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[[File:Leopardi lolli.jpg|thumb|upright=1.2|[[Giacomo Leopardi]]]]
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=== Storia del genere umano ===
{{leggi il testo|sezione=s|[[s:Operette morali/Storia del genere umano|Storia del genere umano]]}}
[[File:Adam Eva, Durer, 1504.jpg|thumb|left|upright=0.7|''Adamo ed Eva'', secondo la ''genesi'' tradizionale della [[Chiesa (
{{citazione|[...]s'ingannano a ogni modo coloro i quali stimano essere nata primieramente l'infelicità umana dall'iniquità e dalle cose commesse contro agli Dei; ma per lo contrario non d'altronde ebbe principio la malvagità degli uomini che dalle loro calamità.<ref name="SDGU">Secondo il Timpanaro fu proprio questo pensiero a destare il maggior scandalo quando furono pubblicate le Operette. Le convinzioni leopardiane si sarebbero scontrate frontalmente con l'ottimismo provvidenziale della [[Chiesa cattolica]].</ref>|Ibidem}}
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L'operetta sembra riprendere dove si era interrotto il [[Operette morali#Dialogo d'Ercole e di Atlante|Dialogo d'Ercole e di Atlante]], fornendo una spiegazione razionale all'immagine di una ''terra tristemente silenziosa''. Il favoloso dialogo, che nel finale vedrà le posizioni dei due interlocutori sullo stesso piano, tanto da potersi leggere come un unico discorso, è condito da riferimenti classici più o meno espliciti: si va dalle leggi di [[Licurgo]],<ref>Licurgo aveva vietato agli Spartani di possedere oro e argento, consentendo l'uso di monete di ferro che valevano solo in città, cfr. anche Zibaldone p. 1170.</ref> alla tragedia burlesca del Valerasso,<ref>Il folletto, in risposta alle osservazioni dello Gnomo in cerca di qualche segno degli uomini, cita l'ultimo verso della Arcisopratragicissima Tragedia, pubblicata nel 1724 dal senatore [[Zaccaria Valaresso]]: {{citazione|Voi gli aspettate invan: son tutti morti.}}</ref> alla morte di [[Gaio Giulio Cesare|Cesare]].<ref>Leopardi cita i vv. 466-467 delle [[Georgiche]] di [[Virgilio]]:
<poem>[...] ''lite etiam extincto miseratus Caesare Romam,''
''cum caput obscura nitidum ferrugine texit'' [...]
</poem>
insieme a Crisippo e [[Marco Tullio Cicerone|Cicerone]].</ref>
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Composta a [[Recanati]] tra il 6 luglio e il 13 agosto, [[1824]].<ref name="SM1827" />
L'Operetta, incentrata sulla figura di [[Giuseppe Parini]], è la composizione più lunga del corpus
'''Capitolo primo'''
'''Capitolo primo'''<br />Dopo una breve introduzione sulle qualità umane e artistiche del Parini, si narra la passione che il letterato aveva nell'insegnare l'eloquenza e la poesia ai suoi discepoli. Inizia il tema della gloria, e delle difficoltà<ref>La via delle lettere non è un esercizio naturale e non può essere percorsa senza pregiudizio del corpo, moltiplicando in diversi modi la propria infelicità.</ref> per conseguirla. Nell'antichità era legata alla ''pratica'', e non ottenuta con gli studi e le lettere. L'uomo era votato all'azione per fare il bene della repubblica e dei suoi cittadini.<ref>[[Marco Tullio Cicerone|Cicerone]] nei suoi scritti si scusava per il suo inguaribile ''otium'' (l'amore per le lettere), rassicurando i lettori sul suo impegno politico.</ref> Oggi avviene il contrario, poiché i nostri tempi sono ''tranquilli'' e non votati ad imprese magnanime. [[Vittorio Alfieri]] è l'esempio di letterato per indole portato alla gloria, ma vissuto in un'epoca lontana dalle grandi imprese e costretto a riviverle nei suoi scritti: i moderni sono comunemente esclusi dal cammino di celebrità.<br />'''Capitolo secondo'''<br />Le invidie, la calunnie i maneggi segreti, oscurano o screditano la fama di un autore, portando alla ribalta opere insulse, obliando le pregevoli. [[Baldassarre Castiglione]], poeta «''assueto a scrivere''», è un esempio di stile da tramandare: un testo non è lodevole solo per le proprie sentenze e i propri contenuti. Apprendere lo stile significa anche capire meglio i grandi. [[Virgilio]] introduce il tema della fama ''casuale'': la maggior parte dei lettori esprime un giudizio ''grossolano'', che spesso poggia sulla ''tradizione'' che accompagna i sommi, una ''[...] consuetudine ciecamente abbracciata.''