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{{Avvisounicode}}
{{torna a|Operette morali}}
[[File:Leopardi lolli.jpg|thumb|upright=1.2|[[Giacomo Leopardi]]]]
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=== Storia del genere umano ===
{{leggi il testo|sezione=s|[[s:Operette morali/Storia del genere umano|Storia del genere umano]]}}
[[File:Adam Eva, Durer, 1504.jpg|thumb|left|upright=0.7|''Adamo ed Eva'', secondo la ''genesi'' tradizionale della [[Chiesa (istituzionecomunità)|Chiesa]], profondamente rivista da Leopardi: causò dapprima ''un'avvertenza ai lettori'' sugli errori del poeta, poi la messa all'[[Indice dei libri proibiti|Indice]] dell'intero libro. [[Albrecht Dürer|Dürer]], [[incisione]] su rame, 1504.]]
 
{{citazione|[...]s'ingannano a ogni modo coloro i quali stimano essere nata primieramente l'infelicità umana dall'iniquità e dalle cose commesse contro agli Dei; ma per lo contrario non d'altronde ebbe principio la malvagità degli uomini che dalle loro calamità.<ref name="SDGU">Secondo il Timpanaro fu proprio questo pensiero a destare il maggior scandalo quando furono pubblicate le Operette. Le convinzioni leopardiane si sarebbero scontrate frontalmente con l'ottimismo provvidenziale della [[Chiesa cattolica]].</ref>|Ibidem}}
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L'operetta sembra riprendere dove si era interrotto il [[Operette morali#Dialogo d'Ercole e di Atlante|Dialogo d'Ercole e di Atlante]], fornendo una spiegazione razionale all'immagine di una ''terra tristemente silenziosa''. Il favoloso dialogo, che nel finale vedrà le posizioni dei due interlocutori sullo stesso piano, tanto da potersi leggere come un unico discorso, è condito da riferimenti classici più o meno espliciti: si va dalle leggi di [[Licurgo]],<ref>Licurgo aveva vietato agli Spartani di possedere oro e argento, consentendo l'uso di monete di ferro che valevano solo in città, cfr. anche Zibaldone p. 1170.</ref> alla tragedia burlesca del Valerasso,<ref>Il folletto, in risposta alle osservazioni dello Gnomo in cerca di qualche segno degli uomini, cita l'ultimo verso della Arcisopratragicissima Tragedia, pubblicata nel 1724 dal senatore [[Zaccaria Valaresso]]: {{citazione|Voi gli aspettate invan: son tutti morti.}}</ref> alla morte di [[Gaio Giulio Cesare|Cesare]].<ref>Leopardi cita i vv. 466-467 delle [[Georgiche]] di [[Virgilio]]:
<poem>[...] ''lite etiam extincto miseratus Caesare Romam,''
''cum caput obscura nitidum ferrugine texit'' [...]
</poem>
insieme a Crisippo e [[Marco Tullio Cicerone|Cicerone]].</ref>
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Composta a [[Recanati]] tra il 6 luglio e il 13 agosto, [[1824]].<ref name="SM1827" />
 
L'Operetta, incentrata sulla figura di [[Giuseppe Parini]], è la composizione più lunga del corpus;: divisa in dodici capitoli, riguardanti la vanità della gloria, mette in guardia un promettente allievo dagli ostacoli che incontrerà per ottenere la fama nelle lettere o nella filosofia.<ref name="Parininota zib">[[Zibaldone]] pp. 2453-2454 (e la dedicatoria al [[Trissino (famiglia)|conte Leonardo Trissino]] della canzone ''Ad Angelo Mai''); 2676; 2682-2683; 2796-2799; 4021; 3673-3675; 1788-1789; 3769; 227-228; 2233-2236; 192; 1883-1885; 2600; 345-347; 359; 1650; 1833-1840; 3245; 3382-3383; 4108-4109; 1720-1721; 1729-1732; 455; 263-264; 273-274; 3975-3976; 2544-2545; 3383-3385; 271; 826-829; 593; 306-307; 643-644; 3027-3029; 1531-1533; 1708-1709.</ref>
 
