Alessandro Pavolini e Wikipedia:Pagine da cancellare/Conta/2019 giugno 8: differenze tra le pagine

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{{P|La parte iniziale (fino al '43) comprende in larga parte una serie di citazioni, inserite ad hoc per screditare il personaggio ed evidenziare esclusivamente aspetti negativi. Manca di moltissimi riferimenti alla politica. Ad esempio non si parla dei fasci dissidenti, non si parla delle azioni eclatanti contro la massoneria, non si parla del periodo fino al '26-28 e del ruolo preminente assunto dalla federazione fiorentina di Pavolini contro il fascismo ufficiale e dello scontro con esso, etc|biografie|giugno 2010}}
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{{Bio
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|Nome = Alessandro
{{Conteggio cancellazioni/In corso/Voce|i = 2 |voce = Aiuto:Criteri di enciclopedicità/Partiti politici |turno = |tipo = consensuale |data = 2019 giugno 8 |multipla = |argomenti = politica, pagine di servizio |temperatura = 89 }}
|Cognome = Pavolini
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|Sesso = M
{{Conteggio cancellazioni/In corso/Voce|i = 4 |voce = Lillian Raines |turno = |tipo = semplificata |data = 2019 giugno 8 |multipla = |argomenti = Televisione |temperatura = 17 }}
|LuogoNascita = Firenze
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|GiornoMeseNascita = 27 settembre
{{Conteggio cancellazioni/In corso/Voce|i = 6 |voce = Nikolai di Danimarca |turno = |tipo = semplificata |data = 2019 giugno 8 |multipla = |argomenti = nobiltà, biografie |temperatura = 7 }}
|AnnoNascita = 1903
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|LuogoMorte = Dongo
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|GiornoMeseMorte = 28 aprile
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|AnnoMorte = 1945
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|Attività = giornalista
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|Epoca = 1900
|Attività2 = politico
|Attività3 = scrittore
|Nazionalità = italiano
|PostNazionalità = , [[ministro della Cultura popolare]] e segretario del [[Partito fascista repubblicano]]
}}
 
== Ambito familiare e formazione ==
 
Figlio di [[Paolo Emilio Pavolini|Paolo Emilio]], [[poesia|poeta]] e [[filologia|filologo]] (studioso di [[lingua (idioma)|lingue]] nord orientali europee e professore di [[sanscrito]]), [[Livorno|livornese]] originario dell'[[isola d'Elba]], nacque nell'aristocratica ed antica residenza fiorentina occupata dalla famiglia in [[via San Gallo]] 57.
 
Secondo i biografi, il giovane Alessandro avrebbe mostrato una precocissima attitudine al giornalismo, redigendo nel [[1911]], a soli otto anni, con l'aiuto del fratello [[Corrado Pavolini|Corrado]], un foglio ciclostilato dal titolo "La guerra" in appoggio alla [[campagna di Libia]]. Qualche anno più tardi sarebbe stata la volta di un'analoga iniziativa volta ad esaltare l'intervento italiano nella [[prima guerra mondiale]] su un foglio dal titolo "Il Buzzegolo", nome derivante da un soprannome familiare del giovane Alessandro.
 
Dal [[1916]] al [[1920]] frequentò il ginnasio ed il liceo classico presso l'istituto "Michelangelo".
Si iscrisse quindi alla facoltà di Legge dell'Università di Firenze ed a quella di Scienze Sociali di Roma, mentre iniziava le prime esperienze letterarie ed alternava l'impegno culturale a quello politico.
[[Immagine:Disperata firenze apm11.jpg|thumb|right|250px|"La Disperata", squadra d'azione di Firenze cui Ciano dedicherà il nome della sua squadriglia di bombardieri.]]
 
Nel [[1920]] aderì al Fascio di [[Firenze]] e partecipò a varie azioni nelle [[squadrismo|squadre d'azione]] del conte [[Dino Perrone Compagni]], rimanendo allo stesso tempo amico di [[Carlo Rosselli|Carlo]] e [[Nello Rosselli]]<ref name="Asse, Rizzoli 1980">[[Indro Montanelli]], [[Mario Cervi]], ''L'Italia dell'Asse'', Rizzoli, 1980.</ref>.
 
Nel [[1922]], mentre si stava svolgendo la [[Marcia su Roma]], si trovava nella [[Roma|Capitale]] per sostenere un esame universitario e colse l'occasione per unirsi al gruppo di fascisti proveniente da Firenze. Ciò gli permise di essere considerato come partecipante all'evento e quindi di ottenere il [[Brevetto della Marcia su Roma]]<ref>Legge N° 100 del 31 gennaio 1926</ref>, requisito che tra l'altro concedeva una serie di preferenze e benefici durante il regime.<ref> La Grande Storia, [[RAI Radiotelevisione Italiana|RAI]], ''Alla corte di Mussolini'', di Enzo Antonio Cicchino</ref>
 
Tra il [[1923]] ed il [[1924]] svolse il servizio militare come [[sottotenente]] dei [[Bersaglieri]], ottenendo il grado di centurione della [[MVSN]] al suo congedo.
 
Nel [[1927]], durante le vacanze estive passate a [[Castiglioncello]] (passate dedicandosi spesso e con discreto successo al [[tennis]]), conobbe la futura moglie, Teresa Franzi, nipote di un senatore e figlia di un affermato ingegnere milanese. La sposò nel [[1929]] e la coppia ebbe tre figli, Ferruccio ([[1930]]), Maria Vittoria ([[1931]]) e Vanni ([[1938]]).
 
== L'attività politica, culturale e giornalistica ==
Nel [[1924]] si [[laurea|laureò]] contemporaneamente in [[Legge]] a [[Firenze]] ed in [[Scienze Sociali]] a [[Roma]]. Nello stesso anno partecipò alla contestazione del docente antifascista [[Gaetano Salvemini]], all'università di Firenze. Alla manifestazione assistette [[Piero Calamandrei]], che in seguito prese parte all'[[attentato di via Rasella]] e che ricordò:
 
{{quote| Soprattutto mi restarono impressi, nei cento volti di quella canea urlante, gli occhi di Alessandro Pavolini, allora studente di legge, che capeggiava quell'impresa: egli mi guardava senza parlare con occhi così pieni di acuminato odio che quasi ne rimasi affascinato come se fossero occhi di un rettile: c'era già in quegli occhi la spietata crudeltà di colui al quale vent'anni dopo, alla vigilia della liberazione della sua città, doveva essere riservata la gloria di organizzare i franchi tiratori, incaricati di prendere a fucilate dai tetti le donne che uscivano durante l'emergenza a far provvista d'acqua. |[[Piero Calamandrei]]<ref>Come riportato in [[Mimmo Franzinelli]], ''Squadristi - Protagonisti e tecniche della violenza fascista 1912-1922'', Mondadori, 2003.</ref>}}
 
Successivamente ricoprì vari incarichi negli istituti di [[cultura]] e nei movimenti giovanili fascisti (fu ad esempio addetto stampa della Legione Ferrucci). Collaborò a ''[[Battaglie fasciste]]'', ''[[Rivoluzione fascista (giornale)|Rivoluzione fascista]]'' e a ''Critica fascista''. Pubblicò il [[romanzo]] ''Giro d'Italia'' e compose poesie di tema crepuscolare.
 
Nel maggio del [[1927]] fu nominato vice Federale di [[Firenze]].
 
Nel [[1929]] successe, appena ventiseienne, al [[marchese]] [[Luigi Ridolfi Vay da Verrazzano|Luigi Ridolfi]] alla carica di segretario della federazione provinciale<ref>Carica più nota come "Federale".</ref> del [[Partito Nazionale Fascista|PNF]] di Firenze. In questo ruolo promosse la realizzazione dell'[[autostrada Firenze-Mare]] e della centrale [[Stazione di Santa Maria Novella]], ed istituì il [[Maggio Musicale Fiorentino]].
 
Sempre nel 1929 fondò la rivista ''[[Il Bargello]]'', organo della federazione e rivista letteraria. Tra il [[1926]] e il [[1932]] fece sporadici interventi su ''[[Solaria]]'' e collaborò saltuariamente a riviste letterarie.
 
Eletto [[deputato]] nel [[1934]], collaborò con [[Giuseppe Bottai]] all'ideazione dei [[Littoriali della cultura e dell'arte]].
 
Dal 1934 al [[1942]] fu stabilmente al ''[[Corriere della sera]]'' come inviato speciale.
 
Dal [[29 ottobre]] [[1934]] al [[23 novembre]] [[1939]] fu presidente della [[Corporativismo#Le_corporazioni_durante_il_regime_fascista|Confederazione fascista dei professionisti e artisti]] e membro del [[Corporativismo|Consiglio Nazionale delle Corporazioni]].
 