<br />'''Capitolo terzo'''<br />La valutazione di un'opera è fortemente legata alla prima impressione, derivante, nella maggior parte dei casi, da considerazioni personali che possono alterare i valori intrinseci: stati d'animo diversi, momenti della vita (età, maturità), condizioni sociali e cultura.<br />'''Capitolo quarto'''<br />La capacità di gustare letteratura (eloquenza) scema con l'avanzare dell'età, come prescrive madre natura. Gli anziani sono meno predisposti dei giovani, che a loro volta, mossi da impeto, soffrono la poca esperienza, dando nel giudizio più spazio ad aspetti frivoli, e a cose vane. L'uomo maturo conosce il vero e la vanità di tutte le cose, il giovane crede nelle ''favole''. Parte un'analisi dell'arte nelle città, sprecata nelle grandi perché non è più in grado di muovere grandi sentimenti: per abitudine, per troppe occupazioni dei cittadini per leggerezza, ecc. meglio nelle piccole e mediocri. Gli antichi scrivevano per distrarsi dal ''negotium'', mentre oggi si scrive tra un ''otium'' e l'altro. La città ha una duplice natura: favorisce la completa realizzazione dell'arte ma nello stesso tempo perde il suo valore intimo e spirituale; impossibilità per l'uomo di fruirne a pieno spirito.<br />'''Capitolo quinto'''<br />Dopo la parentesi del capitolo precedente si torna al tema principale. Le opere vicine alla ''perfezione'' risultano più piacevoli e meritorie dopo una seconda lettura, mentre non sempre se ne colgono i frutti alla prima. Avviene il contrario con gli scritti ''mediocri'' (che pur possono contenere qualcosa di pregio) che rubano la scena e pregiudicano le ''riletture''. Anticamente non era così perché circolavano pochi testi. Viene toccato il tema del ''primo giudizio'' che difficilmente si muta quindi in vantaggio sempre i libri maggiori: «''[...] lo scrivere perfettamente è quasi inutile alla fama''».<ref>Argomento ripreso con la stessa lucidità e spirito analitico/goliardico da [[Italo Calvino]] nel celebre incipit de [[Se una notte d'inverno un viaggiatore]]</ref> Due, fondamentalmente, i motivi che pregiudicano la prima lettura: i libri perfetti non sono letti con la stessa accuratezza dei ''classici'' e anche quelli importanti si studiano bene molti anni dopo, quando matura una certa ''fama''; la fama stessa che si deposita sui crea una sorta di velo di pregio che amplifica valori spesso gratuiti, «''[...] la maggior parte del diletto nasce dalla stessa fama''». Il valore di un poema non potrebbe essere giudicato nemmeno dal miglior studioso di versi del suo tempo perché nel caso dell'Iliade mancherebbero ben 27 secoli di tradizione letteraria all'appello.<br />'''Capitolo sesto'''<br />Qualsiasi azione, inclusa la lettura, se aiutata dalla speranza risulta più utile e fruttuosa, mentre mancando causa fastidio e noia. Chi abbraccia solo il ''presente'' è mosso da piaceri rapidi e insipidi e salta da libro a libro. Poiché la maggior parte dei lettori è di questa ''pasta'' non conviene scrivere perfettamente, gli stessi studiosi col tempo avranno a noia quei testi che prima gli recavano giovamento.<br />'''Capitolo settimo'''<br />Cambio argomento: dalle lettere amene alla filosofia, non c'è differenza, non c'è differenza con la poesia in termini di profondità di pensiero e sottigliezza nel ragionare. Anche in questo settore solo un filosofo ''sa leggere'' un libro filosofico e cogliere le verità di pensiero che le persone normali comprenderebbero solo ''letteralmente''. La profondità d'animo favorisce la lettura poetica, la profondità di pensiero quella filosofica. L'uomo impoetico non riesce a seguire ragionamenti sottili per giungere alla verità contenuta negli scritti. Questo genera una diversità di opinioni tanto che molti testi sono spesso accusati di ''oscurità'' per colpevole incomprensione dovuta alla scarsa qualità dei lettori.