'''Capitolo primo'''
'''Capitolo primo'''<br />Dopo una breve introduzione sulle qualità umane e artistiche del Parini, si narra la passione che il letterato aveva nell'insegnare l'eloquenza e la poesia ai suoi discepoli. Inizia il tema della gloria, e delle difficoltà<ref>La via delle lettere non è un esercizio naturale e non può essere percorsa senza pregiudizio del corpo, moltiplicando in diversi modi la propria infelicità.</ref> per conseguirla. Nell'antichità era legata alla ''pratica'', e non ottenuta con gli studi e le lettere. L'uomo era votato all'azione per fare il bene della repubblica e dei suoi cittadini.<ref>[[Marco Tullio Cicerone|Cicerone]] nei suoi scritti si scusava per il suo inguaribile ''otium'' (l'amore per le lettere), rassicurando i lettori sul suo impegno politico.</ref> Oggi avviene il contrario, poiché i nostri tempi sono ''tranquilli'' e non votati ad imprese magnanime. [[Vittorio Alfieri]] è l'esempio di letterato per indole portato alla gloria, ma vissuto in un'epoca lontana dalle grandi imprese e costretto a riviverle nei suoi scritti: i moderni sono comunemente esclusi dal cammino di celebrità.<br />'''Capitolo secondo'''<br />Le invidie, la calunnie i maneggi segreti, oscurano o screditano la fama di un autore, portando alla ribalta opere insulse, obliando le pregevoli. [[Baldassarre Castiglione]], poeta «''assueto a scrivere''», è un esempio di stile da tramandare: un testo non è lodevole solo per le proprie sentenze e i propri contenuti. Apprendere lo stile significa anche capire meglio i grandi. [[Virgilio]] introduce il tema della fama ''casuale'': la maggior parte dei lettori esprime un giudizio ''grossolano'', che spesso poggia sulla ''tradizione'' che accompagna i sommi, una ''[...] consuetudine ciecamente abbracciata.''<br />'''Capitolo terzo'''<br />La valutazione di un'opera è fortemente legata alla prima impressione, derivante, nella maggior parte dei casi, da considerazioni personali che possono alterare i valori intrinseci: stati d'animo diversi, momenti della vita (età, maturità), condizioni sociali e cultura.<br />'''Capitolo quarto'''<br />La capacità di gustare letteratura (eloquenza) scema con l'avanzare dell'età, come prescrive madre natura. Gli anziani sono meno predisposti dei giovani, che a loro volta, mossi da impeto, soffrono la poca esperienza, dando nel giudizio più spazio ad aspetti frivoli, e a cose vane. L'uomo maturo conosce il vero e la vanità di tutte le cose, il giovane crede nelle ''favole''. Parte un'analisi dell'arte nelle città, sprecata nelle grandi perché non è più in grado di muovere grandi sentimenti: per abitudine, per troppe occupazioni dei cittadini per leggerezza, ecc. meglio nelle piccole e mediocri. Gli antichi scrivevano per distrarsi dal ''negotium'', mentre oggi si scrive tra un ''otium'' e l'altro. La città ha una duplice natura: favorisce la completa realizzazione dell'arte ma nello stesso tempo perde il suo valore intimo e spirituale; impossibilità per l'uomo di fruirne a pieno spirito.<br />'''Capitolo quinto'''<br />Dopo la parentesi del capitolo precedente si torna al tema principale. Le opere vicine alla ''perfezione'' risultano più piacevoli e meritorie dopo una seconda lettura, mentre non sempre se ne colgono i frutti alla prima. Avviene il contrario con gli scritti ''mediocri'' (che pur possono contenere qualcosa di pregio) che rubano la scena e pregiudicano le ''riletture''. Anticamente non era così perché circolavano pochi testi. Viene toccato il tema del ''primo giudizio'' che difficilmente si muta quindi in vantaggio sempre i libri mediocri: «''[...] lo scrivere perfettamente è quasi inutile alla fama''».<ref>Argomento ripreso con la stessa lucidità e spirito analitico/goliardico da [[Italo Calvino]] nel celebre incipit de [[Se una notte d'inverno un viaggiatore]]</ref> Due, fondamentalmente, i motivi che pregiudicano la prima lettura: i libri perfetti non sono letti con la stessa accuratezza dei ''classici'' e anche quelli importanti si studiano bene molti anni dopo, quando matura una certa ''fama''; la fama stessa che si deposita sui crea una sorta di velo di pregio che amplifica valori spesso gratuiti, «''[...] la maggior parte del diletto nasce dalla stessa fama''». Il valore di un poema non potrebbe essere giudicato nemmeno dal miglior studioso di versi del suo tempo perché nel caso dell'Iliade mancherebbero ben 27 secoli di tradizione letteraria all'appello.<br />'''Capitolo sesto'''<br />Qualsiasi azione, inclusa la lettura, se aiutata dalla speranza risulta più utile e fruttuosa, mentre mancando causa fastidio e noia. Chi abbraccia solo il ''presente'' è mosso da piaceri rapidi e insipidi e salta da libro a libro. Poiché la maggior parte dei lettori è di questa ''pasta'' non conviene scrivere perfettamente, gli stessi studiosi col tempo avranno a noia quei testi che prima gli recavano giovamento.<br />'''Capitolo settimo'''<br />Cambio argomento: dalle lettere amene alla filosofia, non c'è differenza, non c'è differenza con la poesia in termini di profondità di pensiero e sottigliezza nel ragionare. Anche in questo settore solo un filosofo ''sa leggere'' un libro filosofico e cogliere le verità di pensiero che le persone normali comprenderebbero solo ''letteralmente''. La profondità d'animo favorisce la lettura poetica, la profondità di pensiero quella filosofica. L'uomo impoetico non riesce a seguire ragionamenti sottili per giungere alla verità contenuta negli scritti. Questo genera una diversità di opinioni tanto che molti testi sono spesso accusati di ''oscurità'' per colpevole incomprensione dovuta alla scarsa qualità dei lettori.<br />'''Capitolo ottavo'''<br />Se in vita il discepolo, per meriti personali, dovesse riuscire a formulare, dopo grandi fatiche, grandi verità, non otterrà facilmente la ''gloria'' perché dovrà essere passato al vaglio dal ''pensiero corrente''. La comunità scientifica e tutti gli uomini dovranno abituarsi all'idea prima di poterla accettare. parte un parallelo con la geometria e si cita [[Renè Descartes|Cartesio]]: le verità geometriche sono accettate per ''assuefazione'' e non per certezze di verità concepite nell'animo. Il progresso del sapere umano non è compreso dai contemporani, il sommo pensatore è ''deriso e umiliato''. Solo nella generazione successiva, attraverso sforzi di ricerca individuali, si potrà verificare ed accettare la verità di quel genio e riconoscergli «''quanto precorrese il genere umano''», con lodi che leveranno «''poco romore''». Pertanto né in vita né dopo la morte sarà riconosciuta la gloria al sommo.<br />'''Capitolo nono'''<br />Nell'ipotesi in cui si ottenesse in vita la gloria, essa sarà trattata diversamente da città piccola a città grande. Le città piccole mancando di tutto, anche di cultura, non sono tengono in considerazione ''la fama, la sapienza e la dottrina'' di quel sommo, tanto che se abitatore di quei luoghi,<ref>Leopardi cita [[Bosisio Parini|Bosisio]] in Brianza presso il [[Lago di Pusiano|lago Pusiano]] dove nacque [[Giuseppe Parini]] il 22 maggio, [[1729]].
 
