(latino)
«Jus naturale est libertas, quam habet unusquisque potentia sua ad naturae suae conservationem suo arbitrio utendi, et per consequens illa omnia, quae eo videbuntur tender, faciendi.[1]»
(italiano)
«Il diritto di natura, che gli scrittori chiamano comunemente jus naturale, è la libertà che ciascuno ha di usare il proprio potere a suo arbitrio per la conservazione della sua natura, cioè della sua vita e conseguentemente di fare qualsiasi cosa che, secondo il suo giudizio e la sua ragione, egli concepisca come il mezzo più idoneo a questo fine.[2]»

Per giusnaturalismo o dottrina del diritto naturale[3] (dal latino ius naturale, «diritto di natura»)[4] s'intende la corrente di pensiero giusfilosofica che presuppone l'esistenza di un diritto universalmente valido e immutabile, fondato su una peculiare idea di natura[5], preesistente a ogni forma storicamente assunta di diritto positivo[6] e in grado di realizzare il miglior ordinamento possibile della società umana.[7] Secondo la dottrina giusnaturalistica il diritto positivo non si adegua mai completamente alla legge naturale, perché esso contiene elementi variabili e accidentali, mutevoli in ogni luogo e in ogni tempo: i diritti positivi sono realizzazioni imperfette e approssimative della norma naturale e perfetta.[7] I temi affrontati dai teorici della dottrina del diritto naturale attengono al diritto, perché pongono in discussione la validità delle leggi, alla morale, in quanto riguardano l'intima coscienza dell'uomo, e, prevedendo limiti al potere dello Stato, alla politica.[8]

Evoluzione storica

Le prime riflessioni sul diritto naturale sono rinvenibili già nel pensiero greco classico e, specificamente, nello stoicismo, dunque nel cristianesimo antico e medievale. Però, con maggior proprietà, s'intende per giusnaturalismo la corrente di pensiero filosofico-giuridica maturata fra il Seicento e il Settecento che ha rielaborato il concetto classico di diritto naturale interpretandolo in chiave razionalistica e umanistica.[6] Benché la fine della storia della scuola moderna del diritto naturale si faccia coincidere con la morte del Kant avvenuta nel 1804, poiché, come scrive il Fassò nella sua Storia della filosofia del diritto, la promulgazione nello stesso anno del codice napoleonico «sanciva positivamente i princìpi [del diritto naturale, dando vita] all'indirizzo ad esso opposto, il positivismo giuridico»[9], il ricorso alle idee di questa scuola si ripresenterà anche nei secoli successivi al XVIII, già col Fichte[9] e con lo Hegel (ma, come nota Bobbio, il suo «atteggiamento di fronte alla tradizione del diritto naturale è [...] insieme di rifiuto e di accoglimento»)[10] nonché successivamente, dopo le guerre mondiali del Novecento[11]. Tuttavia, già a partire dal V secolo a.C., si delineano le tre tendenze che caratterizzeranno le varie correnti giusnaturalistiche che nel corso dei secoli si svilupperanno, ossia:[3]

  • quella che presuppone una legge giusta e assolutamente valida, superiore alle leggi positive perché dettata da una volontà sovraumana (cosiddetto giusnaturalismo volontaristico);[3]
  • quella che intende la legge naturale come istinto comune a ogni animale (cosiddetto giusnaturalismo naturalistico);[3]
  • quella che interpreta la legge di natura come dettame della ragione (cosiddetto giusnaturalismo razionalistico).[3]

Il giusnaturalismo dell'età classica

Sofocle e le «leggi non scritte»

  Lo stesso argomento in dettaglio: Sofocle, Antigone (Sofocle) ed Edipo re (Sofocle).
 
Sofocle.

Ancorché Sofocle non sia stato un filosofo, egli si fece interprete di un sentimento diffuso nel popolo greco del secolo V a.C., ossia quello del possibile contrasto fra i decreti scritti dell'autorità sovrana e le leggi superiori, non scritte, che, nella interpretazione volontaristica del poeta[3], provengono dalla divinità, offrendo così le basi al pensiero successivo per affrontare uno dei problemi capitali della filosofia del diritto.[12]

È proprio il rapporto antinomico fra il decreto dell'autorità umana (il νόμος o nόmos) e le «leggi non scritte» discendenti dalla volontà divina (gli ἄγραπτα κἀσφαλῆ Θεῶν νόμιμα o ágrapta nόmima) a costituire il leitmotiv dell'Antigone, celebre tragedia sofoclea i cui versi saranno sovente ripetuti dai sostenitori di un diritto assolutamente valido, superiore e anteriore alle leggi umane.[12]

 
Antigone.

La tragedia prende le mosse davanti alle mura di Tebe e vede guerreggiare fra loro i fratelli di Antigone e Ismene, Eteocle (sostenitore del re di Tebe, Creonte) e Polinice (avversario del re). Periti entrambi e rimaste le sorelle «prive» dei fratelli «ché in un giorno solo mutua mano li spense», Antigone, venuta a conoscenza del decreto di Creonte che concedeva a Eteocle degna sepoltura, rendendolo «onorato fra i morti di laggiù», negandola invece a Polinice e condannandolo a rimanere «illacrimato, insepolto, tesoro dolcissimo agli uccelli che lo spiano per il gusto di cibo che darà», nonché comminando la pena di morte ai trasgressori, «al reo di questa colpa», deciderà, per amore del fratello e in disaccordo con Ismene, di contravvenire al decreto, seppellendo segretamente Polinice. Scoperta, viene condotta al cospetto di Creonte che «in breve» le domanda se fosse a conoscenza del «bando, col divieto»; ricevuta una risposta affermativa e destata la meraviglia del re, ella pronunzia le famose parole: «A proclamarmi questo non fu Zeus, né la compagna degl’Inferi, Dice, fissò mai leggi simili fra gli uomini. Né davo tanta forza ai tuoi decreti, che un mortale potesse trasgredire leggi non scritte, e innate, degli dèi. Non sono d’oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero né di dove»[13]. Affermata con animo pugnace la sua disobbedienza civile, Antigone affronta serena la morte.[12]

Il tema delle «leggi non scritte» è ripresentato da Sofocle anche nell'Edipo re, ove si parla di leggi «eccelse, generate nell'etere celeste, di cui solo padre è l'Olimpo», leggi che «non la natura mortale degli uomini ha prodotto» e che «mai l'oblio addormenterà».[14]

Benché Sofocle non sia stato un filosofo, i suoi versi hanno interpretato icasticamente e meglio di ogni altro uno dei problemi fondamentali della filosofia del diritto, perciò è opportuno farne cenno anche in una trattazione sul pensiero filosofico.[12] Ed è opportuno cennare al dramma dell'antinomia fra la legge positiva e quella non scritta anche perché, se in un primo momento questo fu illustrato in termini poetici da Sofocle, esso sarà dipoi ripreso e trattato filosoficamente dai Sofisti e da Socrate.[12]

Le origini della riflessione sul diritto naturale: la Sofistica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Sofistica.
 