<br />'''Capitolo ottavo'''<br />Se in vita il discepolo, per meriti personali, dovesse riuscire a formulare, dopo grandi fatiche, grandi verità, non otterrà facilmente la ''gloria'' perché dovrà essere passato al vaglio dal ''pensiero corrente''. La comunità scientifica e tutti gli uomini dovranno abituarsi all'idea prima di poterla accettare. parte un parallelo con la geometria e si cita [[Renè Descartes|Cartesio]]: le verità geometriche sono accettate per ''assuefazione'' e non per certezze di verità concepite nell'animo. Il progresso del sapere umano non è compreso dai contemporani, il sommo pensatore è ''deriso e umiliato''. Solo nella generazione successiva, attraverso sforzi di ricerca individuali, si potrà verificare ed accettare la verità di quel genio e riconoscergli «''quanto precorrese il genere umano''», con lodi che leveranno «''poco romore''». Pertanto né in vita né dopo la morte sarà riconosciuta la gloria al sommo.<br />'''Capitolo nono'''<br />Nell'ipotesi in cui si ottenesse in vita la gloria, essa sarà trattata diversamente da città piccola a città grande. Le città piccole mancando di tutto, anche di cultura, non sono tengono in considerazione ''la fama, la sapienza e la dottrina'' di quel sommo, tanto che se abitatore di quei luoghi,<ref>Leopardi cita [[Bosisio Parini|Bosisio]] in Brianza presso il [[Lago di Pusiano|lago Pusiano]] dove nacque [[Giuseppe Parini]] il 22 maggio, [[1729]].▼
Dopo una breve introduzione sulle qualità umane e artistiche del Parini, si narra la passione che il letterato aveva nell'insegnare l'eloquenza e la poesia ai suoi discepoli. Inizia il tema della gloria, e delle difficoltà<ref>''La via delle lettere non è un esercizio naturale e non può essere percorsa senza pregiudizio del corpo, moltiplicando in diversi modi la propria infelicità[...]'', Ibidem.</ref> per conseguirla. Nell'antichità era legata alla ''pratica'', e non si poteva ottenere con gli studi e le lettere: l'uomo era votato all'azione per fare il bene della repubblica e dei suoi cittadini.<ref>[[Marco Tullio Cicerone|Cicerone]] nei suoi scritti si ''scusava'' per il suo inguaribile ''otium'' (l'amore per le lettere), rassicurando i lettori sul suo impegno politico.</ref> Oggi avviene il contrario, poiché i nostri tempi sono ''tranquilli'' e non votati ad imprese magnanime. [[Vittorio Alfieri]] è l'esempio di letterato per indole predisposto alla gloria, ma vissuto in un'epoca lontana dalle grandi imprese e costretto a riviverle nei suoi scritti: i moderni sono comunemente esclusi dal cammino di celebrità.
'''Capitolo secondo'''
Le invidie, la calunnie i maneggi segreti, oscurano o screditano la fama di un autore, portando alla ribalta opere insulse che obliano le pregevoli. [[Baldassarre Castiglione]], poeta «''assueto a scrivere''», è un esempio di stile da tramandare: un testo infatti non è lodevole solo per le proprie sentenze e i propri contenuti ma anche per la ricchezza della forma in cui si presenta al lettore. Apprendere lo stile significa anche capire meglio i ''grandi''. [[Virgilio]] introduce il tema della fama ''casuale'': la maggior parte dei lettori esprime un giudizio ''grossolano'', che spesso poggia sulla ''tradizione'' che accompagna i sommi, una ''[...] consuetudine ciecamente abbracciata.''
'''Capitolo terzo'''
▲
</ref> si troverà in forte disagio perché non compreso, deriso e umiliato. Nelle città grandi, gli occhi e gli animi degli uomini sono «''distratti e rapiti, parte dalla potenza, parte dalla ricchezza, in ultimo dalle arti che servono all'intrattenimento e alla giocondità della vita inutile''»; al ''genio'' non resta che accontentarsi della gloria che si riesce ad ottenere in un ristretto numero di amicizie.<br />'''Capitolo decimo'''<br />{{citazione|Non potendo godere [...] alcun beneficio della tua gloria, la maggiore utilità che ne ritrarrai, sarà di rivolgerla nell'animo e di compiacertene teco stesso nel silenzio della tua solitudine, [...] e fartene fondamento a nuove speranze. [...] La gloria degli scrittori, [...]riesce più grata da lungi che da vicino, ma non è mai, si può dire, presente a chi la possiede [...].|ibidem}}
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Composta a [[Recanati]], tra il 29 agosto e il 26 settembre [[1824]] e pubblicata nel 1827.<ref name="SM1827" /><br />[[File:Socrates Louvre.jpg|thumb|upright=0.7|[[Socrate]], ritratto romano, conservato nel [[Museo del Louvre]].]]