{{cn|Strinse amicizia con [[Galeazzo Ciano]], con il quale condivideva il piacere per la bella vita ed un'idea del fascismo alquanto distante da quella propugnata da [[Achille Starace|Starace]].}}
Ciano lo protesse e lo difese a più riprese, più di quanto non avesse mai fatto per qualsiasi altro<ref>[[Giordano Bruno Guerri]], "Galeazzo Ciano - una vita (1903-1944)", Mondadori, Milano, 2005, p. 620 ISBN 88-04-48657-0></ref>, una prima volta nel [[1935]] quando a Mussolini giunse una segnalazione nella quale, dopo essere stato ridicolizzato come combattente, veniva accusato di cumulare incarichi e prebende sino a mettere assieme stipendi da favola<ref>Si scrisse al Duce che Pavolini guadagnasse al mese 17.000 lire, al tempo una fortuna; Ciano lo aiutò a scrivere - diversi autori (tra i quali [[Giordano Bruno Guerri]], "Galeazzo Ciano - una vita (1903-1944)", Mondadori, Milano, 2005, p. 621 ISBN 88-04-48657-0) sottintendono in pratica sotto dettatura - una risposta nella quale dettagliava di percepirne "«solo 9950» (che non erano poco)". Così Giordano Bruno Guerri alle pagine citate: "Fra tutti gli uomini del fascismo Pavolini è quello più «costruito» da Ciano, senza il quale - a differenza per esempio di Alfieri - non sarebbe giunto oltre la carica di federale. [...] Fin dall'Etiopia lo difende e lo aiuta in tutti i modi, più di quanto abbia fatto con qualsiasi altro. Un episodio emblematico del 1935: a Mussolini era giunta un'«informazione» (delazione) dove Pavolini dopo essere stato ridicolizzato come combattente veniva accusato di cumulare cariche e prebende per 17.000 lire mensili, una cifra enorme. Ciano, saputa la cosa, fece stendere a Pavolini una dichiarazione secondo la quale guadagnava «solo 9950 lire» (che non era poco)..."</ref> ed in almeno un'altra occasione, nel novembre 1937, quando Mussolini espresse a Ciano dubbi sul "lealismo politico" di Pavolini.<ref>Galeazzo Ciano, ''Diari'', nota 21 novembre 1937.</ref>
 
Almeno sino al 1939 Pavolini si mantenne, in pubblico, vicino al sentimento antitedesco di Ciano, tanto che in occasione dell'[[Occupazione tedesca della Cecoslovacchia|occupazione della Boemia]] esclamò:
 
{{quote| Ecco l'occasione buona per mettere a posto per sempre la Germania.<ref>Come riportato in [[Giordano Bruno Guerri]], "Galeazzo Ciano - una vita (1903-1944)", Mondadori, Milano, 2005, p. 446 ISBN 88-04-48657-0)</ref>}} {{cn|e l'eco di tale dichiarazione giunse sino a Berlino}}.
 
==La guerra d'Abissinia e la relazione con Doris Duranti==
Nello stesso periodo l'attrice [[Doris Duranti]], [[diva]] del [[cinema]] dei "[[Cinema dei telefoni bianchi|telefoni bianchi]]", divenne sua amante e lo resterà sino all'ultimo, quando Pavolini, alla vigilia della sua tragica fine, la fece rifugiare in [[Svizzera]].
 
Iniziò a scrivere per il [[Corriere della sera]]. Da ricordare un articolo in cui si scagliò contro la stampa estera, affermando che gli stranieri fossero «lividi d'ira e d'invidia perché hanno la precisa coscienza del livello morale che passa tra i nostri giornali, araldi di un'idea, e quelli delle "grandi democrazie", asserviti alla [[massoneria]] e all'affarismo».
 
Partecipò alla [[guerra d'Etiopia]] come [[tenente]] osservatore nella 15<sup>a</sup> squadriglia da [[bombardamento]] comandata da Ciano, detta "''la Disperata''"<ref>"La disperata" era il nome di una delle [[squadre d'azione]] di Firenze ed uno dei nomi più frequentemente utilizzati dallo [[squadrismo]].</ref>, operandovi contemporaneamente quale inviato speciale del ''Corriere della Sera''.
[[Immagine:Pavolini e La Disperata in AOI 1935.jpg|thumb|right|250px|Pavolini appoggiato alla carlinga di uno dei velivoli della squadriglia di bombardieri "La Disperata"]]
 
Pavolini raccontò la sua esperienza bellica nel libro di memorie di guerra ''Disperata'', pubblicato da [[Vallecchi]] a Firenze nel [[1937]].
Il libro ha toni analoghi a quelli dei memoriali redatti da altri illustri reduci della conquista abissina<ref>
*[[Vittorio Mussolini]] "''Voli sulle Ambe''"
*[[Giuseppe Bottai]] ''Quaderno africano'', Giunti, 1995. ISBN 88-09-20618-5
*[[Indro Montanelli]] ''XX Battaglione eritreo'', Milano, Panorama, 1936</ref>.
 
Scrisse Pavolini nel suo ''Disperata'', descrivendo l'assalto della squadriglia durante la ritirata etiopica seguita alla sconfitta subita nella [[battaglia dell'Amba Aradam]]:
 
{{quote|L'aviazione concepita come cavalleria d'inseguimento. Vere e proprie cariche di velivoli si avventarono lungo le carovaniere, incalzando i fuggiaschi ai guadi, dispersero le colonne, perseguitarono i dispersi con la mitragliatrice e la carabina.<ref>Alessandro Pavolini, ''Disperata'', Vallecchi, Firenze, 1937, pag. 243.</ref>|Alessandro Pavolini}}
 
Nella stessa operazione di ''persecuzione'' del nemico in fuga, che venne sottoposto al bombardamento con 60 tonnellate di [[iprite]], un'[[arma chimica]] il cui impiego era vietato dalla [[Convenzione di Ginevra]] e di cui Pavolini non parla.<ref>L'uso dei micidiali gas vescicanti e asfissianti fu tenuto segreto e poi negato per molti decenni nelle versioni ufficiali (ma anche da un testimone come Indro Montanelli) sin quasi alla fine del '900. Si dovette infatti attendere il [[7 febbraio]] [[1996]] perché la verità venisse ufficialmente a galla quando l'allora Ministro della Difesa, generale [[Domenico Corcione]], ammise davanti al Parlamento l'uso delle armi chimiche da parte italiana durante la guerra d'Etiopia.</ref>
 
Poco tempo dopo, Pavolini è di nuovo all'inseguimento dei nemici sconfitti:
 
{{quote|Quest'operazione finale, nelle selve, nelle forre e nelle caverne del Tembien, richiamava ancora una volta alla mente immagini di caccia grossa. Somigliò ad una gigantesca battuta.<ref>Alessandro Pavolini, ''Disperata'', Vallecchi, Firenze, 1937, pag. 254.</ref>|Alessandro Pavolini}}
 
E ancora:
 
{{quote|Infinite altre ecatombi. Ma di rado la strage si concentrò in un tempo e in uno spazio altrettanto ristretti. [...] Fulminata, una generazione giaceva sui tratturi dell'altopiano.<ref>Alessandro Pavolini, ''Disperata'', Vallecchi, Firenze, 1937, pag. 266.</ref>|Alessandro Pavolini}}
 
Anche rime vergò, di lirismo bellico e di metro arrangiato:
 
{{quote|Vita, sei nostra amica. Morte, sei nostra amante.<br />Nella prima carlinga è Ciano comandante.<br />A chi ci seguirà, il varco si aprirà<br />Anche la geografia bombardando si rifarà|Alessandro Pavolini}}
 
==Ministro del [[Minculpop]]==
[[Immagine:Pavolini.jpg|thumb|right|180px|Pavolini in grande uniforme estiva del [[P.N.F.]], 1938]]
Nel [[1938]] Pavolini fu tra i firmatari del ''Manifesto della razza'' in appoggio alle [[leggi razziali fasciste]].
 
Dal [[31 ottobre]] [[1939]] fu [[ministero della Cultura Popolare|ministro della Cultura Popolare]], il [[Minculpop]], in sostituzione di Alfieri, inviato a Berlino come ambasciatore. Per Montanelli, con la sua nomina "salì sul firmamento fascista una stella che avrebbe brillato di luce sanguigna durante il periodo repubblichino"<ref name="Asse, Rizzoli 1980"/>.
 
Ad ispirare la nomina di Pavolini fu l'amico Ciano, che già la sera del [[19 ottobre]] 1939 aveva annotato nel suo ''Diario'': «...Il Duce si accinge a fare ministri tutti i miei amici, Muti, Pavolini, Riccardi, Ricci...». Tutti toscani, come lo stesso Ciano. {{cn|Tale fu la percezione della sua influenza nel rimpasto ordinato da Mussolini, mentre la guerra europea divampava ormai da due mesi, che presso alcuni circoli il nuovo governo venne definito, seppure a mezza bocca, "il primo gabinetto Ciano".}}
 
===Le veline===
Tra i principali compiti quotidiani del ministero assegnato a Pavolini v'era la redazione delle "note di servizio", le cosiddette "[[Velina (giornalismo)|veline]]" del Minculpop, che imponevano ai media italiani cosa dire e come dirlo.
L'arrivo di un uomo colto come Pavolini alla guida del dicastero, tuttavia, non portò alcun miglioramento - al contrario - nello stile e nella sostanza di tale attività, tesa a sostituire interamente la propaganda ai fatti ed alle notizie.
 