Protagora di Abdera (al centro) fu il primo a chiamarsi Sofista e maestro di virtù.[15]

L'origine della ricerca filosofica intorno a un diritto ispirato ai valori della natura risale ai presocratici; tuttavia, entro tale novero è necessario distinguere fra i primi naturalisti e i Sofisti, poiché i primi, conferendo un ordine razionale tratto dalla esperienza giuridica e politica alla natura fisica, le assegnano un'oggettività universale preesistente all'uomo e a cui ogni norma positiva, per essere considerata giusta e obbligatoria, deve conformarsi,[16] mentre i Sofisti, mossi da un profondo razionalismo quasi illuministico[17], percepiscono i valori in chiave umanistica e, pur essendo permeati di relativismo, pongono – per usare le parole di Protagora – l'uomo come «misura di tutte le cose»[18][19], considerandolo non più come un elemento della natura o dell'essere (e, dunque, abbandonando una prospettiva ontologica), bensì nei suoi caratteri peculiari, donde deriva una considerazione antropologica della filosofia.[15]

Furono i Sofisti a formulare in termini filosofici ciò che già Sofocle rappresentò nell'Antigone, ossia il possibile contrasto fra le «leggi non scritte» (gli ἄγραπτα κἀσφαλῆ Θεῶν νόμιμα o ágrapta nόmima nella tragedia) e quelle promulgate dallo Stato (il νόμος o nόmos), riferendosi però, a differenza di Sofocle, al rapporto antinomico fra un «giusto per natura» (phýsei díkaion), corrispondente alle naturali esigenze razionali dell'uomo, universali e permanenti, non già alla legge divina, e un «giusto per legge» (nόmoi díkaion), frutto dell'umana volontà legislatrice, come tale contingente e variabile.[20]

Come si è dianzi detto, il pensiero dei Sofisti appare caratterizzato dal relativismo e ciò comporta che presso ogni appartenente a questa corrente vi siano vedute diverse, non solo nel campo gnoseologico, ma anche nell'etica.[21] Una tale eterogeneità di interpretazioni del «giusto per natura» è immediatamente percepibile sol che si abbia presente il dialogo platonico Gorgia, ove il sofista Callicle sostiene la caducità delle leggi positive, frutto della volontà dei più deboli riuniti per soverchiare la naturale superiorità dei più forti[22], e la loro contrarietà al diritto di natura, il quale postula, sia fra gli animali sia fra gli Stati, che il più forte s'imponga sugli altri[22], consistendo in questo la «giustizia di natura».[23] Callicle (della cui vera esistenza non può non dubitarsi, restando comunque fermo che Platone possa aver tradito alla posterità il pensiero di un sofista veramente vissuto)[24] concepisce dunque il diritto naturale come un istinto naturale, identificantesi con la forza bruta. Questa concezione – che sarà ricorrente nella storia del pensiero – può essere denominata naturalistica in senso stretto, avendo riguardo solo all'aspetto ferino dell'umanità e trascurante quello razionale. Una natura, questa rappresentata nel dialogo platonico, oggettiva ed esterna, subìta passivamente dai consociati che ad essa si adeguano.[24]

Fermo restando l'irriducibile contrasto fra il giusto per natura e quello per legge, una diversa idea ispira l'opera di sofisti come Ippia di Elide, che intenderà tutti gli uomini «consanguinei, parenti, concittadini», non per legge, ma per natura, perché «la legge, tiranna degli uomini, alla natura fa molte volte violenza»[25], o come Alcidamante che, secondo quanto riportato da Aristotele nella Retorica, avrebbe affermato l'originaria libertà di tutti gli uomini, perché «nessuno la natura ha fatto schiavo».[26] Per Antifonte, invece, «la maggior parte delle cose giuste secondo la legge sono in opposizione con la natura», perché per natura il singolo individuo perseguirebbe il suo giovamento personale, mentre la legge lo impedisce, essendo le norme di questa «convenzionali», ossia «frutto di un accordo», e derivando dal loro rispetto la «giustizia».[27] Dalla sua riflessione Antifonte Sofista inferisce che «per natura tutti siamo uguali in tutto, barbari e Greci. [...] Infatti, tutti respiriamo l'aria con la bocca e con le narici, e mangiamo con le mani tutti»[28], intendendo che tutti gli uomini attendono alle necessità naturali allo stesso modo.[29]

Se al Sofista Callicle si è imputato un eccessivo realismo, a pensatori come Ippia, Alcidamante e Antifonte non può non imputarsi il vizio dell'astrattismo, derivante dall'impostazione razionalistica della loro filosofia, la quale intende la natura come frutto della ragione, come norma che l'uomo dà a sé, obbedendo alla sua essenza.[3]

Diritto e natura nel pensiero di Aristotele

  Lo stesso argomento in dettaglio: Aristotele.
 
Aristotele di Stagira.

Pur non prestando molta attenzione al rapporto fra «giusto per natura» e «giusto per legge», Aristotele si serve di questa distinzione tratta dalla Sofistica[30] e l'adopera nel libro V dell'Etica Nicomachea, ove dice che il giusto «naturale è quello che ha dovunque lo stesso potere e non dipende dall'opinare o dal non opinare, legale è quello che in origine non fa differenza se sia in un certo modo o in un altro, ma, quando viene formulato, fa differenza[31] (per esempio, quando si stabilisce che il riscatto sia due mine, o di sacrificare una capra e non due pecore)»[32]. Tuttavia lo Stagirita, dopo aver illustrato la differenza fra giusto per natura e giusto per legge, prosegue stabilendo che, nonostante alcuni ritengano il giusto per natura immutabile, perché, «proprio come il fuoco che brucia sia qui che in Persia», mantiene la sua validità ovunque, «presso di noi ci sono cose che, pur avendo anche la caratteristica di essere per natura, ciononostante sono del tutto mutevoli»[32]. Una simile conclusione è segno inequivocabile dell'attaccamento di Aristotele all'esperienza concreta, alla storia, ed è altresì manifestazione di rifiuto dell'astrattismo e dell'universalismo.[33] Attaccamento all'esperienza mondana riproposto anche in un luogo della Grande Etica, ove si dichiara che «giusto per natura è ciò che rimane costante nella maggioranza dei casi»[34], rifiutando l'universale immutabilità del diritto naturale.