'''Capitolo primo'''<br />Seconda operetta divisa in capitoli dopo il Parini, che narra in stile biografico la vita di Filippo Ottonieri, filosofo che in vita non ha mai offeso o recato danno a nessuno, ma è stato sempre tenuto in scarsa considerazione dai suoi ''amici'' per il poco amore mostrato verso le consuetudini della vita incivilita. ▼
▲'''Capitolo primo'''<br />Seconda operetta divisa in capitoli dopo il Parini, che narra in stile biografico la vita di Filippo Ottonieri, filosofo che in vita non ha mai offeso o recato danno a nessuno, ma è stato sempre tenuto in scarsa considerazione dai suoi ''amici'' per il poco amore mostrato verso le consuetudini della vita incivilita.<ref>Per i motivi svolti nell'operetta cfr. Zibaldone , 38-39; 64-65; 220-221; 527; 4095; 1044; 1537-1538; 4104; 69; 703; 4090; 2526-2527; 1477; 2800-2803; 676; 479-480; 1364; 1329; 97-99; 2767-2770; 238-239; 183; 375-376; 4068-4069; 3447-3448; 3183-3191; 3520-3524; 194-195; 1362; 55; 1833; 293; 2481; 2611; 1926; 3000; 352-353; 2653-2654; 4075-4076; 4023; 162; 231; 249; 303-304; 2602; 2680-2681; 3761; 593-595; 62-63; 29-30; 58; 60-61; 2588; 4068; 212; 1; 273; 66; 6, 309.</ref>
Dopo una serie di ritratti di filosofi del passato<ref>Rousseau, Democrito, Diogene</ref>, apprendiamo che l'Ottonieri si professava epicureo nella vita, probabilmente per gioco<ref>Leopardi, afferma che il filosofo riponeva nell'ozio, nella negligenza e nei piaceri del copro il ''sommo bene degli uomini'', riportando un'interpretazione tradizionale, ma inesatta, della dottrina di Epicuro, il quale "[...]invece insegnava a posporre i piaceri del corpo a quelli dello spirito men fallaci e più durevoli." G. Gentile, ''Operette morali'', Bologna, Zanichelli, 1925.</ref>, mentre nella filosofia diceva di seguire l'esempio di [[Socrate]], colui che ha ''fatto scendere la filosofia dal cielo'', secondo [[Marco Tullio Cicerone|Cicerone]], esempio di massima coerenza nei costumi e nel pensiero. Del maestro di [[Platone]] apprezza il parlare ''ironico e dissimulato'' e i particolari della sua vita: nato per amare, ''dal cuore delicato e fervido'', fu dalla natura condannato per la forma del corpo e vissuto in un ambiente deditissimo a motteggiare. Il primo capitolo si trasforma in un'apologia di Socrate e si conclude con una felice metafora sui libri e la lettura, che spiega perché il filosofo non affidò mai il suo pensiero alle ''carte'':▼
▲Dopo una serie di ritratti di filosofi del passato famosi anche per la loro misantropia<ref>[[Jean-Jacque Rousseau]] (1712-1778), citato come filosofo misantropo ed eccentrico; [[Democrito
{{citazione|[...] il leggere è un conversare, che si fa con chi scrisse. Ora, come nelle feste e nei sollazzi pubblici, quelli che [...] non credono di esser parte dello spettacolo, prestissimo si annoiano; così nella conversazione è più grato generalmente il parlare che l'ascoltare. Ma i libri per necessità sono come quelle persone che stando cogli altri, parlano sempre esse, e non ascoltano mai. Per tanto è di bisogno che il libro dica molto buone e belle cose, e dicale molto bene; acciocché dai lettori gli sia perdonato quel parlar sempre. Altrimenti è forza che così venga in odio qualunque libro, come ogni parlatore insaziabile.|ibidem}}
'''Capitolo secondo'''<br />
{{citazione|Dimandato a che nascano gli uomini, rispose per ischerzo: a conoscere quanto sia più spediente il non esser nati.|ibidem
Con un andamento sempre più aforistico, vicino allo stile dello Zibaldone, il capitolo si apre con un incitamento all'azione
{{
Nessuno è contento della propria condizione;<ref>Leopardi riporta una ''questione'' di [[Quinto Orazio Flacco|Orazio]], ''Satire'', I, I vv.1-3:
Nessuno è contento della propria condizione (Orazio e Dialogo Ercole/Atlante); tutti sperano sempre in un miglioramento, in un avanzamento del proprio stato: l'uomo più FELICE della terra che non può avanzare in nessun modo la sua condizione, è il più misero di tutti! ▼
<poem>
Qui fit, Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem
Seu ratio dederit seu fors obiecerit, illa
Contentus vivat, laudet diversa sequentis?