Già una settimana dopo l'inizio del mandato, la velina del giorno della gestione Pavolini assume toni perentori:
 
{{quote|Nelle cronache delle partite di calcio e negli articoli sul campionato non attaccare gli arbitri; ... Assoluto divieto di abbinare altri nomi alle acclamazioni all'indirizzo del Duce|Nota di servizio del Minculpop del [[6 novembre]] 1939}}
 
Nel febbraio del 1940 viene emessa una ''velina'' che rappresenta egregiamente il culto della personalità dedicato a Mussolini, cui Pavolini non cessa di dare impulso:
 
{{quote|Tenere sempre presente che tutto quanto si fa in Italia attualmente: lo sforzo produttivo del Paese, la preparazione militare, la preparazione spirituale, ecc., tutto promana dal Duce e porta la sua sigla inconfondibile|Nota di servizio del Minculpop del [[22 febbraio]] 1940}}
 
La foga con la quale la propaganda promossa sotto la supervisione di Pavolini viene prodotta porta anche ad infortuni linguistici, che contribuiranno all'{{cn|ironia che si va diffondendo in modo sotterraneo nel Paese all'indirizzo del "colto" ministro e del suo ministero}}:
 
{{quote|È inutile continuamente parlare, in questa fase del conflitto, della non-belligeranza italiana: ma si può parlare invece che ci troviamo [sic!] in un periodo di intensissima preparazione, con le armi al fianco, e osserviamo con la più vigile attenzione gli avvenimenti che si svolgono intorno a noi.|Nota di servizio del Minculpop del [[15 aprile]] 1940}}
 
{{cn|Con l'Italia ormai coinvolta nel conflitto mondiale, le ''veline'' aumentano il proprio distacco dalla realtà sino a specificarlo, a volte, esse stesse in modo esplicito,}} come quando, nell'anniversario della [[Marcia su Roma]], il Minculpop non esita ad emettere una nota tutt'altro che bellicosa ma alquanto surreale, {{cn|destinata probabilmente a tacitare i pettegolezzi}} che si vanno sempre più facendo intensi circa la relazione sentimentale tra Pavolini e Doris Duranti, che per questo {{cn|viene popolarmente schernita come "l'artista per (sua) eccellenza"}}:
 
{{quote|Tra i presenti alla "prima" del film "Bengasi" dare anche il ministro Pavolini (anche se non ci sarà).|Nota di servizio del Minculpop del [[28 ottobre]] [[1942]]}}
 
Allo scopo di stigmatizzare la rivista fascista "Il Primato", che aveva pubblicato in copertina un'illustrazione raffigurante alcuni soldati seduti in un bivacco, durante la guerra Pavolini emise un messaggio che recitava:
{{quote|In Italia i soldati devono stare sempre in piedi.|Giordano Bruno Guerri, "Galeazzo Ciano - una vita (1903-1944)", Mondadori, Milano, 2005, p. 116 ISBN 88-04-48657-0}}
 
Nel gennaio del [[1941]] fu inviato sul fronte greco, col grado di capitano, sempre al seguito di Ciano. La polizia politica registrò un'azione riservata di attacco compiuta con ardore, ma senza fortuna, dai due gerarchi: la "vittima" era un'attricetta di passaggio a [[Bari]], che ne uscì indenne.<ref>All'Hotel Imperiale risiedeva infatti [[Sara Agrò]], della compagnia [[Tina Pica|Pica]]-Turco, la quale la sera del 5 febbraio e quella successiva - disse alla polizia politica - fu ripetutamente insidiata dai due, ma non cedette loro. Per questo fu espulsa dall'albergo e presentò un esposto in merito all'accaduto. Così in [[Antonio Spinosa]], ''Edda'', Mondadori 1993.</ref>
 
Pavolini perse l'incarico di ministro a seguito di un [[rimpasto]] governativo voluto da Mussolini l'[[8 febbraio]] [[1943]], nel tentativo di controllare il fronte interno mentre la [[guerra]] appariva ormai perduta: i pesanti bombardamenti alleati sulle città italiane ed il diluvio di feriti e di caduti, che né la propaganda di Pavolini né la censura militare riuscivano più ad occultare, avevano ormai reso chiaro a tutti ciò che da tempo era chiaro anche ad alcuni membri della Casa Reale.<ref>[[Maria Josè di Savoia]], moglie del principe ereditario [[Umberto II|Umberto]], già ai primi di settembre del [[1942]] - un anno prima dell'armistizio dell'[[8 settembre]] [[1943]] - aveva avviato, tramite [[Guido Gonella]], contatti con il [[Città del Vaticano|Vaticano]], nella persona di Monsignor [[Giovanni Battista Montini]], auspicando di potersi avvalere della diplomazia papale quale tramite per aprire un canale di comunicazione con gli Alleati (in particolare con l'ambasciatore degli [[Stati Uniti d'America|Stati Uniti]] presso la Santa Sede, [[Myron C. Taylor]]) al fine di far uscire l'Italia dalla [[seconda guerra mondiale]].</ref>
 
{{cn|Forse consapevole del fallimento di una propaganda ''à la Starace''<ref>Con riferimento alla figura di [[Achille Starace]] e cioè tanto distante dalla realtà e perciò grottesca al punto da essere ormai scaduta in oggetto di scherno popolare</ref>, Mussolini, secondo una interpretazione dei fatti, tentò di risalire la china con un cambio di ministri nell'ambito del quale la testa più illustre a cadere fu proprio quella del ministro della Cultura Popolare<ref>Il cui ruolo sarebbe stato perciò visto come ormai inefficace, se non dannoso, ai fini della sopravvivenza del regime</ref>.}}
 
Pavolini fu così privato del ministero (sostituito da Polverelli) e nominato direttore del quotidiano romano ''[[Il Messaggero]]''.
 
{{cn|Secondo altre interpretazioni}} il rimpasto fu invece dovuto al conflitto sotterraneo tra le più alte cariche dello Stato, che andava aprendosi tra Monarchia e Fascismo. Mussolini intendeva sollevare dalle poltrone più delicate gli uomini sospetti di maggiore fedeltà alla monarchia che al fascismo, per rendere più difficili possibili iniziative politiche avverse al regime avallate da Casa Savoia.
 
Quello impostogli da Mussolini costituì un arretramento - seppure momentaneo, in quanto conservò la carica di consigliere nazionale del PNF - nel prestigio di Pavolini<ref>Il direttore de ''Il Messaggero'', come del resto la totalità dei media in Italia, dipendeva dalle ''veline'' prodotte quotidianamente dal Minculpop e doveva osservarle alla lettera.</ref> e come un altrettanto momentaneo allontanamento dalla politica attiva di alto livello, sebbene a Pavolini fosse stata comunque offerta una tribuna, quella di direttore di un importante quotidiano, che gli consentiva inoltre di tornare a coltivare la sua vecchia passione per il giornalismo.
 
Continuò l'attività letteraria con la pubblicazione di memorie come ''Disperata'' ([[1937]]) e racconti o romanzi come ''Scomparsa d'Angela'' ([[1940]]).
 
==1943-1945==
 
===La fine del fascismo-regime===
{{quote|Il fanatismo divenne violenza e crudeltà anche in uomini che, come Alessandro Pavolini, avevano sensibilità e cultura|[[Indro Montanelli]]}}
 
Il [[25 luglio]] [[1943]] Pavolini venne a conoscenza della destituzione e del conseguente arresto di Mussolini dal ministro [[Zenone Benini]]<ref>Arrigo Petacco, ''Pavolini, L'ultima raffica di Salò'', Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pag. 151-Zenone Benini riferì poi di averlo udito gridare "Mitra! Mitra! Alla macchia!" mentre si allontanava</ref>. Pavolini, tornato a casa, mise al sicuro la famiglia facendola ospitare da uno zio, l'architetto Brogi, poi si rifugiò presso l'amico [[Pierfrancesco Nistri]] in via Tre Madonne, temendo di poter essere ucciso dalla polizia di Badoglio come era gia avvenuto con [[Ettore Muti]]<ref>Arrigo Petacco, ''Pavolini,L'ultima raffica di Salò'', Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pag. 150:"E' noto, d'altra parte, che il suo nome, insieme a quello di Ettore Muti, figurava in testa alla lista dei fascisti da liquidare compilata dal maresciallo.</ref>. Nel corso dei due giorni lì passati maturò la decisione di recarsi in Germania al fine di continuare a combattere al fianco dei tedeschi<ref>Arrigo Petacco, ''Pavolini,L'ultima raffica di Salò'', Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pagg. 152-154</ref>.
{{quote|Dal regime ho avuto tutto e intendo restituirgli tutto. Cè una sola strada possibile per salvare almeno il nostro onore di fascisti.|Alessandro Pavolini confidandosi all'amico Pierfrancesco Nistri il 26 luglio 1943<ref>Arrigo Petacco, ''Pavolini,L'ultima raffica di Salò'', Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pag. 153</ref>}}
Cinque minuti prima della mezzanotte del [[27 luglio]] a bordo di un'auto munita di targa diplomatica giunse a [[Villa Wolkonsky]], all'epoca sede dell'[[ambasciata]] tedesca a [[Roma]] e l'indomani mattina dallo scalo aereo di [[Ciampino]], partì per [[Koenigsberg]] raggiungendo [[Vittorio Mussolini]].
 