Il tema del diritto naturale è affrontato dallo Stagirita anche nella Retorica ove distingue fra la legge propria di ciascun popolo (nόmos ídios), scritta o meno, e quella comune a tutti i popoli (nόmos koinόs)[33], osservando che «esiste un giusto e un ingiusto comune per natura, che tutti riconoscono, anche se non vi sia stato nessun reciproco rapporto né convenzione. È quello che appar proclamare anche l'Antigone di Sofocle, quando afferma che è giusto seppellire Polinice in quanto ciò è giusto per natura»[35]. In questa sede Aristotele, tuttavia, forse perché l'argomento incentrato sulle definizione retoriche non permetteva troppe divagazioni, non tratta del possibile contrasto fra giusto per legge e giusto per natura.[33]

Del rapporto antinomico fra giusto per natura e per legge, anche se in modo fuggevolissimo, lo Stagirita tratta invece nella Grande Etica, stabilendo che è sua intenzione occuparsi specificamente del giusto nella società e nello Stato (politikόn díkaion), che è esclusivamente giusto per legge, ma che tuttavia il giusto per natura è «migliore» (béltion) di quello per legge.[36]

Data la laconicità di Aristotele sull'argomento, è difficile comprendere quale senso attribuisse alla natura, anche se è immediatamente possibile escludere che identificasse natura e ragione[33], perché la ragionevolezza – da quanto scrive nella Politica – è prerogativa della sola legge positiva, in quanto essa è «intelletto senza appetito»[37]. Per natura lo Stagirita intende ciò che avviene nei fatti, perché è per natura che si formi la famiglia, ossia che l'uomo e la donna si uniscano, dato che è naturale per gli uomini «come per gli altri animali e piante il mirare a lasciare un qualche altro essere simile a sé»[38]. È altresì per natura che gli atti a comandare comandino e quelli ad obbedire obbediscano, com'è per natura che nasca «dall'unione di più famiglie volte a soddisfare un bisogno non strettamente giornaliero» il villaggio e dalla «comunità perfetta di più villaggi» la città, «istituzione naturale». E «da ciò è chiaro che la città appartiene ai prodotti naturali, che l'uomo è un animale che per natura deve vivere in una città»[39].

Il riferirsi di Aristotele alla natura, ossia alla natura fattuale della società del suo tempo, spiega il perché dell'esistenza di chi «è naturalmente schiavo». La schiavitù nel pensiero aristotelico può, infatti, derivare da due condizioni: da un difetto d'intelligenza che spoglia l'uomo della sua umanità e lo rende utile solo in virtù della sua forza fisica; da un irrinunziabile giovamento che la società trae dal lavoro degli schiavi.[40]

Dunque, può concludersi che Aristotele, allorché si riferisce alla natura, intende esprimere la naturalità delle cose del suo tempo, senza alcun riferimento a idealità astratte. Se lo si vuole annoverare fra i giusnaturalisti per i suoi sporadici richiami a un «giusto per natura», bisogna conferire alla natura un senso radicato alla storia, non già eterno e immutabile.[41]

L'antica Stoá

  Lo stesso argomento in dettaglio: Stoicismo.
 
Zenone di Cizio.

Secondo la scuola stoica (che deriva il suo nome dal greco stoá, ossia dal portico in cui Zenone di Cizio le diede i natali)[42] l'universo è mosso dal lόgos, principio universale e divino, che è la Ragione (con evidente richiamo alla dottrina eraclitea).[43] La visione stoica è panteistica perché presuppone l'esistenza di un Dio animatore dell'universo, che ne detta la legge; e questa legge è ragione, la stessa che caratterizza l'essenza umana.[43] La legge disciplinatrice dell'universo ha qui un significato complesso, perché rappresenta ad un tempo l'essere dalla natura (comprendente anche l'uomo come elemento del cosmo), ossia la legge fisica, e il suo dover-essere, ossia la legge etica o giuridica, giungendo infine all'identificazione concettuale dei momenti che la costituiscono. Gli Stoici dunque, confondendo l'aspetto fenomenologico della legge naturale, ossia quello che considera ciò che realmente accade secondo la fisica, e l'aspetto deontologico, ossia quello che riguarda le prescrizioni dei doveri, considerano una natura che disciplina se stessa.[44]

 
Crisippo di Soli.

Nell'etica la scuola stoica si richiama al Cinismo, condividendo con questi l'idea che – usando le parole di Zenone – «il sommo bene consiste nel vivere in modo conforme alla natura»[45]. E Cleante ribadisce che «il fine dell'uomo è vivere uniformandosi alla natura»[46]. Ma la natura degli Stoici non è quella animalesca dei Cinici, infatti, come chiarisce Crisippo, ci si deve riferire alla natura «comune e propria degli uomini»[47], ossia al lόgos, alla ragione. Vivere secondo natura significa, dunque, condurre una esistenza obbediente alla ragione, ponendo freno a ogni passione di sorta.[48]

La dottrina stoica della razionalità immanente all'Essere, ossia di una natura intimamente razionale, permette alla scuola di formulare per la prima volta con decisione una dottrina del diritto naturale, dotata di un fondamento metafisico che giustifica il valore assoluto di un tale diritto.[49] Per gli Stoici fu semplice ridurre a unità la molteplicità delle contrapposte idee di «giusto per natura» che nel pensiero greco si susseguirono, proprio in virtù dell'identificazione fra divinità, natura e ragione.[49] Ciò è icasticamente raffigurato da Cleante nel suo Inno a Zeus ove si dice della divinità, che «governa l'universo con la giustizia»[50] e riunisce in unità la molteplicità, in modo che viva eternamente per tutti un'unica Ragione. E da questa Ragione si allontanano gli ingiusti, i quali non sono in grado di osservare la legge universale di dio, confermandoci nell'idea che la divinità, la natura e la ragione sono il principio della legge.[49]

Da questa concezione gli Stoici ricavano un'altissima considerazione del diritto, il quale deve rappresentare positivamente la legge della Ragione universale. Per garantire tale corrispondenza è necessario che la legge positiva sia opera dei saggi, poiché, come dice Crisippo[51], «la legge è saggezza, essendo retta ragione che ordina ciò che si deve fare e vieta ciò che non si deve... Nessuno stolto è seguace della legge né interprete di essa»[52].[49] Tuttavia, la convinzione che la facoltà di legiferare pertenga solo ai saggi conduce alcuni Stoici antichi, a causa dell'esasperato razionalismo che fa perdere loro il contatto con la storia[53], a posizioni utopistiche (alla stessa stregua di quelle platoniche allorché si conferisce nella Repubblica la reggenza dello Stato ideale ai filosofi, ma con la sola differenza che gli Stoici si riferiscono a una dimensione universale e non cittadina[53]) e la mancanza di livelli intermedi fra fra saggi e stolti, comporta che questi siano definiti «nemici, schiavi, stranieri fra loro»[54].[51]

In definitiva, ciò che importa rimarcare è che al centro del razionalismo stoico v'è l'idea di una legge che, essendo razionale, è universale. Alla legge della ragione obbediscono, dunque, tanto i saggi, quanto le leggi positive e lo Stato. L'etica e la politica stoica sono essenzialmente giusnaturalistiche e se, da un lato, queste possono essere vittime dell'astrattismo, dall'altro lato non può tacersi la funzione della dottrina del diritto naturale che, rifuggendo da ogni astrattismo, presuppone il dominio della ragione sull'attività politica e legislatrice. L'intuizione stoica nel campo etico godrà di una enorme fortuna, influenzando la filosofia romana e la teologia morale cristiana.[55]

Il diritto naturale nella filosofia romana

  Lo stesso argomento in dettaglio: Filosofia latina.

