Anfiosso
Iscritto il 8 mar 2006
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3. TAGLI. Per quanto riguarda i tagli, mi affretto a precisare che anche a me non piacciono. Ma ricordo anche che una raffinata ripresa come la Semiramide di Meyerbeer, opera rossinizzante diretta da Bonynge (2005), con diversi specialisti rossiniani all'interno di un festival rossiniano in Germania, è stata eseguita e incisa in stile anni Cinquanta, col taglio degli a capo &c., "adeguando", come informa una nota del libretto d'accompagnamento, la partitura alle qualità vocali dei cantanti. Per quanto riguarda l'opera dell'Ottocento, attenzione: tu stesso m'insegni che la cabaletta col da capo è onnipresente fino al protoromanticismo. Ma Verdi, a partire dal 1845 grosso modo, comincia a scrivere anche cabalette senza ripresa (per Ronconi, se non sbaglio, nella Battaglia di Legnano, &c.), a partire da quelle affidate alle voci maschili per poi passare all'opera a intenzione che ha un gioco molto più sfumato, e tende a trovare altri elementi di continuità e ripresa, come per esempio la tonalità, i motivi &c., e non le strutture dei pezzi. Ed è proprio dal Verdi di mezzo, trilogia popolare soprattutto, in poi che il pubblico di allora si basava: il gusto era quello. Quanto alle tracce, anche consistenti, rimaste nella trilogia popolare, sono state ovviamente il primo oggetto di tagli: Rigoletto contiene una cabaletta del Duca all'epoca mai e poi mai eseguita, benché sia splendida ("Possente amor mi chiama", con la tromba); le cabalette dei due Germont (più opinabili, sembra) erano regolarmente falciate via; a Leonora rimaneva solo una delle due cabalette. Il fatto è che venendo meno il virtuosismo il da capo perdeva di senso. La C. era perfettamente in grado di variare, lo sappiamo, ma il pubblico non era assuefatto. Uscendo dal suo cono d'ombra di cantante "di nicchia", eccettuando i suoi esordii (in Italia) wagnerian-pucciniani e in riferimento al suo avvicinamento al Maggio, la C. ha cominciato ad occupare una posizione curiosa, che vedeva una tensione dialettica, e un equilibrio che a distanza sembra perfetto, tra opere del grande repertorio e opere decisamente desuete e meritevoli di entrarci. All'epoca, anche senza voler fare del folclore, non era affatto educato come quello di adesso, che in una serata all'opera viene con atteggiamento molto più disponibile e riflessivo, all'epoca i loggioni avevano preconcetti incrollabili. La C. ha avuto, nella sua volontà di creare sempre qualcosa di "speciale", di nuovo, anche un'importante funzione di rottura. La distanza culturale non era tra la C. e quel repertorio (protoromantico), ma semmai tra *il suo pubblico* e quel repertorio.
4. L'ESTETICA DELLA C. Quanto all'estetica, tu parli di una C. tardoromantica. Sono in disaccordo. Il tipo di emissione non ha nulla da fare, innanzitutto, con la pletoricità e il grasso da candele che andava tanto negli anni Cinquanta, e che appunto risentiva ancora del tardoromanticismo e del verismo (che è verismo sulla carta, di fatto è una riconcezione del melodramma prevalentemente piuttosto kitsch [e peraltro con molte belle cose]). La C. era l'esatto *contrario* dell'estetica decadente. In effetti, anzi, sono portato a ritenere che la Lucia della Sutherland, cantante che in fondo ha recuperato uno stile "petali di rosa", molto fin-de-siècle, aggiornandolo, sia molto più legata ad un'estetica tardoromantica di quanto non avvenisse con la C.; vale anche per la Norma, e in genere tutte le altre cose. Lo stile non è per nulla scolpito (per Norma, il "sublime tragico"), il notevole nervosismo di un personaggio come Lucia, che non può essere concepito esclusivamente in chiave elegiaca (il personaggio dà evidenti segni di squilibrio da quando appare in scena a quando ammazza a pugnalate il marito appena sposato...), e la forte tensione espressiva di tutte le eroine protoromantiche sono stati riportati dalla Sutherland ad un clima abbastanza "digestivo", pre-Callas. La C. ha rievocato, per Norma Vestale Medea, ma anche per Sonnambula Puritani Lucia, uno stile che credo proprio sia molto più vicino al concetto degli autori (Bellini più che Donizetti, probabilmente) di quanto sia intervenuto in séguito. Non è solo una questione di tecnica di canto, cioè di fonazione, ma anche di sensibilità nei confronti della ripartizione, della scansione esatta, del melos, dello spirito informatore generale, di uno stile e di una retorica. Il canto della C. ha, anche considerando quanto di suo ci metteva (ma perché no, se poteva permetterselo?), un'idiomaticità che nessun'altra interprete ha avuto. Lei cantava, ci mancherebbe che si mettesse anche a fare ricerca -- oggi le primedonne fanno ricerca quanto vogliono, ma oggi i mezzi e le chiavi interpretative (anche quando non sono in grado di servirsene) ce li hanno. All'epoca no. Non possiamo rimproverarle di non aver fatto l'edizione critica di tutto quel che cantava. Perché la sua funzione è stata proprio quella di riesumare uno stile che nessun foglio di carta, pentagrammata o no, riuscirà a trattenere. E' ovvio, dunque, che abbia agito sulla base dell'intuito: perché in qualunque altro modo sarebbe stato impossibile. Poi, è vera anche la questione che noi non sappiamo come cantassero le primedonne d'allora e che possiamo fare solo supposizioni; però rimane il fatto che, giusto per limitarci alla più documentata delle sue interpretazioni, Norma, dopo quelle stentate della Lehmann, della Cigna, la C. è stata la prima, ma anche l'ultima ad essere *perfettamente a suo agio* in ogni parte dell'opera, che non era eseguita con tagli troppo significativi. Non mi riferisco a trasposizioni di suono, o altro, perché in certi casi non sono così sostanziali (non per valutare le capacità della C., o la sua congenialità con un certo tipo di repertorio). C'è la qualità di una fonazione, dico, che le permette di inquadrare un "No, non tremare" di cui si distingue ogni nota, mentre la Sutherland, per esempio, non articola a sufficienza. Quanto a più moderne interpreti (June Anderson? La Gruberova?) non mi pronuncio perché sono troppo al disotto del piano della storia.
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