===La ricostituzione del partito fascista===
A seguito del tracollo del regime, Pavolini colse l'occasione per riconquistare posizioni tra i gerarchi che si erano rifugiati in Germania, presentandosi ai tedeschi come fedelissimo del Duce e fascista intransigente capofila dello squadrismo.
 
Ancor prima dell'[[armistizio di Cassibile|armistizio]] dell'[[8 settembre]], insieme a [[Vittorio Mussolini]], da [[Koenisberg]] sviluppò i piani politici per la restaurazione del fascismo e pronunciò comunicati via radio in italiano che preannunciavano il ritorno del duce al governo. Quando questi fu liberato dalla prigionia sul [[Gran Sasso]] e condotto in Germania, Pavolini fu in prima fila a [[Monaco di Baviera|Monaco]] tra coloro che sostennero la necessità di dare al centro-nord Italia un "Governo Nazionale Fascista"<ref>Ugoberto Alfassio Grimaldi, articolo ''Sotto la bandiera di Salò'', su Storia illustrata, n°200, luglio 1974, pag. 23:"Il messaggio dei fedelissimi che parlano alla radio di Monaco di Baviera, nela notte tra l'8 e il 9, annuncia genericamente la costituzione di un Governo Nazionale Fascista</ref> dopo la fuga da Roma del Re e di Badoglio, insistendo con Mussolini affinchè ne assumesse la guida.<ref>Così in Arrigo Petacco, ''La nostra guerra, 1940-1945'', Mondadori, 1995</ref>.
 
Così Pavolini si rivolse a Mussolini al loro primo incontro dopo la liberazione da [[Campo Imperatore]]:
 
{{quote|Il governo provvisorio nazionale fascista attende la ratifica dal suo capo naturale: solo così si potrà annunciare la composizione del governo.|Alessandro Pavolini rivolgendosi a Mussolini<ref>Arrigo Petacco, ''Pavolini,L'ultima raffica di Salò'', Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pag. 160</ref>}}
 
Dopo alcuni tentennamenti, Mussolini si risolse ad accettare la guida della nuova entità statale. La scelta di Mussolini, per la quale spingeva Hitler stesso che voleva nuovamente dare dignità al proprio maestro ed amico, indispettì parte dei gerachi nazisti che avrebbero preferito una figura più malleabile.<ref>Ugoberto Alfassio Grimaldi, articolo ''Sotto la bandiera di Salò'', su Storia illustrata, n°200, luglio 1974, pag. 23:"Ma uno Stato fascista sarebbe nato anche in sua assenza (Mussolini): anzi alcuni gerarchi nazisti l'avrebbero preferito senza di lui, temendo che la figura carismatica del duce limiti la libertà d'azione della Germania, impedisca, come vorrebbe Goebbels, di "fare tabula rasa in Italia"</ref>.
 
===La Repubblica Sociale===
Costituita la [[Repubblica Sociale Italiana]] fu nominato segretario provvisorio del neonato [[Partito Fascista Repubblicano]] (PFR).
Il [[17 settembre]] si recò con [[Guido Buffarini Guidi]] a Roma, dove aprì la sede del Partito a [[palazzo Wedekind]] riorganizzandone la struttura e l'organizzazione.<ref name="ReferenceA">Arrigo Petacco, ''La nostra guerra, 1940-1945'', Mondadori, 1995</ref>
 
{{cn|Il [[23 settembre]] Pavolini convinse il maresciallo [[Rodolfo Graziani]] ad aderire al PFR dopo un burrascoso colloquio. Successivamente convocò gli ufficiali del Presidio Militare di Roma e, annunciato loro che "il partito che io guido sarà un partito totalitario", ordinò alla divisione ''Piave'' di deporre le armi, consegnarle ai tedeschi e mettersi in marcia verso il nord in attesa di ulteriori ordini.}}
 
L'idea di Pavolini di creare un esercito per la Repubblica Sociale che fosse politicizzato lo portò a vari scontri con Graziani, che desiderava che il nascente [[Esercito Nazionale Repubblicano]] fosse apolitico, e con l'amico Ricci che era al comando della [[Guardia Nazionale Repubblicana]]. Pavolini riuscì poi a ottenere soddisfazione con la creazione delle [[Brigate Nere]].
 
Fu aperta la campagna tesseramenti al nuovo [[Partito Fascista Repubblicano]]. Secondo le direttive di Pavolini si negò aprioristicamente la tessera a coloro che avevano appoggiato il Governo Badoglio ed ai fascisti pentiti che chiedevano la reintegrazione<ref>Arrigo Petacco, ''Pavolini, L'ultima raffica di Salò'', Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pag. 170</ref>. Il tesseramento fu poi chiuso per il sospetto che potessero giungere richieste strumentali da parte di "avventurieri ed opportunisti"<ref name="ReferenceA"/>. Abolì inoltre l'uso del termine gerarca ed i fronzoli che adornavavo le divise militari, rendendole il più possibile spartane.
 
A fine ottobre erano già state raccolte circa 250.000 richieste di iscrizione al [[Partito Fascista Repubblicano]].
 
Questo dato portò al [[Congresso di Verona (1943)|congresso costituente di Verona]] (novembre 1943) <ref>Il termine "Congresso costituente" è usato dagli storici per brevità: il nome ufficiale era "Rapporto nazionale".</ref> raccontando: «ci siamo impadroniti dei ministeri mandando un camerata accompagnato da due, massimo da quattro giovani fascisti armati di mitra<ref>Resoconto stenografico del Congresso di Verona.</ref>».
 
In realtà i due gerarchi erano nella capitale, seguendo un progetto discusso a Monaco con Mussolini, per riunire la Camera dei Fasci ed il Senato per far loro dichiarare decaduta la monarchia, ma si avvidero che era eccessivamente rischioso, avendo le Camere già votato in modo apertamente antifascista.<ref>[[Giorgio Bocca]], ''La repubblica di Mussolini'', Mondadori.</ref>
 
Il [[5 novembre]], a seguito dell'omicidio di diversi fascisti nel corso di imboscate, Pavolini emanò la seguente ordinanza che comminava la pena di morte ai responsabili:
 
{{quote|Di fronte al ripetersi di atti proditori nei riguardi dei fascisti repubblicani per parte di elementi antinazionali al soldo del nemico, il segretario del P.F.R. ordina alle squadre del partito di procedere all'immediato arresto degli esecutori materiali o dei mandanti morali degli assassini. Previo giudizio dei tribunali speciali, detti esecutori o mandanti siano passati per le armi. Per mandanti morali intendo i nemici dell'Italia e del fascismo, responsabili dell'avvelenamento delle anime.<ref>Arrigo Petacco, ''Pavolini,L'ultima raffica di Salò'', Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pag. 172</ref>}}
 
===Il Manifesto di Verona===
{{vedi anche|Manifesto di Verona}}
Alessandro Pavolini partecipò con [[Benito Mussolini]] e [[Nicola Bombacci]] alla stesura del [[Manifesto di Verona]], che fu poi posto ai voti ed approvato al Congresso del Partito Fascista Repubblicano del [[14 novembre|14]] e [[15 novembre]] [[1943]].
 
==L'assise di Verona==
[[Immagine:Assemblea nazionale del Partito Fascista Repubblicano.jpg|thumb|right|300px|L'Assemblea nazionale del Partito Fascista Repubblicano fu tenuta a [[Castelvecchio (Verona)]]]]
{{vedi anche|Congresso di Verona (1943)}}
Pavolini, chiamato a presiedere il Congresso in qualità di segretario del [[Partito Fascista Repubblicano]], aveva aperto la riunione leggendo un messaggio di Mussolini in cui si invitava ad adoperarsi per dare alla nuova repubblica un esercito. Pavolini poi proseguì la propria relazione paventando il pericolo costituito dagli attentati partigiani e richiamandosi al fascismo delle origini:
 
{{quote|Camerati si ricomincia. Siamo quelli del Ventuno.... Lo squadrismo è stata la primavera della nostra vita. Chi è stato squadrista una volta, lo è per sempre.|Alessandro Pavolini, [[14 novembre]] [[1943]]}}
 
per poi concludere:
 
{{quote|E' l'antico tricolore che in una lontana primavera nacque senza stemmi sulla sua parte bianca, là dove noi idealmente iscriviamo, come su una pagina tornata vergine, una sola parola: Onore.<ref>Arrigo Petacco, ''Pavolini,L'ultima raffica di Salò'', Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pag. 171</ref>}}
 
In seguito furono poi approvati i 18 punti del [[Manifesto di Verona]]. Mussolini descrisse a Dolfin il congresso come:
 
{{quote|E' stata una bolgia vera e propria! Molte chiacchiere confuse, poche idee chiare e precise. Si sono manifestate le tendenze più strane, comprese quelle comunistoidi. Qualcuno, infatti ha chiesto l'abolizione, nuda e cruda, del diritto di proprietà.|Mussolini a Dolpin<ref>Giuseppe Mayda, articolo ''La lunga notte di Ferrara'', su Storia illustrata, n°200, luglio 1974, pag. 33</ref>}}
 
Sostanzialmente il Congresso di Verona segnò la vittoria dei fascisti più intransigenti a scapito della corrente moderata<ref>Giuseppe Mayda, articolo ''La lunga notte di Ferrara'', su Storia illustrata, n°200, luglio 1974, pag. 34: In sostanza il congresso sancisce il trionfo delle teorie estremiste di Pavolini e Farinacci e l'approvazione del loro concetto del "fascismo delle squadre d'azione"</ref>, come dimostrò anche l'avvenuta rappresaglia di Ferrara.
 