</poem>
▲
[[File:Kuntze-Konicz Fortune.jpg|thumb|upright
{{
|ibidem}}
'''Capitolo terzo'''
Il capitolo si apre con una rapida analisi sul dolore della perdita della persona amata. (<ref>cfr. anche la canzone ''Per una donna inferma di malattia lunga e mortale'', del 1819, vv.1-13:
<poem>
Io so ben che non vale
Beltà nè giovanezza incontro a morte;
E pur sempre ch’io ’l veggio m’addoloro:
Che s’io nol veggio, il mio desir prevale,
Tanto ch’io spero pur che l’enea sorte
Altrove ad altri casi ad altri tempi
Riservi i tristi esempi;
Fin che dal mal presente è sbigottita
La misera speranza.
Com’or che a l’occidente di sua vita
Veggio precipitar questa dogliosa,
Poi ch’altro non m’avanza,
Già mai di lagrimarla io non fo posa.
</ref> Meglio una malattia breve e rapida che una morte per ''infermità'' lunga e travagliata. La lenta agonia trasforma non solo l'anima e il corpo della persona amata ma anche il ricordo della sua immagine, tanto che non sopravvive neanche nell'immaginazione, non portando più alcuna consolazione ma solo tristezza.
Il cuore del capitolo tratta dei rapporti sociali tra esseri umani.
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Negli scambievoli rapporti si solidarietà umana, sia il tempo del dolore sia il tempo dell'allegria sono ostacoli alla compassione verso il prossimo. Entrambe le passioni riempiono l'uomo del ''pensiero di se medesimo'' e non lasciano spazio alle preoccupazioni altrui.
{{
Le migliori occasioni di vedere gli uomini disposti alla compassione e all'azione lodevole e disinteressata si presentano quando la gioia nasce da pensieri vaghi e da oggetti indeterminati, provocando una ''tranquilla agitazione dello spirito'' che predispone volentieri a gratificare gli altri.
Non è vero che l'infelice trova maggiore comprensione presso suoi simili, anzi, più spesso, invece di partecipare al dolore, gli sventurati spostano l'attenzione sulla loro condizione, cercando di convincere che i propri malanni siano ''più gravi''. Quando Priamo supplica Achille per la restituzione del copro dell'amato figlio Ettore, l'eroe inizia a piangere non per compassione dell'anziano genitore ma per il ricordo di suo padre e dell'amico morto in battaglia, Patroclo.
[[File:Priamo chiede ad Achille il corpo di Ettore di Antonio Giaccarelli, 1819-25 ca. (particolare).JPG|thumb|
La crudeltà e la malvagità, invece, nascono spesso dalla negligenza e dalla leggerezza delle nostre azioni, piuttosto che dalla ''pessima qualità morale'' degli uomini. Spesso però, nella piccola economia dei rapporti umani, è meno grave ricevere un'offesa manifesta (per maleducazione o per malvagità) che un ''piccolo'' riconoscimento per una ''grande'' azione di cui si è artefici; perché, in questo secondo caso, da un lato si priva il benefattore della ''nuda e infruttuosa gratitudine dell'animo'' (il fare qualcosa per la gloria, ecc.); dall'altro gli impedisce di lamentarsi per il torto ricevuto. Allo stesso modo, siamo portati a non riconoscere le buone qualità negli altri quando non sono a nostro vantaggio.
'''Capitolo quarto'''
Ha per argomento i ''generi'' di persone.
Gli ''indecisi'' sono sempre quelli più determinati nel perseguire i loro propositi perché temono, a causa dell'ansia e dell'incertezza in cui vivono quotidianamente, di tornare in quella condizione di ''perplessità e sospensione d'animo'' che alimenta le loro esistenze: la vera sfida non è l'oggetto dell'impresa, ma vincere sé stessi. Negli uomini, sia antichi che moderni, la ''grandezza'' è frutto dell'eccesso di una loro particolare ''qualità'', tanto che la ''straordinarietà'' non si acquisisce se le qualità di un uomo importante siano ''bilanciate'' tra loro.