Benché i Romani fossero d'indole pratica e poco avvezzi alla meditazione filosofica, essi riuscirono a formulare, attraverso l'influenza greca, alcune dottrine, seppur non originali, incentrate sui temi del diritto, della giustizia, della società e dello Stato. Tuttavia, proprio in virtù della loro indole pratica (che rese possibile la fondazione della scienza giuridica), i Romani si riferirono alle filosofie greche meglio rispondenti ai problemi della vita quotidiana, prescegliendo non di rado orientamenti eclettici; nonostante ciò, anche a Roma vi furono seguaci delle tradizionali dottrine greche, soprattutto di quell'indirizzo Stoico che, presupponendo uno Stato universale, ben si adattava al temperamento severo ed austero dei latini e, cosa più importante, riusciva a giustificare l'esistenza dell'Impero romano.[56]

A Roma, dunque, accanto all'epicureismo (che ebbe come massimo interprete dell'argomento di cui si questiona il poeta Lucrezio, primo ideologo del contrattualismo)[57], ebbe fortuna, ma in misura molto maggiore, lo stoicismo che influenzò, oltre le filosofie di Seneca, Marco Aurelio ed Epitteto, gli orientamenti dei giureconsulti. Lo stoicismo romano, però, non è più quello dell'antica Stoá, giacché esso è vocato all'eclettismo, subendo l'influenza delle dottrine platoniche e aristoteliche che avevano segnato anche la Media Stoá di Panezio e Posidonio, nonché a un profondo senso religioso.[58]

 
Lucio Anneo Seneca.

Da un profondo sentimento religioso è infatti segnato il pensiero di Lucio Anneo Seneca, il quale postula un'ideale fratellanza fra tutti gli uomini, perché – come si legge nelle Lettere morali a Lucilio[59] – «siamo membra di un grande corpo; la natura ci ha generato parenti», ispirandoci amore reciproco e facendoci socievoli; stabilendo l'equo e il giusto.[60] Nel pensiero di Seneca manca, dunque, la rigida distinzione stoica fra «saggi» e «stolti», poiché, essendo tutti gli uomini consanguinei e fratelli, ogni uomo è, per il sol fatto di essere uomo, partecipe all'essenza divina, unica e immutabile.[60] Atteggiamento riconfermato anche in un'altra epistola, ove, riferendosi alla schiavitù, stabilisce che non esistono schiavi ma «uomini [...] compagni di schiavitù», perché «la sorte ha lo stesso potere tanto su noi quanto su loro».[61] Il panteismo stoico produsse in Seneca il convincimento «che è peggio far del male che riceverne»[59]; convincimento che lo condusse, secondo il racconto di Tacito, ad affrontare la pena capitale «impavido»[62].

 
Marco Aurelio Antonio.

Analoghi atteggiamenti caratterizzano il pensiero di Epitteto, per il quale tutti gli uomini sono fratelli perché figli di Dio[63], nonché quello dell'imperatore Marco Aurelio Antonino. Marco Aurelio, nello scritto A se stesso, stabilisce che ogni uomo, essere naturalmente razionale e cittadino del mondo[64], è parente del suo simile, amando financo «coloro che lo percuotono»[65], perché anche chi agisce male partecipa all'unico destino divino[66], essendo membro del corpo unico degli esseri razionali[67]. L'imperatore filosofo conclude la sua riflessione statuendo che «chi commette ingiustizia è un empio, perché, avendo la natura universale creato gli animali ragionevoli gli uni per gli altri, così che conviene che essi si giovino reciprocamente, e non si facciano del male, chi disobbedisce a questo volere commette manifesto sacrilegio contro la più veneranda delle divinità»[68].

Queste idee di uguaglianza e fratellanza che permeano il pensiero latino, pur fondandosi su una supposta essenza razionale comune a tutti gli uomini, ispireranno, da un lato, l'etica cristiana della teologia medievale e, dall'altro, in virtù del fondamento razionale di queste dottrine, correnti di pensiero giuridiche moderne.[69]

 
Marco Tullio Cicerone.

Il pensatore romano che concentrò maggiormente i suoi sforzi intellettuali sui temi della legge e dello Stato, pur non essendo, da quanto risulta dalle Epistulae ad Atticum[70], filosofo originale, fu Marco Tullio Cicerone, oratore forense e uomo politico, vissuto fra 106 a.C. e il 43 a.C..[71] La dottrina di Cicerone, caratterizzata dall'eclettismo (giacché esprimeva idee «non molto distanti dalle posizioni dei peripatetici», tentando di «essere contemporaneamente socratico e platonico»[72], secondo un orientamento congeniale alla filosofia di Panezio di Rodi, Posidonio di Apamea e di Antioco di Ascalona)[73] e da una conoscenza profonda delle questioni giuridiche, può considerarsi la prima vera filosofia del diritto. Nella sua ricerca speculativa intorno al diritto fu ispirato dalla dottrina della Media Stoá di Panezio, accentuandone l'accoglimento dell'aristotelismo, nonché dal platonismo eclettico di Antioco di Ascalona. Il metodo della ricerca filosofica adottato da Cicerone fu quello consistente nell'accoglimento delle conclusioni condivise dalle diverse scuole di pensiero che si erano avvicendate nel corso del tempo, perché, da quanto emerge dalle Tusculanae disputationes[74], il miglior criterio della verità è il consenso generale.[71]

Cicerone, nel De legibus, considerata la prima opera di filosofia del diritto della storia del pensiero[75], ricerca l'origine (fons) del diritto, la quale è rinvenibile non già nella legge positiva, bensì nella natura razionale dell'uomo, perché «la legge è ragione suprema insita nella natura, che comanda ciò che si deve fare e proibisce il contrario: ragione che, attuantesi nel pensiero dell'uomo, è appunto la legge»[76]. Da questa legge della ragione, uguale in ogni luogo e in ogni tempo, sorta prima della fondazione di ogni Stato e di ogni norma positiva, trae le mosse il principio del diritto.[77][75] L'ispirazione giusnaturalistica di Cicerone è manifestata anche in un altro luogo del De legibus, ove afferma che è «cosa stoltissima considerare giusto tutto ciò che sia stabilito nei costumi o nelle leggi dei popoli», perché «unico è il diritto che tiene unita la società umana, ed unica la legge che ne è fondamento, legge che consiste nella retta norma del comandare e del vietare; e colui che non la riconosce è ingiusto, stia essa scritta in qualche luogo o no»[78]. Se dovessimo concludere che la fonte del diritto è la legge positiva, prosegue Cicerone, si dovrebbe ritenere giusta ogni forma di sopruso o soperchieria approvata dal decreto o dal voto della massa, senza poter, in mancanza della legge naturale, distinguere fra la legge buona da quella cattiva.[79] La legge, dice il filosofo, «non è né un'invenzione di uomini, né una deliberazione di popoli, ma è qualcosa di eterno, destinato a governare tutto il mondo con la saggezza del suo comando e del suo divieto»[80], giacché «essa è la retta ragione divina»[81].