Dopo una breve introduzione sulle qualità umane e artistiche del Parini, si narra la passione che il letterato aveva nell'insegnare l'eloquenza e la poesia ai suoi discepoli. Inizia il tema della gloria, e delle difficoltà<ref>''La via delle lettere non è un esercizio naturale e non può essere percorsa senza pregiudizio del corpo, moltiplicando in diversi modi la propria infelicità[...]'', Ibidem.</ref> per conseguirla. Nell'antichità era legata alla ''pratica'', e non si poteva ottenere con gli studi e le lettere: l'uomo era votato all'azione per fare il bene della repubblica e dei suoi cittadini.<ref>[[Marco Tullio Cicerone|Cicerone]] nei suoi scritti si ''scusava'' per il suo inguaribile ''otium'' (l'amore per le lettere), rassicurando i lettori sul suo impegno politico.</ref> Oggi avviene il contrario, poiché i nostri tempi sono ''tranquilli'' e non votati ad imprese magnanime. [[Vittorio Alfieri]] è l'esempio di letterato per indole predisposto alla gloria, ma vissuto in un'epoca lontana dalle grandi imprese e costretto a riviverle nei suoi scritti: i moderni sono comunemente esclusi dal cammino di celebrità.
 
'''Capitolo secondo'''
 
Le invidie, la calunnie i maneggi segreti, oscurano o screditano la fama di un autore, portando alla ribalta opere insulse che obliano le pregevoli. [[Baldassarre Castiglione]], poeta «''assueto a scrivere''», è un esempio di stile da tramandare: un testo infatti non è lodevole solo per le proprie sentenze e i propri contenuti ma anche per la ricchezza della forma in cui si presenta al lettore. Apprendere lo stile significa anche capire meglio i ''grandi''. [[Virgilio]] introduce il tema della fama ''casuale'': la maggior parte dei lettori esprime un giudizio ''grossolano'', che spesso poggia sulla ''tradizione'' che accompagna i sommi, una ''[...] consuetudine ciecamente abbracciata.''
 
'''Capitolo terzo'''
 
