Apis mellifera: differenze tra le versioni
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Essa si innalza a grandi altezze, seguita dalla folla dei fuchi, il più possente dei quali la raggiunge ed ha luogo, in volo, il primo accoppiamento . La copula comporta la inevitabile morte del maschio, poiché i suoi organi genitali restano infissi nel corpo della femmina ed esso deve strapparli per allontanarsi. Questa così profonda mutilazione risulta per esso letale.
Mentre il maschio precipita morto verso il suolo, la regina plana sull’alveare, dando alle operaie, in tal modo, un segnale in seguito al quale esse assalgono ed uccidono con il loro pungiglione gli altri fuchi; nessuno di essi si salva perché i pochi superstiti non sanno nutrirsi da sé, essendo stati nutriti sempre dalle operaie per trofallassi oro-orale, e perché il loro apparato boccale di suzione è più corto di quello delle operaie e non potrebbero succhiare il nettare. Questa lotta non costa alcuna vittima alle operaie, sia perché i fuchi non hanno alcun mezzo di difesa (sono maschi, quindi privi di ovopositore, cioè di pungiglione), sia perché possono agevolmente ritirare il loro pungiglione (diversamente da quanto avviene se l’ape punge un vertebrato). Talvolta, però, in caso di sovraffollamento della colonia, le operaie impediscono alla nuova regina di uccidere le sorelle, ed allora anche una ulteriore nuova regina sciama (risciami).
==Antenne==
Nell’ape, ciascuna antenna (breve, filiforme e genicolata) è costituita da un articolo basale, o scapo, seguito da un articlo più breve detto pedicello e da una porzione distale, o flagello, quest’ultimo composto da 11 articoli nelle femmine e di 12 nei maschi. Il flagello contiene numerose fossette olfattive
che conferiscono all’ape un acuto senso dell’olfatto; esse sono in numero di 1600 nell’antenna della regina, 2400 in quella di un’operaia e 1000 in quella di un fuco, e sono frammiste a numerosi peli tattili, in numero di circa 7000 sull’antenna dell’operaia e di 1000 su quella del fuco.Lo scapo si articola con il capo entro una fossetta, detta torulo, attraverso la quale giungono fino all’apice antennale liquidi e tessuti di provenienza interna (nervi, trachee, emolinfa,ecc.).
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anteriori e dal corpo; e l’estremità distale interna della tibia reca uno sperone o spina tibiale che l’ape usa come leva per staccare le lamelle di cera, secrete dalle ghiandole situate nella regione sternale dell’addome, e le pallottoline di polline dalle cestelle quando, giunta nell’alveare, deve scaricarle e disporle nelle apposite celle, come dispositivo di pulizia per liberare dai corpi estranei le ali e gli spiracoli tracheali,ecc.
Nella zampa posteriore (o metatoracica), la larga tibia presenta esternamente una lieve concavità marginata da forti e lunghi peli incurvati, che forma la cestella (o cestello, o corbella, o corbicula) dove l’ape accumula il polline per trasportarlo nell’alveare. In corrispondenza della articolazione tibio-tarsale, il margine distale libero della tibia, provvisto di un pettine o spazzola della cera, formato da numerose grosse spine, ed il margine prossimale libero del tarso, provvisto di peli e ricurvo a forma di becco (sperone tarsale o auricola), formano una pinza tibio-tarsale che serve per raccogliere le lamelle di cera dall’addome. La faccia esterna del basitarso è provvista di peli collettori per raccogliere i granuli pollinici dalle parti posteriori del corpo e la sua faccia interna reca una decina di serie trasversali di spine brevi e robuste, rivolte verso il basso, che costituiscono la spazzola del polline o scopa.
==Torace==
Nell’ape si ha un grande sviluppo del mesotorace, suddiviso in scleriti secondari e col noto distinto in una porzione anteriore prescuto-scutale ed in una posteriore scutello-postscutellare. Modesto sviluppo del protorace.
Il primo urite ha perduto la regione sternale ed è venuto ad accollarsi al metanoto, entrando a far parte integrante del torace (epinoto o propodeo), cosicché il torace medesimo, veduto dorsalmente, appare costituito da 4 anzicchè 3 regioni tergali.
==Addome==
L’addome dell’ape è costituito da 10 segmenti (o uriti, da urà, coda), dei quali, però, solo alcuni morfologici e visibili esternamente (col decimo comunemente ridotto o membranaceo, o fuso col nono).