====La rappresaglia di Ferrara====
[[Immagine:Igino Ghisellini, federale fascista repubblicano di Ferrara.jpg|thumb|right|220px|Igino Ghisellini, commissario federale di Ferrara.]]
Mentre il congresso ero in corso, giunse a Verona la notizia dell'uccisione di [[Igino Ghisellini]], pluridecorato<ref>Tre medaglie d'argento e tre di bronzo.</ref> reggente la Federazione di [[Ferrara]] (Ghisellini dopo l'[[Armistizio di Cassibile|armistizio]], aveva aperto trattative con gli antifascisti rifiutate però dal Partito comunista). Pavolini comunicò subito la notizia all'assemblea:
 
{{quote|Il commissario della federazione di Ferrara che avrebbe dovuto essere qui con noi, il camerata ghisellini, è stato ucciso con sei colpi di pistola. Noi eleviamo a lui il nostro pensiero. Egli sarà vendicato!.|Alessandro Pavolini il 14 novembre<ref>Giuseppe Mayda, articolo ''La lunga notte di Ferrara'', su Storia illustrata, n°200, luglio 1974, pag. 34</ref>}}
 
Alla notizia i partecipanti all'assise cominciarono a gridare: "A Ferrara, a Ferrara". Pavolini, assecondando le richieste di [[rappresaglia]] disse: «lo faremo con il nostro stile spietato e inesorabile» e disponendo l'invio solo degli squadristi ferraresi e di [[Verona]] e [[Padova]] aggiunse:
{{quote|Non si può gridare in presenza del morto; si agisce in modo disciplinato. I lavori continuano. I rappresentanti di Ferrara raggiungano la loro città. Con essi vadano le formazioni della polizia federale di Verona e gli squadristi di Padova.|Alessandro Pavolini il 14 novembre<ref>Giuseppe Mayda, articolo ''La lunga notte di Ferrara'', su Storia illustrata, n°200, luglio 1974, pag. 34-35</ref>}}
 
In seguito alle disposizioni date da Pavolini, diverse squadre si recarono a Ferrara per eseguire la rappresaglia.
L'omicidio di Ghisellini, compiuto dai [[GAP]] e rivendicato poco tempo dopo sul giornale del partito comunista [[L'Unità]]<ref>L'Unità, articolo "Traditori fascisti giustiziati", Anno XX, n°28- 15 dicembre 1943: a imola è stato giustiziato un console fascista; a Castel d'Argine (Bologna) ugual sorte è toccata al reggente federale fascista di Ferrara;...</ref>, fu attribuito agli stessi fascisti nell'immediato dopoguerra, con un processo celebrato nel [[1948]].<ref>Gianni Oliva in ''L'ombra nera - Le stragi nazifasciste che non ricordiamo più'', Mondadori, Milano, 2007, ISBN 978-88-04-56778-4, pag. 49</ref>
 
Settantacinque antifascisti furono prelevati dalle loro abitazioni e dalle locali carceri, undici dei quali sommariamente fucilati la notte stessa del 15 novembre, mentre alcuni altri morirono successivamente in carcere (sotto i bombardamenti alleati o - come nel caso della maestra socialista Alda Costa - di morte naturale).
 
La rappresaglia di Ferrara fu criticata da Mussolini per la sua ferocia e la sua inopportunità politica: in quel momento egli cercava di riunire quel che restava del Paese sotto la RSI, non precipitarlo ulteriormente in una guerra fratricida.
 
{{quote|Un atto stupido e brutale.|Benito Mussolini<ref>Giuseppe Mayda, articolo ''La lunga notte di Ferrara'', su Storia illustrata, n°200, luglio 1974, pag. 36</ref>}}
 
Tuttavia, da quel momento il dado fu definitivamente tratto. [[Roberto Farinacci]] commentò così l'episodio su "Il Regime Fascista"<ref>Quotidiano fondato nel [[1929]] dallo stesso Farinacci a [[Cremona]].</ref>: «La parola d'ordine è stata: occhio per occhio, dente per dente. Si è creduto forse che noi non avessimo la forza e il coraggio di reagire. I fatti ora hanno parlato».
 
Da quel momento la stampa di Salò prese ad impiegare largamente il neologismo "ferrarizzare" quale sinonimo di analoghe operazioni di liquidazione del nemico interno<ref>Nemico interno (partigiani, badogliani, "traditori" in genere, giudicato distinto, ma oggettivamente estensione di quello "esterno", gli Alleati.</ref> reputate "esemplari".
 
D'altra parte la guerra civile non fu una scelta casuale, né essa ebbe un solo padre o fu imposta dai [[Partigiano|partigiani]]. Questi ultimi, all'epoca dell'assise di Verona, erano ancora assai meno numerosi dei fascisti di Salò in armi, per non parlare di quelli iscritti al PFR (circa 250mila), molti dei quali erano fascisti della prima e primissima ora, in gran numero marginalizzati se non epurati durante il regime.
 
Il fascismo, risorto dalle sue ceneri sotto la segreteria di Pavolini, era in effetti un vulcano in ebollizione pieno di contraddizioni e di rivalità intestine sviluppate dalle diverse personalità che lo animavano, da [[Guido Buffarini Guidi]] a [[Renato Ricci]], da [[Rodolfo Graziani]] a [[Roberto Farinacci]], [[Giovanni Preziosi]] o Pavolini e che non si risparmiavano nel fomentare contrapposizioni anche feroci.
 
===Il processo di Verona===
[[Immagine:Processo Verona 1944.gif|thumb|right|280px|[[Galeazzo Ciano]] al [[Processo di Verona]]]]
{{vedi anche|Processo di Verona}}
La vittoria dell'ala dura del fascismo repubblicano al congresso di Verona sancì un sentimento comune a tutte le federazioni del nord Italia, desiderose di vendetta su coloro che nel [[Gran Consiglio del Fascismo]] del [[25 luglio]] [[1943]] avevano sfiduciato Mussolini apponendo la propria firma sull'[[Ordine del giorno Grandi]]. I membri del Gran Consiglio che vennero arrestati furono processati e cinque di essi condannati alla pena capitale, gli altri tredici condannati a morte in contumacia.
 
====La questione delle domande di grazia====
Prima ancora che fossero firmate le domande di grazia, Pavolini, accompagnato dal suo collaboratore e amico Puccio Pucci, si recò da Mussolini a riferire le conclusioni del processo. [[Puccio Pucci]] così rievocò gli avvenimenti:
 
{{quote|Appena terminato il processo di Verona, Pavolini ed io partimmo alla volta di Gargnano. Pavolini fu ricevuto dal Duce, al quale riferì esattamente le conclusioni processuali. Subito dopo questo colloquio, mentre ritornavamo a Verona (dove nel frattempo i cinque condannati avevano presentato domanda di grazia), Pavolini mi raccontò che Mussolini gli aveva detto -''Ero sicuro che la decisione del tribunale straordinario sarebbe stata di condanna di morte. Con questa condanna si chiude un ciclo storico. Come capo dello stato e del fascismo, non dunque come parente di uno dei condannati, ritengo che i giudici di Verona abbiano fatto il loro dovere''- Raggiunta Verona, Pavolini ed io ci recammo in prefettura, da Cosmin, capo della provincia, presso il quale si trovavano le domande di grazia. Era sopraggiunto anche Buffarini-Guidi, ministro degli Interni. Qui ebbe inizio il conflitto delle competenze per l'inoltro delle domande di grazia a Mussolini in una situazione di doloroso imbarazzo|Testimonianza di Puccio Pucci<ref>Arrigo Petacco, ''Pavolini, L'ultima raffica di Salò'', Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pagg. 183-184</ref>}}
 
Pavolini si dichiarò immediatamente contrario all'inoltro delle domande di grazia. Il generale [[Renzo Montagna]] così rievocò il fatto:
 
{{quote|Pavolini entrò subito in argomento affermando che, essendo il Tribunale che aveva giudicato i 19 membri del Gran Consiglio, militare, spettava al comandante regionale militare inoltrare o respingere le domande di grazia presentate dal conte Ciano e dagli altri quattro condannati. Invitava pertanto il generale Piatti a respingerle. Il generale Piatti rispose che se il Tribunale fosse stato militare lo avrebbe dovuto nominare lui ed in tal caso ne avrebbe seguito le vicende per agire con competenza. Non avendolo nominato lui non poteva considerarlo suo dipendente e perciò si dichiarava incompetente in materia, rifiutando di entrare nel merito della questione. Precisò inoltre che detto tribunale egli lo considerava politico e non militare. Pavolini aggiunse allora che era d'accordo col ministro della Giustizia (in realtà Piero Pisenti non era stato ancora interpellato) e con altri di non far pervenire le domande di grazia al Capo del Governo, per non metterlo in una situazione dolorosa rispetto a Ciano, suo parente, e agli altri, suoi amici...|Testimonianza di Renzo Montagna<ref>Testimonianza di Renzo Montagna in [[Giorgio Pisanò]], Storia della Guerra Civile in Italia 1943-1945 - 3 vol. (quinta ed. Eco Edizioni, Melegnano, 1999 - prima ed. Edizioni FPE, Milano, 1965 pagg. 529</ref>}}
 