Cicerone, nel terzo libro del De re publica, ripropone con più forza l'esistenza di una legge assolutamente vera in opposizione allo scettico Carneade, assertore della vanità della giustizia[82], sostenendo: «Vi è una legge vera, ragione retta conforme alla natura, presente in tutti, invariabile, eterna, tale da richiamare con i suoi comandi al dovere, e da distogliere con i suoi divieti dall'agir male. [...] A questa legge non è possibile che si tolga valore né è lecito che in qualcosa si deroghi, né essa può essere abrogata; da questa legge non possiamo essere sciolti ad opera del senato o del popolo. [...] Essa non è diversa a Roma o ad Atene, non è diversa ora o in futuro: tutti i popoli invece, in ogni tempo, saranno retti da quest'unica legge eterna e immutabile; ed unico comune maestro, per così dire, e sovrano di tutti sarà Dio; di questa legge egli solo è l'autore, l'interprete, il legislatore; e chi non gli obbedirà rinnegherà se stesso, e, rifiutando la sua natura di uomo, per ciò medesimo incorrerà nelle massime pene, anche se potrà essere sfuggito ad altre punizioni»[83].

Nel passo citato del De re publica emergono chiaramente le tre concezioni del diritto naturale che storicamente si sono presentate (legge della natura, della ragione, della divinità) e ciò era possibile in virtù del panteismo stoico, secondo cui Dio, la natura e la ragione sono la stessa cosa.[82] Tuttavia, quello che è più importante rimarcare è che «chi non obbedirà [alla legge naturale] rinnegherà se stesso», ossia rifiuterà la sua natura umana e razionale. Da ciò si deduce che il diritto naturale è inteso come norma della ragione che l'uomo, in quanto uomo, dà a se stesso.[84] Questo passo del De re publica ha un'importanza fondamentale, perché permette il corretto intendimento non solo del giusnaturalismo ciceroniano, bensì di tutta l'antichità greco-romana.[84] Difatti, già dai presocratici, l'ordine della natura altro non era che il complesso delle necessità giuridiche e sociali trasferite al mondo fisico e, nel momento in cui si è definito con più accuratezza il significato di «giusto per natura», questo fu fatto coincidere con la retta ragione.[84] Ciò comporta che il diritto di natura non è una realtà oggettiva, esterna, subìta dai consociati, bensì rappresenta la loro essenza, la loro ragione che – usando le parole di Cicerone espresse nel De officiis – «regola la vita degli dèi e degli uomini»[85].

Obbedendo alla legge naturale l'uomo, secondo la visione ciceroniana, obbedisce sì alla natura divina, ma, inoltre, obbedisce a se stesso, secondo il senso proprio della parola autonomia: dare leggi a se stessi.[84]

Il diritto naturale nella giurisprudenza romana

  Lo stesso argomento in dettaglio: Diritto romano.

La lezione stoica proficuamente accolta da Cicerone, si trasfuse nella coscienza giuridica romana. I giureconsulti, però, non essendo filosofi, ne trassero scarsi e rozzi ammaestramenti, interpretando la natura (che per gli Stoici era permeata dalla ragione divina) come atavico istinto comune anche agli esseri irrazionali.[86] Ciò accadde specificamente nella definizione che ne diede Ulpiano, allorché stabilisce che «il diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli esseri animati; ed infatti questo diritto non è proprio del genere umano, bensì è comune a tutti gli esseri animati che nascono in terra ed in mare, ed anche agli uccelli. Di qui discende l'unione del maschio e della femmina, che noi chiamiamo matrimonio, di qui la procreazione e l'allevamento dei figli; e infatti vediamo che anche agli altri animali, perfino a quelli selvaggi, si attribuisce la pratica di questo diritto»[87]. Questo passo di Ulpiano sarà inserito nel Digesto giustinianeo (D. 1, 1, 1, 3) e insieme all'intero Corpus iuris civilis costituirà oggetto di studio per le scuole giuridiche medievali.[86][88]

  • Gaio propende per una bipartizione del diritto, cioè che il diritto si divida in ius civile, creazione artificiale della civitas, e in ius gentium o ius naturale, diritto comune ai popoli e che trova la sua ragion d'essere nella naturalis ratio, cioè in una ragione naturale, dunque ritenuto anche eticamente migliore poiché ispirato dalla natura: in questa visione la schiavitù è considerata come una situazione naturale già predisposta dalla stessa natura;
  • Ulpiano propende per una tripartizione del diritto; come Gaio, pensa che il ius civile sia creazione artificiale, ma va oltre affermando che il ius gentium riguarda un regolamento per i soli uomini, mentre il ius naturale sarebbe quello di tutte le creature viventi: in questo caso la condizione di schiavo viene vista come una condizione predisposta dal diritto e non riconducibile alla condizione naturale dell'uomo.

Il giusnaturalismo medievale

  Lo stesso argomento in dettaglio: Patristica e Scolastica (filosofia).
 
San Tommaso d'Aquino.

Il problema della dottrina giusnaturalistica medievale è quello della conoscibilità del diritto naturale.[89] A tale questione i medievali rispondono asserendo che Dio, avendo donato la ragione a ogni uomo, ha reso capace quest'ultimo di conoscere i supremi princìpi dell'agire morale attraverso la naturalis ratio.[89] Ciò che nella concezione teologizzante medievale facilita la conoscibilità all'uomo della legge naturale è la rivelazione della Legge e del Vangelo.[89] Tuttavia, pur ritenendo necessaria tale rivelazione, giacché essa è finalizzata a illuminare l'umana coscienza oscurata dal peccato, la filosofia teologica medievale, prima Patristica e successivamente Scolastica, ritengono che si possa avere ugualmente una imperfetta conoscenza dei precetti della legge naturale. Tale visione è suffragata da un passo della Lettera ai Romani di San Paolo Apostolo (Rom. 2,14-15), che recita: «Quando i pagani che non hanno legge compiono per natura le cose della legge, questi pur non avendo legge sono legge a se stessi. Essi mostrano scritta nei loro cuori l'opera della legge [...]». Questa tesi fu recisamente sostenuta da Abelardo, Guglielmo di Auxerre e da Alberto Magno.[89] Proprio Alberto Magno, anticipando la visione del suo discepolo San Tommaso d'Aquino, concepisce il diritto naturale come il diritto umano nei suoi princìpi più comuni e universali. Ciononostante, è solo con Tommaso d'Aquino che si pongono i confini fra conoscenza razionale e conoscenza per fede. In ragione di tali confini, Tommaso d'Aquino riconduce la legge naturale alla ragione dell'uomo.[89] È doveroso precisare che il nesso fra ragione e legge naturale dianzi citato, nell'interpretazione scolastica resta sempre legato a una concezione razionale orientata teologicamente. Ciò è icasticamente rappresentato da Tommaso d'Aquino allorché, in un passo della sua Summa Theologiae[90], mette in relazione la legge naturale con la legge eterna.[89] Quel che è estraneo alle preoccupazioni della dottrina teologica medievale, è il tentativo di ricostruire sistematicamente tutti i princìpi del diritto naturale. I filosofi scolastici insistono maggiormente su precetti tratti dal Decalogo mosaico o su massime ancor più generali come quella di non far ad altri ciò che non si vorrebbe fatto a se stessi.[89]

Il giusnaturalismo dell'età moderna

A seguito della rottura dell'unità religiosa occasionata dalla Riforma protestante[91] la moderna corrente giusnaturalistica si svincola da ogni fede ispirandosi al razionalismo cartesiano[92] e concentrando l'analisi filosofica sulla ricerca delle leggi generali in grado di realizzare la convivenza sociale.[91] La nuova interpretazione del diritto naturale prese le mosse dalla necessità di formulare un nuovo diritto internazionale in grado di assicurare una pacifica convivenza fra le nazioni europee.[91]

 
Alberico Gentili.