Il primo urotergo e le sue aree laterali si sono integrati col torace formando, in questo tagma, un quarto tergo che ha preso il nome di propodeo, o epinoto. Conseguentemente la parte rimanente dell’addome, dal secondo urite in dietro (detta gastro) si collega col propodeo mediante un peduncolo detto peziolo.
Il VII urosterno funziona sempre da lamina sottogenitale. VIII e IX urite non risultano distinti quali scleriti a sé stanti. IV e VII prosterno ciascuno con due larghe aree ovoidali (specchi) attraverso i quali passa la cera fluida attraversando la loro sottile cuticola.
La ghiandola di Nassonoff è sita sotto la membrana intersegmentale, tra il VI ed il VII urotergo e sbocca nella parte anteriore di quest’ ultimo.
==Pungiglione==
All’estremità distale del corpo dell’ape è presente l’aculeo, o pungiglione, un ovopositore modificato di cui sono provviste solo le operaie e la regina. E’ formato da uno stilo lungo e sottile che nella parte prossimale si allarga in un bulbo cavo. Lo stilo è formato da una guaina a doccia che si prolunga con il bulbo ed abbraccia due stiletti slanciati e seghettati per la presenza di una decina di denti rivolti all’indietro. Gli stiletti e la guaina delimitano un canale che si apre alla estremità dello stilo, ai lati del quale si trovano le due valve dell’aculeo dotate di numerose piccole spine e di sensilli. L’apparato del pungiglione comprende:
- una guaina dorsale cava;
- uno stilo o dardo, costituito da due stiletti, o aghi, o lamelle, ciascuno dei quali è provvisto di circa 9 dentelli con la punta rivolta all’indietro che trattengono lo stilo nella ferita (quando questa è inferta in tessuti elastici e molli, come quelli dei mammiferi), ed è percorso ventralmente da un solco che permette loro di scorrere l’uno sull’altro sotto l’azione dei muscoli situati alla loro base interna e di penetrare così alternativamente e sempre più profondamente nei tessuti della vittima;
- 2 processi digitiformi rivolti all’indietro quando l’aculeo è protratto e disposti ai suoi lati quando è retratto, i quali sono chiamati appendici palpiformi o palpi dell’aculeo, poiché sono considerati come organi di senso che comunicano all’ape quando l’addome è a contatto con il corpo in cui essa vuole infiggere il suo aculeo;
- un grande sacco del veleno mediano, alimentato da una ghiandola acida (formata da due masse ghiandolari) e da una ghiandola alcalina, il cui secreto viene miscelato d iniettato nella ferita al momento della puntura.
Fra i componenti identificati del veleno vi sono: istamina (un’ammina che determina reazioni allergiche), melittina (una proteina farmacologicamente attiva), fosfolipasi A (un enzima che idrolizza i fosfolipidi), ialuronidasi (un complesso enzimatico di natura proteica che depolimerizza l’acido ialuronico facilitando lo scambio dei liquidi attraverso il tessuto connettivale), apamina (un peptide basico ricco di zolfo). (vedi Cap.**)
Al momento della puntura, al veleno si mescola il feromone di allarme (a base di acetato di amile) che attira le altre operaie sulla vittima. Un’operaia muore un paio di giorni dopo avere usato il suo aculeo, poiché tutto l’apparato del veleno ed altre parti adiacenti vengono strappate del corpo dall’ape, assicurando così un’azione protratta dell’aculeo che continua la penetrazione e ad iniettare veleno nella ferita anche dopo che l’ape si è allontanata.
Quando l’ape operaia infigge il suo pungiglione nel tessuti di un vertebrato, essa non può più estrarlo a causa degli uncini di arpionamento rivolti all’indietro, come le punte della lancia di un fucile subacqueo. L’ape, allontanandosi, strappa i propri tessuti; insieme al pungiglione, allora, essa lascia anche le annesse ghiandole velenifere, muscoli, gangli nervosi e la ghiandola che emette il feromone di allarme. L’aculeo che rimane nella ferita è in grado di fungere da arma automatica, continuando da solo la penetrazione nella ferita e ad iniettare il veleno, mentre la ghiandola continua ad emettere il feromone di allarme; quest’ultimo richiama le altre operaie e le induce ad aggredire, a loro volta, la vittima.
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