'''Capitolo primo'''<br />Dopo una breve introduzione sulle qualità umane e artistiche del Parini, si narra la passione che il letterato aveva nell'insegnare l'eloquenza e la poesia ai suoi discepoli. Inizia il tema della gloria, e delle difficoltà<ref>La via delle lettere non è un esercizio naturale e non può essere percorsa senza pregiudizio del corpo, moltiplicando in diversi modi la propria infelicità.</ref> per conseguirla. Nell'antichità era legata alla ''pratica'', e non ottenuta con gli studi e le lettere. L'uomo era votato all'azione per fare il bene della repubblica e dei suoi cittadini.<ref>[[Marco Tullio Cicerone|Cicerone]] nei suoi scritti si scusava per il suo inguaribile ''otium'' (l'amore per le lettere), rassicurando i lettori sul suo impegno politico.</ref> Oggi avviene il contrario, poiché i nostri tempi sono ''tranquilli'' e non votati ad imprese magnanime. [[Vittorio Alfieri]] è l'esempio di letterato per indole portato alla gloria, ma vissuto in un'epoca lontana dalle grandi imprese e costretto a riviverle nei suoi scritti: i moderni sono comunemente esclusi dal cammino di celebrità.<br />'''Capitolo secondo'''<br />Le invidie, la calunnie i maneggi segreti, oscurano o screditano la fama di un autore, portando alla ribalta opere insulse, obliando le pregevoli. [[Baldassarre Castiglione]], poeta «''assueto a scrivere''», è un esempio di stile da tramandare: un testo non è lodevole solo per le proprie sentenze e i propri contenuti. Apprendere lo stile significa anche capire meglio i grandi. [[Virgilio]] introduce il tema della fama ''casuale'': la maggior parte dei lettori esprime un giudizio ''grossolano'', che spesso poggia sulla ''tradizione'' che accompagna i sommi, una ''[...] consuetudine ciecamente abbracciata.''<br />'''Capitolo terzo'''<br />La valutazione di un'opera è fortemente legata alla prima impressione, derivante, nella maggior parte dei casi, da considerazioni personali che possono alterare i valori intrinseci: stati d'animo diversi, momenti della vita (età, maturità), condizioni sociali e cultura.<br />'''Capitolo quarto'''<br />La capacità di gustare letteratura (eloquenza) scema con l'avanzare dell'età, come prescrive madre natura. Gli anziani sono meno predisposti dei giovani, che a loro volta, mossi da impeto, soffrono la poca esperienza, dando nel giudizio più spazio ad aspetti frivoli, e a cose vane. L'uomo maturo conosce il vero e la vanità di tutte le cose, il giovane crede nelle ''favole''. Parte un'analisi dell'arte nelle città, sprecata nelle grandi perché non è più in grado di muovere grandi sentimenti: per abitudine, per troppe occupazioni dei cittadini per leggerezza, ecc. meglio nelle piccole e mediocri. Gli antichi scrivevano per distrarsi dal ''negotium'', mentre oggi si scrive tra un ''otium'' e l'altro. La città ha una duplice natura: favorisce la completa realizzazione dell'arte ma nello stesso tempo perde il suo valore intimo e spirituale; impossibilità per l'uomo di fruirne a pieno spirito.<br />'''Capitolo quinto'''<br />Dopo la parentesi del capitolo precedente si torna al tema principale. Le opere vicine alla ''perfezione'' risultano più piacevoli e meritorie dopo una seconda lettura, mentre non sempre se ne colgono i frutti alla prima. Avviene il contrario con gli scritti ''mediocri'' (che pur possono contenere qualcosa di pregio) che rubano la scena e pregiudicano le ''riletture''. Anticamente non era così perché circolavano pochi testi. Viene toccato il tema del ''primo giudizio'' che difficilmente si muta quindi in vantaggio sempre i libri mediocri: «''[...] lo scrivere perfettamente è quasi inutile alla fama''».