I primi tentativi di formulare un nuovo concetto di diritto naturale partendo dall'interrogativo sulla liceità della guerra sono rinvenibili nell'opera del 1588 di Alberico Gentili intitolata De iure belli. Gentili sostiene l'illiceità della guerra, giacché tutti gli esseri umani costituiscono un'unica sostanza e sono legati insieme da una consonanza affettiva. In tale visione, il diritto naturale si riviene nell'istinto ancestrale e immutabile che conduce ogni essere umano all'unità.[93] Dunque, l'uomo per natura non è nemico del suo prossimo e nello Stato di natura non vi sarebbe alcuna guerra. La guerra, al contrario, nascerebbe allorquando gli uomini si rifiutassero di seguire la natura. Gentili, però, distingue due tipi di guerra: una guerra giusta rappresentata dalla guerra di difesa, dacché la difesa è un diritto innato dell'uomo; una guerra ingiusta costituita dalla guerra di offesa e di religione, perché nessuno può essere astretto a professar un culto, dunque, la religione dev'essere libera. Ciononostante, in guerra non vengono meno i diritti naturali, perché essi sono propri dell'umanità.[93]

 
Johannes Althusius.

Coevo di Gentili, Johannes Althusius, richiamando Jean Bodin, formula nella sua opera del 1603, intitolata Politica methodice digesta, il principio della sovranità popolare (qualificandolo come unico, indivisibile e intrasmissibile), elevandolo a criterio di legittimità vitale dello Stato.[93] Althusius sostiene che ogni comunità umana s'istituisca tramite un contratto (pactum unionis), sia esso tacito o espresso, che comporta la nascita di un organismo vivente. Tale contratto si fonda su un sentimento naturale e viene regolato dalle leggi, le quali si distinguono in leges communicationis, regolanti i rapporti fra i consociati, e leges directionis et gubernationis, regolanti i rapporti fra i consociati e l'autorità governativa.[93] Althusius definisce lo Stato come «una comunità pubblica universale per la quale più città e province si obbligano a possedere, costituire, esercitare e difendere la sovranità mediante la mutua comunicazione di cose e di opere e con forze e a spese comuni».[93] Nella interpretazione della sovranità popolare di Althusius il principe è un mero magistrato il cui potere proviene dal contratto sociale. Affiancano il principe gli efori che esercitano i diritti popolari nei suoi confronti. Nel caso in cui il popolo venisse meno ai patti, il principe si riterrebbe liberato dai suoi obblighi; ma se fosse il principe a rompere il patto, al popolo spetterebbe di scegliere un nuovo principe o di redigere una nuova costituzione. Ancorché Althusius conferisca larghi poteri al popolo, egli nega ogni libertà religiosa. Ciò è dovuto alla sua intransigenza calvinista che lo porta a ritenere che solo lo Stato può farsi promotore della religione, condannando all'ostracismo gli atei e i miscredenti.[93] Questi temi sono ricorrenti anche nel pensiero del francese François Hotman, ugonotto e avversario della Chiesa. Come Althusius, Hotman ritiene che i poteri pubblici provengano da un originario patto sociale e non da Dio.[94]

 
Ugo Grozio.

Il maggior impegno volto alla formulazione di un nuovo diritto internazionale, però, è rinvenibile nel pensiero dell'olandese Ugo Grozio, il quale, riprendendo le argomentazioni del suo connazionale Erasmo da Rotterdam[95] e della seconda Scolastica spagnola (specialmente di Francisco Suárez e Gabriel Vásquez), può considerarsi il vero iniziatore del giusnaturalismo moderno.[91]
Nell'opera del 1625 intitolata De iure belli ac pacis, Grozio, dovendo discutere del ius gentium e della liceità della guerra, premette alcune considerazioni sul diritto positivo. Tali considerazioni, inserite nei Prolegomeni (considerati la parte filosoficamente più importante dell'opera)[6], contengono la ripulsa nei confronti della riduzione del diritto positivo a mero sistema di norme arbitrarie e relative, nonché l'auspicio che il diritto positivo si fondi su princìpi universalmente validi, scaturiti dalla natura razionale dell'uomo.[6] Questi princìpi universali, derivanti dalla natura razionale dell'uomo, costituiscono il diritto naturale, definito da Grozio come «una norma della retta ragione la quale ci fa conoscere che una determinata azione, secondo che sia o no conforme alla natura razionale, è moralmente necessaria oppure immorale e che per conseguenza tale azione è da Dio, autore della natura, prescritta oppure vietata».[96] Nell'impostazione teorica di Grozio il diritto naturale, derivando dall'essenza razionale comune a ogni uomo, ha una valenza assoluta, eguale a quella dei princìpi matematici. Sulla base di questa eguaglianza Grozio asserisce che, come Dio non può mutare i princìpi matematici, così non potrebbe mutare i princìpi del diritto di natura e questi ultimi rimarrebbero validi e intangibili anche nell'esecranda ipotesi in cui Dio non esistesse o non si curasse delle cose umane. Partendo da tali presupposti, Ugo Grozio costruisce la nuova impostazione laica del giusnaturalismo, giacché il fondamento universale del diritto naturale è adesso rinvenibile non in un ordine trascendentale, ma entro la natura razionale umana.[6] Contenuto essenziale del diritto naturale, per Grozio, è mantenere i patti da cui deriva il rispetto della proprietà, l'obbligo di mantenere le promesse, il poter essere soggetti a pene fra gli uomini. Ma, tralasciando il contenuto del diritto naturale, ciò che rileva nella nuova visione giusnaturalistica è il fondamento del diritto sulla natura umana intesa come razionalità (dunque, può parlarsi di una posizione soggettivistica da cui scaturisce il diritto).[6]

Due dei più noti giusnaturalisti sono: Thomas Hobbes (1588-1679) e John Locke (1632-1704). Il primo dei due va ricordato essenzialmente per essere stato uno dei maggiori sostenitori della dottrina secondo cui, bisognerebbe conferire "pieni poteri" nelle mani di un unico individuo. I tre poteri (giudiziario, esecutivo e, legislativo) sono da intendersi, dunque, come una sorta di strumento nelle mani del sovrano per assicurare l'ordine in una data società. Nella fattispecie Thomas Hobbes ritiene che l'uomo, affinché riesca ad uscire da quello stadio della vita definito "stato naturale" o "di natura" caratterizzato dalla bellum omnium contra omnes, debba necessariamente stipulare un pactum leonino, ovviamente immaginario, con il principe in base al quale quest'ultimo gli garantisce tranquillità e pace in cambio di una totale obbedienza. Trattasi quindi, di assolutismo puro entro il quale opera il principe che, essendo fonte della legge, non è tenuto a rispettarla: si parlerà quindi di solutus legibus.