Per ovviare il conflitto di competenze circa le domande di grazia si decise di coinvolgere direttamente il ministro della Giustizia [[Piero Pisenti]]. Nella ricostruzione di [[Vincenzo Cersozimo]], giudice istruttore del processo:
 
{{quote|Pisenti, senza alcuna esitazione, disse: "''Pisenti: Sono senz'altro pronto a ricevere le domande di grazia e ad assumermi le relative responsabilità''". Pavolini: "''E che ne farai?''". Pisenti: "''Le porterò immediatamente al Duce col mio parere come è dovere di un ministro della Giustizia''". Pavolini si oppose recisamente sostenendo la necessità "di non provocare crisi nel Duce"; non si poteva far ritornare Mussolini su quell'argomento per lui tanto grave e doloroso e non lo si doveva mettere nella tragica situazione di prendere decisioni che avrebbero potuto avere, in un caso o nell'altro gravissime conseguenze e ripercussioni in Italia e all'estero. Pisenti ascoltò, profondamente assorto, Pavolini che parlava a scatti, con viva eccitazione, ripetendo più volte che "bisognava assolutamente lasciar fuori Mussolini"...; poi, con la sua abituale calma e serenità, disse: "''Mi sembra che di tutta questa faccenda si sia occupato, sempre ed esclusivamente, il Partito: il Tribunale è stato istituito su proposta del segretario del Partito; i giudici sono stati nominati su proposta del segretario del Partito; al dibattimento sono stati presenti osservatori del Partito: da queste premesse deriva la conseguenza logica che spetterebbe proprio al segretario del Partito ricevere ed inoltrare le domande di grazia, corredte dalle prescritte informazioni. Datemi, vi ripeto, le domande, ed io le inoltro a Mussolini''". Questa soluzione non fu accettata da Pavolini, tenace nel suo proposito che "bisognava lasciar fuori Mussolini"; si riservò di prendere una decisione e di parlarne con Buffarini. La seduta, veramente drammatica per le idee in conflitto, ebbe termine oltre la mezzanotte.|Testimonianza di Vincenzo Cersozimo<ref>Vincenzo Cersozimo, Dall'istruttoria alla fucilazione ed. Garzanti, 1961</ref>}}
 
La questione continuò all'albergo Milano in cui Pavolini si recò per parlare con il ministro [[Guido Buffarini Guidi]]:
 
{{quote|...insieme a Fortunato lo scongiurai, ricordandogli che egli era, come noi, uomo di legge, a dissuadere Pavolini dall'attuare la decisione presa che sarebbe stata, oltre che illegale, assurda. Buffarini, pur aderendo alla tesi più volte prospettata da Pavolini di non mettere Mussolini in condizione di ritornare su di una faccenda tanto dolorosa, si trovò d'accordo con noi: disse chiaramente che "''quelle erano decisioni che non riguardavano il Partito e che i provvedimenti, qualsiasi fossero, dovevano essere presi dalle autorità competenti, militari o giudiziarie, mai dalla autorità politica''".|Testimonianza di Vincenzo Cersozimo<ref>Vincenzo Cersozimo, Dall'istruttoria alla fucilazione ed. Garzanti, 1961</ref>}}
 
Si decise pertanto di dare mandato al console [[Italo Vianini]], essendo l'ufficiale più alto in grado, di rigettare le domande di grazia. Vianini inizialmente si oppose, ma fatto oggetto di molte pressioni cedette quando gli fu presentato un ordine scritto firmato dal prefetto Cosmin e da Tullio Tamburini. Erano circa le ore 8 del mattino. Alle ore 9 i condannati furono trasferiti al poligono di tiro per l'esecuzione.
 
Fu in questo contesto che Pavolini si guadagnò la definizione di "irriducibile" ed a tal proposito lo si ricorda come "il Superfascista".
Secondo [[Denis Mack Smith|Mack Smith]], la sua prima fama sarebbe stata quella di un uomo "intelligente e sensibile", ma oramai "il fascismo ne aveva fatto un fanatico privo di scrupoli, un uomo spietato e vendicativo che credeva nella politica del terrore".<ref>Denis Mack Smith, ''Mussolini'', 1981 (trad. Giovanni Ferrara Degli Uberti, RCS 1997).</ref> A Mezzasoma, suo "successore" al controllo della stampa, ordinò che i giornali evitassero appelli "per la pacificazione delle menti e la concordia degli spiriti, per la fraternizzazione degli italiani".<ref>[[Indro Montanelli]], [[Mario Cervi]], ''L'Italia della guerra civile'', Rizzoli, 1983.</ref>.
 
Carolina Ciano, madre dell'ucciso, attribuì in un suo scritto la responsabilità della sua fucilazione a Pavolini insieme a [[Guido Buffarini Guidi|Buffarini]], [[Piero Cosmin|Cosmin]]<ref>[[Prefetto]] di [[Verona]], noto per aver gridato durante il processo: "I difensori parlino a testa bassa sennò ci sarà piombo anche per loro".</ref> e [[Rachele Guidi|donna Rachele]], la moglie di Mussolini.
 
===I franchi tiratori di Firenze===
Nel giugno [[1944]], alla caduta di Roma, Pavolini era a [[Firenze]] per organizzare meglio la resistenza della città. In una relazione a Mussolini scrisse:
{{quote|Particolare cura dedico all'organizzazione dei gruppi di attivisti da lasciare sul posto o eventualmente da irradiare al Sud. Iniziative ben consistenti sono state prese per Terni, Arezzo, Grosseto, Firenze, Livorno, Pisa: radio clandestine, tipografie, bande, movimenti politici.|Alessandro Pavolini nella sua relazioni a Mussolini del 19 giugno 1944<ref>Arrigo Petacco, ''Pavolini,L'ultima raffica di Salò'', Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pag. 188</ref>}}
 
Nell'agosto 1944 partecipò ai primi combattimenti nella sua Firenze a capo dei fascisti, riuscendo a resistere in armi per molti giorni dopo l'arrivo degli Alleati, e ritardando la loro conquista di Firenze trasformandosi [[franchi tiratori]] (dei quali fecero parte anche donne e ragazzini).<ref>Luca Tadolini ''Storia dei franchi tiratori della RSI'', edizioni all'insegna del Veltro, 1998</ref>
 
===Le Brigate Nere===
[[Immagine:Alessandro pavolini.jpg|thumb|right|250px|Pavolini al tempo della Repubblica Sociale]]
{{vedi anche|Brigate Nere}}
La costituzione delle Brigate Nere fu un disegno lungamente inseguito da Pavolini, sin da quando a Roma, nei primi giorni del suo lavoro di ricostituzione del partito fascista, aveva inteso farne un'organizzazione intransigente e totalitaria, esclusivista e ''combattente'' su ispirazione delle vecchie squadre d'azione dello [[squadrismo]]<ref>Giorgio Bocca, articolo ''Via libera alle brigate nere'', su Storia illustrata, n°200, luglio 1974, pag. 76</ref>. Il progetto vide l'opposizione di [[Rodolfo Graziani]] e [[Renato Ricci]] contrari alla creazione di un esercito politicizzato<ref>Gianpaolo Pansa, ''Il gladio e l'alloro'', Arnoldo Mondadori Le Scie, Marzo 1991, pag. 148</ref>.
 
Scrisse a proposito Pavolini:
{{quote|Gli italiani non temono il combattimento e quelli che sono fedeli al Duce lo sono per davvero. Non amano però essere rinchiusi in caserma, inquadrati, irreggimentati...Il movimento partigiano ha successo perchè il combattente nelle file partigiane ha l'impressione di essere un uomo libero. Egli è fiero del suo operato perchè agisce indipendentemente e sviluppa l'azione secondo la sua personalità e individualità. Bisogna quindi creare un movimento antipartigiano sulle stesse basi e con le stesse caratteristiche.|Alessandro Pavolini<ref>Giorgio Bocca, articolo ''Via libera alle brigate nere'', su Storia illustrata, n°200, luglio 1974, pag. 76</ref>}}
 
L'idea fu apprezzata dai tedeschi (in particolare da Wolff e da Rahn), quando ormai gli Alleati premevano verso la [[linea Gotica]] ancora in costruzione, facendo loro balenare la possibilità di creare, usando le strutture e gli uomini del partito, un nuovo corpo armato più efficiente, agile e deciso della GNR, in grado davvero di "distruggere la piaga del ribellismo" e di assicurare la tranquillità delle retrovie germaniche.
 
Il [[22 giugno]] [[1944]] Pavolini consegnò le armi agli iscritti del PFR di [[Lucca]] costituendo di fatto quella che sarà la prima Brigata nera, denominata "''Mussolini''" il cui comando fu assegnato ad [[Idreno Utimpergher]].
 