<ref>Argomento ripreso con la stessa lucidità e spirito analitico/goliardico da [[Italo Calvino]] nel celebre incipit de [[Se una notte d'inverno un viaggiatore]]</ref> Due, fondamentalmente, i motivi che pregiudicano la prima lettura: i libri perfetti non sono letti con la stessa accuratezza dei ''classici'' e anche quelli importanti si studiano bene molti anni dopo, quando matura una certa ''fama''; la fama stessa che si deposita sui crea una sorta di velo di pregio che amplifica valori spesso gratuiti, «''[...] la maggior parte del diletto nasce dalla stessa fama''». Il valore di un poema non potrebbe essere giudicato nemmeno dal miglior studioso di versi del suo tempo perché nel caso dell'Iliade mancherebbero ben 27 secoli di tradizione letteraria all'appello.<br />'''Capitolo sesto'''<br />Qualsiasi azione, inclusa la lettura, se aiutata dalla speranza risulta più utile e fruttuosa, mentre mancando causa fastidio e noia. Chi abbraccia solo il ''presente'' è mosso da piaceri rapidi e insipidi e salta da libro a libro. Poiché la maggior parte dei lettori è di questa ''pasta'' non conviene scrivere perfettamente, gli stessi studiosi col tempo avranno a noia quei testi che prima gli recavano giovamento.<br />'''Capitolo settimo'''<br />Cambio argomento: dalle lettere amene alla filosofia, non c'è differenza, non c'è differenza con la poesia in termini di profondità di pensiero e sottigliezza nel ragionare. Anche in questo settore solo un filosofo ''sa leggere'' un libro filosofico e cogliere le verità di pensiero che le persone normali comprenderebbero solo ''letteralmente''. La profondità d'animo favorisce la lettura poetica, la profondità di pensiero quella filosofica. L'uomo impoetico non riesce a seguire ragionamenti sottili per giungere alla verità contenuta negli scritti. Questo genera una diversità di opinioni tanto che molti testi sono spesso accusati di ''oscurità'' per colpevole incomprensione dovuta alla scarsa qualità dei lettori.<br />'''Capitolo ottavo'''<br />Se in vita il discepolo, per meriti personali, dovesse riuscire a formulare, dopo grandi fatiche, grandi verità, non otterrà facilmente la ''gloria'' perché dovrà essere passato al vaglio dal ''pensiero corrente''. La comunità scientifica e tutti gli uomini dovranno abituarsi all'idea prima di poterla accettare. parte un parallelo con la geometria e si cita [[Renè Descartes|Cartesio]]: le verità geometriche sono accettate per ''assuefazione'' e non per certezze di verità concepite nell'animo. Il progresso del sapere umano non è compreso dai contemporani, il sommo pensatore è ''deriso e umiliato''. Solo nella generazione successiva, attraverso sforzi di ricerca individuali, si potrà verificare ed accettare la verità di quel genio e riconoscergli «''quanto precorrese il genere umano''», con lodi che leveranno «''poco romore''». Pertanto né in vita né dopo la morte sarà riconosciuta la gloria al sommo.<br />'''Capitolo nono'''<br />Nell'ipotesi in cui si ottenesse in vita la gloria, essa sarà trattata diversamente da città piccola a città grande. Le città piccole mancando di tutto, anche di cultura, non sono tengono in considerazione ''la fama, la sapienza e la dottrina'' di quel sommo, tanto che se abitatore di quei luoghi,<ref>Leopardi cita [[Bosisio Parini|Bosisio]] in Brianza presso il [[Lago di Pusiano|lago Pusiano]] dove nacque [[Giuseppe Parini]] il 22 maggio, [[1729]].
</ref> si troverà in forte disagio perché non compreso, deriso e umiliato. Nelle città grandi, gli occhi e gli animi degli uomini sono «''distratti e rapiti, parte dalla potenza, parte dalla ricchezza, in ultimo dalle arti che servono all'intrattenimento e alla giocondità della vita inutile''»; al ''genio'' non resta che accontentarsi della gloria che si riesce ad ottenere in un ristretto numero di amicizie.<br />'''Capitolo decimo'''<br />{{citazione|Non potendo godere [...] alcun beneficio della tua gloria, la maggiore utilità che ne ritrarrai, sarà di rivolgerla nell'animo e di compiacertene teco stesso nel silenzio della tua solitudine, [...] e fartene fondamento a nuove speranze. [...] La gloria degli scrittori, [...]riesce più grata da lungi che da vicino, ma non è mai, si può dire, presente a chi la possiede [...].|ibidem}}
 
