Seconda intifada: differenze tra le versioni

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{{dx|[[File:Sumayya and her cat in front of her demolished home 2002, 2nd Intifada.jpg|thumb|left|Una bambina palestinese e la sua casa distrutta, campo profughi di Balatah]]}}{{Campagnabox conflitto arabo-israeliano}}La provocazione di Ariel Sharon fu il ''[[casus belli]]''. Le ragioni storiche erano piuttosto il lento accumulo di tensioni tra il 1993 e il 2000, dovuto allo stallo del processo di pace, che faceva intravedere un fallimento degli [[accordi di Oslo]]. La tensione avrebbe raggiunto il culmine nel luglio del 2000 con il fallimento del [[vertice di Camp David]].
 
I primi problemi erano sorti poco dopo gli [[accordi di Oslo]] quando, oltre ad un clima di forte opposizione politica al processo di pace fomentato da gruppi della destra israeliana, avvennero alcuni gravissimi fatti di violenza. Il più grave fu l'uccisione del [[primo ministro israeliano]] [[Yitzhak Rabin]] da parte di un estremista religioso ebreo. L'anno prima un colono ebreo, [[Baruch Goldstein]], aprì il fuoco sulla folla nella [[Tomba dei Patriarchi]] di [[Hebron]], con intento suicida, compiendo una [[Massacro di Hebron del 1994|strage]]. Questo fatto fu il primo di una lunga successione di attentati. Alla morte del primo ministro Rabin la guida del governo passò nelle mani di [[Shimon Peres]]. Colui che era stato il principale architetto degli accordi di Oslo, però, nella gestione della crisi commise alcuni gravi errori: nel 1996 ordinò un bombardamento di rappresaglia in Libano contro le milizie [[Hezbollah]] ([[operazione Grappoli d'ira]]) che si risolse però in una strage di rifugiati palestinesi e ricevette una condanna dall'ONU. In un clima di scontento e perdita di fiducia dell'opinione pubblica israeliana, le elezioni furono vinte dalla destra e divenne primo ministro [[Benjamin Netanyahu]], un irriducibile oppositore del processo di pace che era, soprattutto, considerato un interlocutore inaffidabile da parte dei leader arabi.
 
La costruzione di insediamenti in [[Cisgiordania]] riprese in modo massiccio, così come la confisca di terreni e la demolizione di case palestinesi. In particolare intorno a [[Gerusalemme]] un motivo di altissimo conflitto fu la volontà del governo di costruire il nuovo quartiere denominato [[Har Homa]], decisione condannata dalla comunità internazionale. Inoltre, ci fu un arenarsi dei colloqui fra le parti. L'ostacolo era rappresentato dal netto ed esplicito "no" di Netanyahu a tre fondamentali richieste palestinesi: uno Stato indipendente, il riconoscimento del diritto al ritorno dei profughi, lo smantellamento degli insediamenti costruiti e l'abbandono dei territori occupati, con un ritorno così ai confini del 1967. La politica di Netanyahu era invece orientata a prolungare i negoziati il più possibile approfittando della posizione di forza israeliana per portare avanti fatti compiuti. Parallelamente, in questa situazione estremamente penalizzante per l'[[Autorità Nazionale Palestinese]] (ANP), vi fu tra i palestinesi una rapida crescita di consenso verso gruppi estremistici di impronta religiosa islamica (in particolare [[Hamas|Ḥamās]], ma anche il [[Movimento per il Jihad Islamico in Palestina]]).