Ca' Dolfin: differenze tra le versioni

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L'acquirente diretto dell'edificio fu il [[cardinale]] [[Giovanni Dolfin (1545-1622)|Giovanni Dolfin]], figlio di Iseppo, questi però morì l'anno successivo per cui si deve quasi certamente al nipote Nicolò l'avvio della ristrutturazione del palazzo.<ref>{{Cita|Mantoan-Quaino}}, pp. 181, 184</ref> Difatti già nel 1663 Giustiniano Martinioni, nelle sue aggiunte al [[Francesco Sansovino|Sansovino]], tiene a segnalare come ragguardevole il palazzo «di Nicolò Delfino grandissimo Senatore, fabbricato […] alla Romana […]» sul «rio di S. Pantaleone».<ref>{{Cita|Martinioni 1663}}, p. 393.</ref> Sicuramente prima che i lavori fossero conclusi venne approntata nel giardino una grande costruzione in legno, provvisoria ma lussuosa, per accogliere il re di Danimarca [[Federico IV di Danimarca|Federico IV]] l'11 febbraio nel 1709 con una festa di carnevale ricordata come memorabile.<ref>Lo stesso stratagemma della costruzione provvisoria fu utilizzato dalle altre famiglie incaricate dell'ospitalità, Il re aveva deciso di viaggiare in forma privata come conte di Oldenburg per questo la Repubblica non poté intervenire ufficialmente ma incaricò quattro patrizi insigniti dell'ordine equestre (Nicolò Erizzo, Giambattista Nani, Daniele Dolfin e un Morosini di san Canzian) di provvedere a proprie a proprie spese. Non è chiaro dai documenti, né condiviso nell'interpretazione degli storici, se il cavaliere incaricato ufficialmente fosse Daniele III giovanni o Daniele IV Gerolamo, certamente i due collaborarono. Cfr. {{Cita|Mantoan-Quaino}}, pp. 191-195.</ref> [[Tommaso Temanza|Temanza]] assegna i lavori di risistemazione a [[Domenico Rossi (architetto)|Domenico Rossi]], sicuramente questi ultimi furono limitati al salone e all'ultimo piano, mentre i precedenti interventi sono attribuibili ad altri architetti della cerchia del Longhena come [[Giuseppe Sardi (1624-1699)|Giuseppe Sardi]], zio del Rossi.<ref name=":0">{{Cita|Zorzi 1989}}, p. 480.</ref>
 
Nei due decenni successivi i fratelli Daniele III e Daniele IV Dolfin fecero intraprendere un vasto programma iconografico per la decorazione del salone. Lo scopo era la glorificazione della loro storica famiglia. Dapprima, intorno al 1914, chiamarono [[Nicolò Bambini]] e [[Antonio Felice Ferrari]] per affrescarne il soffitto e successivamente [[Giambattista Tiepolo]] per realizzare, tra il 1725 e il 1729, dieci tele con storie dell'antica Roma. In entrambi i casi furono molto probabilmente consigliati da un altro fratello, il patriarca di Udine [[Dionisio Dolfin]], che aveva già commissionato alcuni lavori a tutti questi artisti. Anzi Tiepolo si divise tra le due commesse eseguendo le sue tele negli inverni di quegli anni e riservando la stagione calda per finire gli affreschi udinesi.<ref>{{Cita|Pedrocco-Gemin}}, p. 258.</ref> In onore ai suoi committenti Tiepolo dipinse (probabilmente tra il 1745 e il 1755) anche il ritratto postumo di [[Daniele Girolamo Dolfin|Daniele IV]] (morto nel 1729).
[[File:The Ca Dolfin Tiepolos The Metropolitan Museum of Art Bulletin v 55 no 4 Spring 1998 Pagina 29 Immagine 0002.jpg|thumb|upright=1.4|Scorcio del salone di Ca' Dolfin, vista verso nord ovest|alt=]]
Con Andrea (1748-1798) il ramo dei Dolfin di san Pantalon si estinse e il palazzo finì in eredità alla sorella Cecilia Dolfin sposata con Francesco [[Lippomano]] e da questa nel 1854 al nipote [[Giovanni Querini Stampalia]].<ref>{{Cita web|url=http://www.querinistampalia.org/ita/uploads/schedeMuseo.pdf|titolo=Palazzo Querini Stampalia - Salotto verde|formato=pdf|accesso=30 giugno 2019}}</ref> La casa rimase abbandonata per oltre settant'anni fino al 1872 quando, per pagare le tasse di successione, la neonata [[Fondazione Querini Stampalia]] fu costretta a vendere prima i Tiepolo (per 6.000 lire) e poi l'intero edificio con le opere contenute all'antiquario Michelangelo Guggenheim per altre 16.520.<ref>{{Cita|Mantoan-Quaino}}, p. 222</ref> Solo il ritratto dell'avo [[Daniele Girolamo Dolfin|Daniele IV]] (forse perché un tempo ritenuto il ritratto di un procuratore [[Querini]])<ref>{{Cita|Pedrocco-Gemin}}, p. 406.</ref> pervenne al museo della Querini Stampalia dov'è ancora.