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{{citazione|Dimandato a che nascano gli uomini, rispose per ischerzo: a conoscere quanto sia più spediente il non esser nati.|ibidem<ref>Zibaldone, p.[https://it.wikisource.org/wiki/Pagina:Zibaldone_di_pensieri_II.djvu/139 139]</ref>}}
 
Con un andamento sempre più aforistico, vicino allo stile dello Zibaldone, il capitolo si apre con un incitamento all'azione che allontana dalla noia e un'interessante allegoria del ''carciofo'' per spiegare il '''piacere''' umano,<ref>Il piacere umano è come un carciofo, per arrivare alla parte migliore (il cuore, il centro) bisogna prima mangiare le foglie dure e meno buone. Una felice metafora usata, in tempi più recenti, anche da [[Italo Calvino|Calvino]], (''Il carciofo della dialettica'', Una Pietra sopra, Saggi, 1981) per spiegare la complessità del reale e le difficoltà dello scrittore a raccontarla. </ref>, ritenuto dal filosofo il peggior momento della vita umana. La speranza e la rimembranza dei piaceri sono infatti cose migliori e più dolci degli stessi diletti. Tra questi, ritiene che i ricordi scaturiti dall'odorato sono i migliori, perché le cose gustate piacciono meno che a odorale. <ref>Anche in questo passo troviamo un'interessante riflessione su un tema poetico molto caro ad alcune avanguardie del novecento: si pensi alla [[Madeleine (gastronomia)|madeleine]] nell'opera di [[Marcel Proust|Proust]] in cui certi odori giocano un ruolo fondamentale nell'aprirsi della memoria, diventando protagonisti assoluti della costruzione narrativa</ref>. Usava spesso definire la vita come un ''letto duro'' dove si corica il malcapitato che per tutta la notte tenta invano di addormentarsi; ma quando è sul punto di farlo, senza essersi mai riposato, giunge l'ora di alzarsi.
 