La nascita ufficiale delle Brigate Nere fu annunciata dallo stesso Pavolini alla radio il [[25 luglio]] [[1944]], nel primo anniversario del "tradimento" del Gran Consiglio. Discorso che concluse con queste significative parole:
 
{{Quote|[...]Forze della riscossa saranno le Brigate Nere in cui fiammeggierà, in una seconda primavera, il vecchio fuoco dello squadrismo. A noi, camerati! Nonostante ogni fallace apparenza l'avvenire ci appartiene, perchè noi apparteniamo ad una Europa eroica, le cui luci, necessarie al mondo, non possono spegnersi!|Alessandro Pavolini nel discorso radiofonico del 25 luglio 1944<ref>[[Giorgio Pisanò]], "Gli ultimi in grigioverde", CDL Edizioni, Milano, pag. 2300</ref>}}
 
Il [[30 giugno]] [[1944]] completò la costituzione delle [[Brigate Nere]]. Esse furono costituite nel numero di 41 brigate, una per ogni provincia della RSI, ed intitolate ciascuna ad un caduto del fascismo. Ad esse si affiancavano sette brigate autonome e otto brigate mobili per un totale di 110.000 unità.
[[Immagine:Alessandro Pavolini e Vincenzo Costa passano in rassegna gli squadristi delle Brigate bere della Resega estate 1944.jpg|thumb|right|250px|Alessandro Pavolini e [[Vincenzo Costa]] passano in rassegna gli squadristi della VIII Brigata Nera "[[Aldo Resega]]" (Milano), estate 1944]]
 
Nel contesto dello stesso annuncio, Pavolini rese noto che i brigatisti già "saldamente inquadrati" erano ventimila, una cifra destinata a crescere in numero<ref>Gianpaolo Pansa, ''Il gladio e l'alloro'', Arnoldo Mondadori Le Scie, Marzo 1991, pag. 169: "Graziani e Canevari indicano in circa 30.000 uomini la forza delle Brigate nere. Questa cifra trova conferma nel rapporto tedesco che, alla data del 9 aprile 1945, assegna ai reparti del PFR 22.000 volontari."</ref>, ma non in efficienza: questo sia per la mancanza di materiali sia in quanto i quadri del partito, spesso privi di esperienza ed istruzione militare, vennero trasformati istantaneamente in comandanti di formazioni militari.
 
Le Brigate Nere dovevano essere impiegate, secondo le parole pronunciate in giugno da Mussolini e riprese da Pavolini, per dare corpo alla "marcia della Repubblica Sociale contro la [[Vandea]]", riferendosi al [[Piemonte]], dove {{cn|i partigiani erano particolarmente attivi sin dal settembre 1943 e, guidati da comandanti esperti (spesso ufficiali del Regio Esercito disertori dopo l'armistizio), erano riusciti a strappare ampie fasce di territorio alla RSI.}}
 
Fu durante queste prime operazioni svolte dalle Brigate Nere in [[Piemonte]] che Pavolini il [[12 agosto]] [[1944]] nella [[valle dell'Orco]] fu ferito dalla deflagrazione di una bomba<ref>Arrigo Petacco, ''Pavolini, L'ultima raffica di Salò'', Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pagg. 201-202</ref> nel corso di un attacco partigiano della 77<sup>a</sup> brigata "Garibaldi". {{cn|Pavolini fu ricoverato all'ospedale di [[Cuorgné]], ove rimase ricoverato un mese prima di poter far ritorno, ancora aiutandosi con un bastone, a [[Maderno]] dove risiedeva.}}
A seguito del ferimento, su proposta di Wolff, Pavolini fu insignito da Hitler della [[Croce di Ferro]] per i suoi "meriti nella guerra antiribellistica".
 
Più tardi partecipò sempre in prima persona, alla guida delle Brigate nere, alle operazioni di sgombero della [[Repubblica dell'Ossola|Repubblica partigiana dell'Ossola]] che avvennero tra il [[10 ottobre|10]] e il [[23 ottobre]].
 
Il [[16 dicembre]] Pavolini accompagnò Mussolini nell'auto scoperta che fece il giro di Milano prima del discorso del Teatro Lirico, di [[Sansepolcrismo|piazza San Sepolcro]] e del [[Castello Sforzesco]], l'unica uscita pubblica del duce dopo il 25 luglio del 1943.
 
===La missione in Venezia Giulia===
A fine gennaio 1945 Pavolini fu inviato da Mussolini in Venezia Giulia per rimarcarne l'italianità. Nei territori orientali i tedeschi, fin dal 1943 avevano costituito la [[Adriatisches Kustenland]], sottraendo di fatto quei territori al regno d'Italia e non restituendoli poi nemmeno all'autorità della Repubblica Sociale Italiana. Pavolini si recò a Udine, Gorizia , Fiume, Trieste intrattenendosi con i rappresentanti del Partito Fascista Repubblicano di cui raccolse le lamentele circa l'ingombrante alleato tedesco che favoriva l'elemento croato a discapito degli italiani. Pavolini, al [[Teatro Verdi (Trieste)|
Teatro Verdi di Trieste]] pronunciò poi un discorso che difese l'italianità della città che strappò l'applauso dei convenuti:
{{quote|Talvolta in questa vostra trincea avanzata che è Trieste, all'estremo di lunghe strade isolate dal bombardamento nemico, per le comunicazioni scarse e per altri motivi che conoscete, vi è accaduto di sentirvi lontani. Ebbene, io posso dirvi una cosa sola: nessuno più di voi triestini e gente della Venezia Giulia è vicino ogni ora al cuore di Mussolini.|Alessandro Pavolini al teatro Verdi di Trieste<ref>Arrigo Petacco, ''Pavolini,L'ultima raffica di Salò'', Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pag. 209</ref>}}
 
== Le ultime giornate di Salò ==
 
{{quote| Un'Idea vive nella sua pienezza e si collauda nella sua profondità quando il morire battendosi per essa non è metaforico giuramento ma pratica quotidiana.
|Alessandro Pavolini}}
 
<ref>Per questa sezione, buona parte dei dati sono stati estratti dalla ricostruzione di Arrigo Petacco, ''La nostra guerra, 1940-1945'', Mondadori, 1995</ref> Fu uno dei protagonisti delle ultime convulse e tragiche giornate del fascismo di Salò. Nella vicenda della fuga e della cattura di Mussolini si innesta ''a latere'' quella di Pavolini che, in cerca della "bella morte", tranne che per l'estetica, fu accontentato.
 
Fu sostenitore o forse proprio ideatore<ref>Ideatore per [[Arrigo Petacco]] in ''L'archivio segreto di Mussolini'', Mondadori, 1997.</ref> della proposta del [[Ridotto alpino repubblicano]] (RAR) che prevedeva di ritirare in [[Valtellina]] tutte le truppe ancora teoricamente disponibili (in particolare: le ''sue'' Brigate nere) onde poter opporre un'estrema resistenza contro gli [[Alleati]].
Sicuramente ne fu il principale organizzatore tant'è che alcuni mesi prima della fine fu costituita su iniziativa di Mussolini una commissione di cordinamento dei lavori del RAR e Pavolini ne fu nominato presidente[41]: ne aveva scelto il comandante ([[generale]] [[Onorio Onori]]), vi aveva destinato ed accasermato le truppe (squadristi toscani con rispettive famiglie) e programmava un concentramento di circa 50.000 uomini.
Queste notizie diede a Mussolini durante la riunione del [[14 aprile]] [[1945]] alla [[Villa Feltrinelli]] di [[Gargnano]]<ref>Residenza di Mussolini.</ref>, alla presenza dei massimi esponenti della RSI<ref>Graziani, [[Filippo Anfuso]] (neoviceministro degli esteri), il generale delle SS Wolff, il ministro dell'interno Zerbino, il colonnello Dollmann e diversi altri generali (anche tedeschi).</ref>, insieme a programmi come l'escavazione di caverne (''[[bunker]]'') e la traslazione nel ridotto delle ceneri di [[Dante]].
 
Fra le altre idee di Pavolini, la costruzione di una stazione radio di propaganda e di una tipografia per la stampa di un giornale che avrebbe dovuto essere distribuito lanciandone le copie da un aereo in volo. Essendo tutti i convenuti, Pavolini compreso, già convinti dell'imminente fine, concluse gridando che "in Valtellina si consumeranno le [[Termopili]] del fascismo". La proposta, tuttavia, non ebbe concreto seguito.
[[Immagine:Mussolini-Pavolini.jpg|thumb|right|250px|Mussolini e Pavolini ripresi a Milano in occasione dell'ultima uscita pubblica del primo al Teatro Lirico, il 16 dicembre 1944; il secondo ripeteva spesso che loro due erano gli italiani più odiati in assoluto.]]
Per i fascisti che avevano seguito il loro Duce, Pavolini dispose però premi in denaro e la possibilità di optare fra il rifugiarsi in Germania oppure la "''mimetizzazione''", fruendo di documenti falsi e di tessere [[Annona (economia)|annonarie]]; con [[Ferdinando Mezzasoma|Mezzasoma]], ministro del [[Ministero della Cultura Popolare|Minculpop]], preordinò la distribuzione di fondi segreti fra quei fascisti che avessero voluto proseguire in clandestinità la lotta nell'Italia liberata e la disseminazione di "talpe" in organismi cruciali.
Con una nota riservata, suggerì a Mussolini di organizzare in [[Svizzera]] una centrale fascista di una trentina di elementi fidati, costituendo in quello stato un fondo monetario speciale in [[valuta]] straniera per le occorrenze future.
 