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# ''tollerabile'': quando la corruzione superò ogni limite e l'uomo imparò a disprezzare la virtù e ad avere esperienza dell'arido vero, la vecchiaia divenne tollerabile a causa del ''decadere fisico del corpo'', che mitigava, con il raffreddarsi del cuore e con la debolezza dei sensi, l'inclinazione alla malvagità.
'''Capitolo quinto'''
{{citazione| [
Oggi lodare qualcuno significa misurare la soddisfazione
Alcuni pensieri sono rivolti alla MODA, che ha un potere grandissimo, capace di far cambiare idea e costumi alle persone più radicali, tanto da convincerle ad abbandonare le loro precedenti convinzioni. (rif. Dialogo della Moda e della Morte); e al RISO: si ride di tutto tranne delle cose veramente ridicole.
Ciascuna generazione crede la precedente migliore della successiva: eppure si crede che i popoli migliorino più ci si allontana da una condizione ''primitiva'' e che fare un passo indietro significherebbe peggiorare.
Capitolo che, come il successivo, gioca sugli aforismi in maniera marcata. Qui sono contrapposti quelli di autori famosi, nel successivo esclusivamente quelli dell'Ottonieri. I grandi protagonisti del pensiero dell'umanità sono chiamati a testimoniare i temi centrali delle operette.▼
Il VERO non è bello. Ma quando manca, il BELLO è da preferire a ogni altra cosa. Le città grandi sono luoghi di infelicità e miseria, dove si respira solo falsità perché ogni cosa è finta e vana. Per gli spiriti ''delicati'' sono il posto peggiore del mondo. OCCUPARE la vita è un bisogno maggiore del vivere stesso: il vivere per sé stesso non è BISOGNO perché separato dalla felicità non è BENE.
Gli uomini felici sono i più tormentati: i più fortunati traggono piacere da gioie minime che appena trascorse possono essere rivissute attraverso il ricordo (rimembranza)▼
L'unico cammino di lode e di gloria tra i giovani è quello che passa per il piacere (VOLUTTA'). Magnificarsi e pavoneggiarsi con infinite novelle su grandi imprese, spesso ritoccate o interamente false, davanti agli amici con lo scopo di ottenere effimeri lodi o riconoscimenti, è l'unico modo per ottenere la fama.<ref>Ad esempio di grande impresa l'autore porta la storica battaglia di Isso 333 a.C. combattuta fra Dario, re dei persiani, e Alessandro Magno.</ref> ▼
II parte – Il valore di un gravo scrittore▼
Sul finale un curioso riferimento all'innesto del vaiolo e una battuta sulla retorica: fatta promessa di non lodare nessuno, torna su i suoi passi per non dimenticare l'arte del ''ben parlare''.
I più eloquenti e i più coinvolgenti sono quelli che parlano di sé stessi perché più sinceri:▼
'''Capitolo sesto'''
{{citazione| […] quelli che scrivono delle cose proprie hanno l'animo fortemente preso e occupato dalla materia, […] si astengono dagli ornamenti frivoli, […] o dall'affettazione o da tutto quello che è fuori dal naturale|ibidem}}▼
▲Capitolo che, come il successivo, gioca sugli aforismi in maniera marcata. Qui sono contrapposti quelli di autori famosi,
E i lettori lo apprezzano perché non esiste modo migliore per trattate con maggior ''verità'' ed ''efficacia'' le cose altrui che ''favellando'' delle proprie; perché tutti gli uomini si assomigliano tra loro, sia nelle gioie che negli accidenti, quindi non esiste espediente tecnico migliore che trattarli come ''fatti'' propri. Segue un elenco di esempi di famosi oratori che hanno animato il loro auditorio, ad un certo punto dell'arringa, parlando di sé stessi (Demostene, Cicerone Pro milione, Bousset, Giuliano imperatore, Lorenzino dei Medici).▼
Il capitolo si divide in de parti:
'''I parte. Motti antichi.'''
