di Trieste, prof. Oddone Zenatti. Avrei potuto dire che in mia famiglia c'erano sempre vividi dei ricordi di un dialetto ladinofriulano parlato a Trieste e che tuttora mia madre usa la frase ''le (non lis) trèdis ciazàdis''.”
 
“Ora la mamma – appena cinquantenne – ricorda benissimo, che suo zio Giovanni Castellitz, nato circa il 4 o il 5, e morto non molti anni fa – cioè ancora a mio ricordo – usava nel parlare certe frasi e parole ladinefriulane. Le ho letto jersera il colloquio colla signora de Jenner ed ella riconobbe le parole: ''ze fastu'', ''ze àstu fat'', ''la fèmina'', ''el ciaf'': dice però di ricordarsi ''ciaudiara'', non ''ciaudiera'' e aggiunge ancora – e questo non soltanto per averlo udito dallo zio – ''el me sor pari'', ''me dona mari''.”
 
Successivamente vennero sollevati diversi dubbi sull'autenticità della lettera, tanto che essa oggi viene ritenuta un elemento debole, non adatto a corroborare la tesi del Cavalli.