Dopo il fallimento delle trattative di resa con il [[CLN]]<ref>Che gli aveva dato un [[ultimatum]].</ref>, Mussolini, dopo una riunione al palazzo della Prefettura, decise di accettare la proposta di Pavolini ed impartì l'ordine di dirigersi verso il RAR, ordine mascherato nella formula "''Precampo a [[Como]]''", ma tuttavia ben chiaro. Pavolini ordinò alle Brigate Nere della [[Liguria]] e del [[Piemonte]] di muovere verso il RAR e stimò in circa 25.000 le unità in movimento.
Prima di partire ebbe un violento scontro con Graziani, che lo accusò di mentire e di illudere il Duce<ref>Mussolini, presente, chiese poi a Graziani se si trattasse forse di un nuovo 8 settembre e quegli rispose che era molto peggio: "siamo al si salvi chi può".</ref>, e poi con [[Junio Valerio Borghese]] il quale gli disse che la [[Xª Flottiglia MAS (RSI)|Xª Flottiglia MAS]] non sarebbe andata in Valtellina<ref>Borghese era l'unico comandante militare fascista che era stato informato dai tedeschi delle trattative segrete di resa frattanto condotte con gli Alleati dai comandanti nazisti in Italia.</ref>, ma che si sarebbero arresi, anche se "a modo nostro".
 
Alla partenza di Mussolini, Pavolini schiaffeggiò [[Carlo Borsani]], cieco di guerra pluridecorato e [[Medaglia d'oro al valor militare]], che aveva "osato" supplicare il Duce di trattare con i [[partigiani]].
Mussolini partì la sera del [[25 aprile]]; il giorno dopo Pavolini insieme a [[Idreno Utimpergher]], Comandante della Brigata Nera di [[Lucca]], si mise alla testa di una colonna di 178 veicoli<ref>4.636 uomini e 346 [[Servizio Ausiliario Femminile|ausiliarie]].</ref> che giunse a Como, ma non trovò Mussolini, il quale aveva proseguito sino a [[Menaggio]], evidentemente non intenzionato a rifugiarsi nel ''Ridotto''. Il [[27 aprile]] da Menaggio proseguì verso Dongo, in direzione dell'[[Alto Adige]].
 
Pavolini si unì quindi all'autocolonna di Mussolini, che a propria volta si unì ad un'autocolonna della [[FlaK]] (contraerei) tedesca in ritirata verso la Germania; Pavolini portava sul suo [[autoblindo]]<ref>Un [[Lancia 3 RO]] con targa di Lucca perché assegnato a Pavolini da Utimpergher; il veicolo era in realtà un autocarro di serie cui i brigatisti avevano applicato alcune lastre di protezione, 3 mitragliatrici ed un cannoncino da 20mm.</ref>, in testa al corteo<ref>In tutto 174 italiani e 177 tedeschi distribuiti (oltre che sul mezzo di Pavolini) su 11 auto (Mussolini, i vertici della RSI ed alcuni familiari), 3 autocarri delle Brigate nere di Como, 2 autocarri delle SS del colonnello Birzer (caposcorta tedesco del Duce), 2 veicoli delle "[[Fiamme Bianche]]" e gli autocarri della Flak precedentemente incontrati.</ref>, sia quello che diverrà noto come ''l'[[oro di Dongo]]'' che gli archivi documentari, forse contenenti anche il presunto carteggio [[Winston Churchill|Churchill]]-Mussolini<ref>Così in Petacco, op.cit.</ref>. Dopo circa un'ora di viaggio, Pavolini fermò la colonna, chiedendo a Mussolini (della cui sicurezza si autoproclamò responsabile) di scendere dalla sua auto per viaggiare sul suo autoblindo.
 
Poco più avanti incapparono nel posto di blocco improvvisato dalla [[Brigate Garibaldi|52° Brigata Garibaldi]] agli ordini del conte [[Pier Luigi Bellini delle Stelle]].
I partigiani, consultato il loro comando di zona, accettarono qualche ora dopo di far passare i tedeschi, a Mussolini furono fatti indossare un pastrano ed un elmetto da sottufficiale tedesco, nel tentativo di farlo in tal modo passare inosservato e consentirgli di superare il blocco partigiano. Pavolini lo scongiurò drammaticamente di non partire, di non abbandonare i suoi fedeli seguaci, ma Mussolini, lo spintonò, chiedendogli conto delle divisioni di Brigate Nere che gli aveva millantato, "Voi e le vostre fantomatiche Brigate Nere, dove sono finiti tutti gli uomini che mi avevate promesso?" Poi salì sull'autocarro tedesco lasciandosi dietro un Pavolini piangente. Questi, incitato da un giovane legionario della Ettore Muti, studiò la possibilità di attaccare i partigiani, ma Birzer, che della vita di Mussolini rispondeva direttamente a [[Hitler]]<ref>Ignorando che questi era nel frattempo circondato dai sovietici a Berlino e sul punto di suicidarsi.</ref>, riuscì a farlo desistere.
 
Raggiunto un accordo col conte Bellini, gli autocarri tedeschi, incluso quello sul quale era nascosto Mussolini, partirono e poterono proseguire (superando anche un'ispezione dello stesso Bellini).
Gli italiani, dopo la partenza dei tedeschi, avrebbero dovuto invece tornare indietro; fu la volta dell'autocarro di Pavolini, che partì bruscamente e che per superare una cunetta avrebbe fatto una manovra scomposta, una repentina accelerata equivocata come un tentativo di forzare il blocco. Ne nacque una sparatoria. Mentre [[Francesco Maria Barracu|Barracu]] proponeva di arrendersi, Pavolini gridava "Dobbiamo morire da fascisti, non da vigliacchi": preso il mitra si lanciò quindi verso il lago, correndo e sparando. Inseguito dai partigiani e ferito, si nascose nella fitta vegetazione sulle rive del lago.
A seguito di un'ampia battuta di ricerca fu catturato ch'era ormai notte, indebolito da una ferita da pallini da caccia e tutto bagnato. Fu quindi portato a Dongo, nella Sala d'Oro del palazzo comunale, dove poi fu condotto, brevemente, anche Mussolini anch'egli nel frattempo catturato.
Insieme a [[Paolo Porta]] e [[Paolo Zerbino]] Pavolini fu processato per collaborazionismo con il nemico, passibile quindi di fucilazione immediata<ref>Secondo l'ordinanza del CLN del 12 aprile precedente.</ref>. Furono fucilati anche gli altri 12 arrestati che erano con loro.
Pavolini ebbe per ultimo vanto quello di guidare la fila indiana dei condannati che dall'edificio del comune si avviò verso il lungolago, ad una ringhiera del quale, dopo diversi incidenti procedurali, furono schierati di schiena per l'esecuzione.
 
Il cadavere di Pavolini fu esposto il giorno dopo a [[Milano]], a [[Piazzale Loreto]], appeso con quello di Mussolini.
 
==Onoreficenze==
:[[File:Croce_di_Ferro.png|100px]] Croce di Ferro
 
== Note ==
{{references|2}}
 
== Bibliografia ==
* ''Arrigo Petacco: Il Superfascista. Vita e morte di Alessandro Pavolini'', Mondadori, 1999.
* ''L'ultimo poeta armato. Alessandro Pavolini segretario del PFR - Massimiliano Soldani, Barbarossa''
* ''Lorenzo Pavolini. Accanto alla tigre'', Fandango, 2010.
* Alessandro Pavolini, "Nuovo Baltico" a cura di Massimiliano Soldani, Società Editrice Barbarossa, 1998.
 
== Opere ==
*''Giro d'Italia. Romanzo sportivo'', Foligno, F. Campitelli, 1928.
*''L'indipendenza finlandese'', Roma, Anonima Romana, 1928.
*''Nuovo Baltico. Viaggio'', Firenze, Vallecchi, 1935.
*''Disperata'', Firenze, Vallecchi, 1937.
*''Le arti in Italia. Vol. I'', Milano, Domus, 1938.
*''I nuovi orientamenti costituzionali degli Stati'', Milano, Istituto per gli studi di politica internazionale, 1938.
*''Scomparsa d'Angela. Racconti'', Milano-Verona, A. Mondadori, 1940.
*''Ogni soldato è fascista, ogni fascista è soldato. Discorso tenuto ai fascisti e al popolo di Firenze il 31 dicembre 1940'', Roma, 1941.
*''Rapporto sull'attività dell'Istituto nel triennio 1939-1942'', Roma, I.R.C.E., 1942.
*''Ritorno alle origini. 28 ottobre 1943'', Milano, Edizioni erre, 1943.
*''Il figliuol prodigo dell'eroismo. Ettore Muti'', Milano, Edizioni erre, 1944.
*''Nel 22. annuale della Marcia su Roma. Discorso pronunziato a piazza S. Sepolcro a Milano il 28 ottobre XXII E. F.'', Min. Cul. Pop., 1944.
*''Le tappe della rinascita'', Milano, Edizioni erre, 1944.
 
== Voci correlate ==
*[[Fascismo]]
*[[Benito Mussolini]]
*[[Brigate Nere]]
*[[Repubblica Sociale Italiana]]
*[[Ridotto alpino repubblicano]]
 
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