L'ignoranza produce ''speranza''; la conoscenza produce l'oblio: la prima è un BENE la seconda un MALE. Secondo gli Egesiaci il vero piacere deriva dall'assenza di ogni dolore e quindi nella morte.<ref>Egesia, filosofo cirenaico del III sec a.C. era chiamato ''persuasor di morte'', cfr. ''Dialogo di Plotino e di Porfirio''</ref>
▲
Perché ci lamentiamo della NATURA che ci nasconde il VERO con vane apparenze, belle e dilettevoli, ma che ci lasciano nello stesso tempo LIETI? <ref>A riprova si cita un passo di [[Plutarco]] tradotto da [[Marcello Adriani]] sulle ''buffonerie di [[Stratocle]]'' che persuase gli Ateniesi di aver riportato una grande vittoria, mentre avevano subito una sconfitta. ''[…] quale ingiuria riceveste da me, che seppi tenervi in festa ed in gioia per ispazio di tre giorni?'' cit. ibidem</ref>
▲L'unico cammino di lode e di gloria tra i giovani è quello che passa per il piacere (VOLUTTA'). Magnificarsi e pavoneggiarsi con infinite novelle su grandi imprese, spesso ritoccate o interamente false, davanti agli amici con lo scopo di ottenere effimeri lodi o riconoscimenti, è l'unico modo per ottenere la fama.<ref>Ad esempio di '''vera''' grande impresa l'autore porta la storica battaglia di Isso 333 a.C. combattuta fra Dario, re dei persiani, e Alessandro Magno.</ref>
▲
▲{{citazione| [
▲[[File:JulianusII-antioch(360-363)-CNG.jpg|thumb|upright=0.7|[[Flavio Claudio Giuliano|Giuliano l'Apostata]] raffigurato su di una moneta.]] E i lettori lo apprezzano perché non esiste modo migliore per trattate con maggior ''verità'' ed ''efficacia'' le cose altrui che ''favellando'' delle proprie; perché tutti gli uomini si assomigliano tra loro, sia nelle gioie che negli accidenti, quindi non esiste espediente tecnico migliore che trattarli come ''fatti'' propri. Segue un elenco di esempi
'''Capitolo settimo'''
Si conclude in chiave ironica la seconda prosa in capitoli (vedi il Parini) in cui si riportano le migliori sentenze e risposte argute dell'Ottonieri. La battuta sulla ''signora attempata'' che ''non intende certe voci antiche'' presenti in alcune poesie giovanili del filosofo
[[File:Carlo leopardi.jpg|thumb|left|upright=0.7|[[Carlo Leopardi]]]]{{citazione| Vi ho parlato solamente delle donne, perché della letteratura non so che mi vi dire. Orrori e poi orrori. I più santi nomi profanati, le più insigni sciocchezze levate al cielo, i migliori spiriti di questo secolo calpestati come inferiori al minimo letterato di Roma, la filosofia disprezzata come studi da fanciulli, il genio, l'immaginazione e il sentimento, nomi (non dico cose ma nomi) incogniti e forestieri ai poeti e alle poetesse di professione; l'Antiquaria messa da tutti in cima al sapere umano, e considerata costantemente e universalmente come l'unico vero studio dell'uomo [
=== Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez ===
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[[File:Mikolaj Kopernik.jpg|thumb|left|upright=0.7|[[Niccolò Copernico]]]]
In questa Operetta, composta nel 1827,<ref name="Firenze1845" /> torna il concetto della nullità del genere umano: l'ironico testo attacca la filosofia che mette l'uomo al centro dell'universo.<ref>''Storia dell'astronomia'' capp. II, IV, V; e Zibaldone, 84.</ref>
Leopardi la voleva nell'edizione Starita che fu interrotta e nella progettata e mai realizzata edizione [[:Operette morali#Edizione del '35|parigina]].
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{{citazione|[...] sono deliberato di lasciare le fatiche e i disagi agli altri|ibidem}}
'''Scena seconda'''<br />La più corta delle quattro, ci presenta Copernico intento all'osservazione del cielo dalla terrazza della sua abitazione. Lo scienziato non comprende il motivo della continua oscurità, quando il tempo segnala che è giunta da un bel pezzo l'alba. Un battito di ali lo distoglie da i suoi pensieri pieni di riferimenti dotti<ref>Si cita ''l'Almagesto'' ovvero il ''Trattato della composizione'' di [[Claudio Tolomeo]], compendiato da [[Giovanni di Sacrobosco]] (dalla città inglese di [[Holywood]]) nel suo ''De sphaera Mundi''; tra i citati anche [[Archimede]]; per i miti si ricorda la favolosa notte trascorsa tra [[Zeus]] e [[Alcmena]], dalla cui unione nacque [[Ercole]], durata il triplo del normale</ref> e prepara la scena successiva.