Poco dopo Locke nella sua opera "Secondo trattato sul governo civile" illustrerà il suo pensiero al riguardo, partendo sempre dal suddetto "stato di natura". Si percepisce subito una filosofia che si distacca dalla concezione dell'homo homini lupus per approdare invece ad un'altra ipotesi che vede l'uomo calato in uno stato di natura retto dalla pacifica coesistenza e, soprattutto, uno stato naturale governato da tre principi "nuovi": ragione, eguaglianza, libertà. L'uomo possiede dei diritti innati (diritto alla vita; alla libertà; alla proprietà; alla salute) la cui custodia spetta al principe; è il sovrano a dover salvaguardare tali diritti. Ancora una volta, tra il governante e i governati si deve stipulare un patto sociale che soprattutto deve essere rispettato da ambedue le parti (pacta sunt servanda cit. Grozio). A tal proposito il filosofo inglese pone in evidenza il fatto che, la ribellione non è altro che la conseguenza della mancata conservazione di tale pactum . In aggiunta Locke preferisce vedere il potere legislativo e quello esecutivo separati e attribuiti ad organi diversi, non è difficile intuire che il medesimo avesse come modello di riferimento la situazione recente dell'Inghilterra. In Locke trovano quindi le loro fondamenta il costituzionalismo e il garantismo moderni.

Un autore molto importante che ha approfondito il diritto naturale del '900 è stato sicuramente Murray Newton Rothbard; a differenza di molti suoi predecessori è però arrivato a conclusioni diverse: criticò fortemente la teoria del contratto sociale di Hobbes e dello stesso Jean-Jacques Rousseau; l'interpretazione del diritto naturale data dal filosofo e scrittore americano è alla base dell'anarco-capitalismo, teoria che propone la cancellazione di ogni autorità statale a fini liberistici, in ossequio al "mito" della capacità autonormativa del mercato, considerato, cioè, metro di misura dei rapporti sociali e, quasi personalizzandolo, in grado di porre da sé le proprie regole e, quindi, il proprio ordine e, più in assoluto, l'ordine sociale.

Autori

Note

  1. ^ Thomas Hobbes, Leviathan sive De Materia, Forma, et Potestate Civitatis Ecclesiasticae et Civilis, Joannem Bohn, Londra 1841, p. 102.
  2. ^ Thomas Hobbes, Leviatano, Editori Laterza, Roma-Bari 2011, p. 105.
  3. ^ a b c d e f g G. Fassò, p. 30.
  4. ^ G. Fassò, p. 8.
  5. ^ A. Falzea, pp. 38-41.
  6. ^ a b c d e f F. Adorno; T. Gregory; V. Verra, pp. 218-221.
  7. ^ a b N. Abbagnano, pp. 621-622. voce Diritto.
  8. ^ G. Fassò, p. 19.
  9. ^ a b G. Fassò, p. 330.
  10. ^ N. Bobbio, p. 23.
  11. ^ N. Bobbio, pp. 14-16, 155-157.
  12. ^ a b c d e G. Fassò, pp. 19-21.
  13. ^ Sofocle, vv. 450-457.
  14. ^ Sofocle, vv. 865-870.
  15. ^ a b Nicola Abbagnano, Storia della filosofia. I. Il pensiero greco e cristiano: dai Presocratici alla scuola di Chartres, Utet, Torino 1993, p. 90.
  16. ^ G. Fassò, pp. 25-26.
  17. ^ G. Fassò, p. 26.
  18. ^ Diels-Kranz, 80, B1.
  19. ^ G. Fassò, p. 21.
  20. ^ G. Fassò, pp. 26-27.
  21. ^ G. Fassò, pp. 23, 25.
  22. ^ a b Platone, 483b.
  23. ^ Platone, 484a.
  24. ^ a b G. Fassò, p. 28.
  25. ^ G. Fassò, p. 29, nota 7: «Platone, Protagora, 24, 337b».
  26. ^ G. Fassò, p. 29, nota 8: «Aristotele, Retorica, I, 13, 1373b, scolio».
  27. ^ Diels-Kranz, 87, B44, A 1-4.
  28. ^ Diels-Kranz, 87, B44, B 2.
  29. ^ G. Fassò, p. 29.
  30. ^ G. Fassò, p. 72.
  31. ^ Aristotele, p. 496, nota 498: «Il Parafrasaste, 101, 28, e Stewart, 492-493, intendono il passo nel senso che, prima della formulazione del giusto legale, l'atto non è né giusto né ingiusto; Rackham, 293, e Irwin, 133, invece intendono che, prima della formulazione, l'atto è giusto, ma non ha importanza se venga realizzato in un certo modo o in un altro, mentre dopo l'accordo sulla quantità diviene giusto solo l'agire in un certo modo particolare. L'esempio, il sacrificare una capra e non due pecore, si adatta meglio alla seconda interpretazione».
  32. ^ a b Aristotele, V, 1134b.
  33. ^ a b c d G. Fassò, p. 73.
  34. ^ G. Fassò, p. 73, nota 37: «Aristotele, Grande Etica, I, 33, 1195a».
  35. ^ G. Fassò, p. 73, nota 38: «Aristotele, Retorica, I, 10, 1368b, e 13, 1373b [...]».
  36. ^ G. Fassò, p. 73, nota 39: «Aristotele, Grande Etica, I, 33, 1195a».
  37. ^ Aristotele, III, 16, 1287a.
  38. ^ Aristotele, I, 2, 1252a.
  39. ^ Aristotele, I, 2, 1252b.
  40. ^ G. Fassò, p. 74.
  41. ^ G. Fassò, p. 75.
  42. ^ G. Fassò, p. 80.
  43. ^ a b G. Fassò, p. 81.
  44. ^ G. Fassò, pp. 81-82.
  45. ^ G. Fassò, p. 82, nota 4: «Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, I, 179 [...]».
  46. ^ G. Fassò, p. 82, nota 5: «Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, I, 552».
  47. ^ G. Fassò, p. 82, nota 6: «Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, I, 555».
  48. ^ G. Fassò, p. 82.
  49. ^ a b c d G. Fassò, p. 83.
  50. ^ G. Fassò, p. 83, nota 7: «Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, I, 537, v. 35».
  51. ^ a b G. Fassò, p. 84.
  52. ^ G. Fassò, p. 83, nota 7: «Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, III, 613».
  53. ^ a b G. Fassò, p. 86.
  54. ^ G. Fassò, p. 84, nota 13: «Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, III, 625».
  55. ^ G. Fassò, pp. 86-87.
  56. ^ G. Fassò, pp. 96-97.
  57. ^ G. Fassò, pp. 97-99.
  58. ^ G. Fassò, p. 99.
  59. ^ a b G. Fassò, p. 100, nota 6: «Seneca, Ad Licilium epistulae morales, XV, 95, 52».
  60. ^ a b G. Fassò, p. 100.
  61. ^ G. Fassò, p. 100, nota 8: «Seneca, Ad Licilium epistulae morales, V, 47, 1».
  62. ^ Publio Cornelio Tacito, Annali, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1985, p. 753.
  63. ^ G. Fassò, p. 100, nota 9: «Epitteto, Dissertazioni, I, 3, 1; I, 13, 3».
  64. ^ G. Fassò, p. 100, nota 11: «Marco Aurelio, A se stesso, VI, 44».
  65. ^ G. Fassò, p. 100, nota 10: «Marco Aurelio, A se stesso, VII, 22, 31; VIII, 26».
  66. ^ G. Fassò, p. 101, nota 12: «Marco Aurelio, A se stesso, II, 1».
  67. ^ G. Fassò, p. 101, nota 13: «Marco Aurelio, A se stesso, VII, 13».
  68. ^ G. Fassò, p. 101, nota 14: «Marco Aurelio, A se stesso, IX, 1».
  69. ^ G. Fassò, p. 101.
  70. ^ Nicola Abbagnano, Storia della filosofia. I. Il pensiero greco e cristiano: dai Presocratici alla scuola di Chartres, Utet, Torino 1993, p. 374: «Cicerone stesso riconobbe la sua dipendenza dalle fonti greche dicendo delle sue opere filosofiche in una lettera Ad Attico (XII, 52, 3): "Mi costano poca fatica, perché di mio ci metto solo le parole, che non mi mancano"».
  71. ^ a b G. Fassò, p. 103.
  72. ^ Cicerone, I, 1.
  73. ^ Cicerone, p. 314, nota 3: «[...] Cicerone tentò una conciliazione tra la prospettiva platonica e quella peripatetica, al punto di essere considerato l'esponente di punta del cosiddetto "eclettismo", un indirizzo filosofico che, in linea con gli insegnamenti Panezio di Rodi, di Posidonio di Apamea, di Antioco di Ascalona, tende ad assumere come criterio di verità il comune senso e a porre il "conveniente" alla base di ogni atteggiamento morale».
  74. ^ G. Fassò, p. 103, nota 17: «Cicerone, Tusculanae disputationes, I, 13, 30».
  75. ^ a b G. Fassò, p. 105.
  76. ^ G. Fassò, p. 105, nota 22: «Cicerone, De legibus, I, 6, 18».
  77. ^ G. Fassò, p. 105, nota 23: «Cicerone, De legibus, I, 6, 19».
  78. ^ G. Fassò, p. 105, nota 24: «Cicerone, De legibus, I, 15, 42».
  79. ^ G. Fassò, p. 105, nota 25: «Cicerone, De legibus, I, 16, 43-44».
  80. ^ G. Fassò, p. 106, nota 26: «Cicerone, De legibus, II, 4, 8».
  81. ^ G. Fassò, p. 106, nota 27: «Cicerone, De legibus, II, 4, 10».
  82. ^ a b G. Fassò, p. 106.
  83. ^ G. Fassò, p. 106, nota 29: «Cicerone, De re publica, III, 22, 33».
  84. ^ a b c d G. Fassò, p. 107.
  85. ^ Cicerone, III, 23.
  86. ^ a b G. Fassò, p. 24.
  87. ^ G. Fassò, p. 118, nota 19: «Digesto, 1, 1, 1, 3».
  88. ^ G. Fassò, p. 25.
  89. ^ a b c d e f g Angelo Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche. Il concetto del diritto: Capitolo secondo. Le principali concezioni del diritto - § 1. - Il diritto come valore ideale sostanziale: il giusnaturalismo. 4. Il giusnaturalismo nella cultura medievale. Pagine 41-45; Giuffrè Editore, 2008. ISBN 8814137781
  90. ^ Angelo Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche. Il concetto del diritto: Capitolo secondo. Le principali concezioni del diritto - § 1. - Il diritto come valore ideale sostanziale: il giusnaturalismo. 4. Il giusnaturalismo nella cultura medievale. Nota 10: «S. Th., I-II, 91, 2 [...]». Pagina 45; Giuffrè Editore, 2008. ISBN 8814137781
  91. ^ a b c d Angelo Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche. Il concetto del diritto: Capitolo secondo. Le principali concezioni del diritto - § 1. - Il diritto come valore ideale sostanziale: il giusnaturalismo. 5. Il giusnaturalismo nell'età moderna. Pagine 46-49; Giuffrè Editore, 2008. ISBN 8814137781
  92. ^ Nicola Abbagnano, Storia della filosofia. Volume 10. Dizionario di filosofia (aggiornato e ampliato da Giovanni Fornero): A-ESO. Diritto: 1. Il diritto naturale. b) Il giusnatualismo moderno. Pagina 627; Gruppo Editoriale L'Espresso, 2006.
  93. ^ a b c d e f Nicola Abbagnano, Storia della filosofia. Volume 2. Il pensiero medievale e rinascimentale: Dal Misticismo a Bacone: Sezione quarta - La filosofia del Rinascimento. Capitolo II - Rinascimento e politica: § 348. Il giusnaturalismo. Pagine 494-502; Gruppo Editoriale L'Espresso, 2006.
  94. ^ Ennio Cortese, Le grandi linee della storia giuridica medievale. Parte seconda - L'età del diritto comune. I: Scuole e scienza. Capitolo VIII - Questioni di metodo e svolte culturali. L'umanesimo giuridico. § 7. Francesco Hotman e l'antitribonianismo. Pagine 409-411; Il Cigno GG Edizioni, 2007. ISBN 88-7831-103-0
  95. ^ Salvatore Guglielmino/Hermann Grosser, Il sistema letterario. Guida alla storia letteraria e all'analisi testuale: Cinquecento e Seicento. Capitolo 1. L'età della Controriforma. 1.2. Nasce l'Europa moderna. Pagine 9-14; Casa Editrice G. Principato S.p.A., 1988.
  96. ^ Ugo Grozio, Prolegomeni al diritto della guerra e della pace (a cura di Guido Fassò), op. cit. p. 67, Morano Editore 1979
  97. ^ a b c Hobbes, Rousseau e Kant non sono da considerare, per molteplici aspetti, dei veri e propri teorici del diritto naturale, ma dei contrattualisti che hanno preso le mosse dalla tradizione del giusnaturalismo per sviluppare delle forme di giuspositivismo.

Bibliografia

Voci correlate

Collegamenti esterni

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