[[File:Fotothek df tg 0008204 Theosophie ^ Alchemie.jpg|thumb|upright=1.4|La [[Terra]] e il [[Sole]]]]
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{{citazione|come pare a prima vista che debba essere; e che gli effetti suoi non apparterranno alla fisica solamente: perché esso sconvolgerà i gradi delle dignità delle cose, e l'ordine degli enti; scambierà i fini delle creature; e per tanto farà un grandissimo rivolgimento anche nella metafisica [...]|ibidem}}
Anche considerando il solo stravolgimento celeste, con tutti gli altri astri immobili rispetto ai loro pianeti, il nostro Sole non indietreggia di un passo, anzi si dichiara disposto a non essere più ''unico'' nel suo genere e che ''diversamente da [[Marco Tullio Cicerone|Cicerone]]'',<ref>Il riferimento si legge nell'orazione ''Pro Sestio'', XLV, 98:«''Neque enim rerum gerendarum dignitate homines ecferri ita convenit ut otio non prospiciant, neque ullum amplexari otium quod abhorreat a dignitate''»</ref> ha ''riguardo più all'ozio che alla dignità''.
Ad un Copernico, infine, preoccupato delle conseguenze,<ref>Probabile allusione a [[Giordano Bruno|Bruno]]</ref> l'astro consiglia di dedicare la scoperta al papa.<ref>Copernico dedicò il libro ''De revolutionibus orbium coelestium'' al pontefice [[Paolo III]].</ref>
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{{S sezione|letteratura}}
{{leggi il testo|sezione=s|[[s:Operette morali/Dialogo di Plotino e di Porfirio|Dialogo di Plotino e di Porfirio]]}}
[[File:Plotinos.jpg|thumb|left|upright=0.7|[[Plotino]]]]Composto, probabilmente a [[Firenze]], nel 1827<ref name="Firenze1845" />, il Dialogo propone il tema del suicidio, che già aveva ispirato le poesie ''Ultimo canto di Saffo'' e ''Bruto minore'', affrontandolo però in una prospettiva diversa. Mentre nelle poesie il suicidio è la scelta legittima di un'anima nobile che rifiuta la bassezza della vita e della società, nel Dialogo Leopardi conclude che le ragioni per respingere il suicidio sono di carattere umanitario.<br />Il dialogo si svolge fra due filosofi neoplatonici. [[File:Porphyry.jpg|thumb
=== Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere ===
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{{leggi il testo|sezione=s|[[s:Operette morali/Dialogo di Tristano e di un amico|Dialogo di Tristano e di un amico]]}}
[[File:Aleksander-d-store.jpg|thumb
[[File:Julius_Caesar.jpg|thumb|left|upright=0.7|[[Gaio Giulio Cesare|Giulio Cesare]]]]
{{citazione|[...] Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi.|ibidem}}
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Inserita nell'edizione del '34 a conclusione del libro, l'operetta rappresenta la difesa finale del pensiero leopardiano, consumatasi nella rottura definitiva col gruppo fiorentino de l'Antologia di [[Gian Pietro Vieusseux]] e [[Niccolò Tommaseo]].
Tristano, autore di un libro sull'infelicità e la miseria umana, rivela ad un amico, in modo ironico, di essersi sbagliato e che le sue teorie erano solo pazzie: la vita è felice,
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{{citazione|[...] È ben vero che alcune volte penso che gli antichi valevano, delle forze del corpo, ciascuno per quattro di noi. E il corpo è l'uomo; perché [...] la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere [...] dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; [...] la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono. [...] tra noi già da lunghissimo tempo l'educazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo spirito. [...] L'effetto è che a paragone degli antichi noi siamo poco più che bambini [...].|ibidem}}
[[File:Gino Capponi.jpg|thumb
Tornano riflessioni già affrontate in altre testi e più compiutamente in Plotino e Porfirio. La morte come fine delle sofferenze rimanda ad una conclusione cercata fuori dalla finzione narrativa ed è un effetto di costante sospensione per un finale che non arriva mai, incontrato spesso lungo tutta la lettura delle operette.
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== Note ==
== Bibliografia ==
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{{Leopardi}}
{{Portale|letteratura}}
RIVEDERE
1. Dialogo di Tristano e di un amico
2. Dialogo di Plotino e di Porfirio
3. Elogio degli uccelli
4. Il Parini, ovvero Della Gloria
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