{{QuoteCitazione|[...]essendo (gli uomini) sempre infelici, che meraviglia è che non sieno mai contenti?|ibidem}}
 
Nessuno è contento della propria condizione;<ref>Leopardi riporta una ''questione'' di [[Quinto Orazio Flacco|Orazio]], ''Satire'', I, I vv.1-3:
''<poem>
Qui fit, Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem
Seu ratio dederit seu fors obiecerit, illa
Contentus vivat, laudet diversa sequentis?
</poem>''
Il poeta romano è ricordato anche nella battuta finale di Ercole sugli ''uomini giusti'' nel ''Dialogo di Ercole e Atlante''. </ref> tutti sperano sempre in un miglioramento, in un avanzamento del proprio stato: l'uomo più FELICE della terra che non può avanzare in nessun modo la sua condizione, è il più misero di tutti!
 
[[File:Kuntze-Konicz Fortune.jpg|thumb|upright =0.7|[[Taddeo Kuntze]] La Fortuna, olio su tela, 1754 ]]La volontà umana non è libera e l'uomo non è, come credono alcuni filosofi, padrone del suo destino. I beni e i mali non sono nella potestà dell'essere umano, che liberamente decide come ''evitarli, mantenerli o liberarsene''. Mente e corpo, inscindibili, sono soggetti al decadimento; si spengono lentamente, colpiti da ''innumerevoli morbi e infiniti accidenti''; la felicità e la beatitudine non dipendono dalle nostre scelte:
 
{{QuoteCitazione|[...] l'uomo tutto intero, e sempre, e irrepugnabilmente, è in potestà della fortuna.
|ibidem}}
 
'''Capitolo terzo'''<br />
 
Il capitolo si apre con una rapida analisi sul dolore della perdita della persona amata. (<ref>cfr. anche la canzone ''Per una donna inferma di malattia lunga e mortale'', del 1819, vv.1-13:
''<poem>
Io so ben che non vale
Beltà nè giovanezza incontro a morte;
Riga 383 ⟶ 392:
Poi ch’altro non m’avanza,
Già mai di lagrimarla io non fo posa.
</ref>'' Meglio una malattia breve e rapida che una morte per ''infermità'' lunga e travagliata. La lenta agonia trasforma non solo l'anima e il corpo della persona amata ma anche il ricordo della sua immagine, tanto che non sopravvive neanche nell'immaginazione, non portando più alcuna consolazione ma solo tristezza.
 
Il cuore del capitolo tratta dei rapporti sociali tra esseri umani.
Riga 389 ⟶ 398:
Negli scambievoli rapporti si solidarietà umana, sia il tempo del dolore sia il tempo dell'allegria sono ostacoli alla compassione verso il prossimo. Entrambe le passioni riempiono l'uomo del ''pensiero di se medesimo'' e non lasciano spazio alle preoccupazioni altrui.
 
{{QuoteCitazione|[Nel] il tempo del dolore, perché l'uomo è tutto volto alla pietà di sé stesso; [nel tempo] della gioia, perché allora tutte le cose umane ci si rappresentano lietissime e piacevolissime, [...] e le sventure e i travagli paiono quasi immaginazioni vane [...] troppo discordi dalla presente disposizione del nostro animo|ibidem}}
 
Le migliori occasioni di vedere gli uomini disposti alla compassione e all'azione lodevole e disinteressata si presentano quando la gioia nasce da pensieri vaghi e da oggetti indeterminati, provocando una ''tranquilla agitazione dello spirito'' che predispone volentieri a gratificare gli altri.
 
Non è vero che l'infelice trova maggiore comprensione presso suoi simili, anzi, più spesso, invece di partecipare al dolore, gli sventurati spostano l'attenzione sulla loro condizione, cercando di convincere che i propri malanni siano ''più gravi''. Quando Priamo supplica Achille per la restituzione del copro dell'amato figlio Ettore, l'eroe inizia a piangere non per compassione dell'anziano genitore ma per il ricordo di suo padre e dell'amico morto in battaglia, Patroclo.
 
[[File:Priamo chiede ad Achille il corpo di Ettore di Antonio Giaccarelli, 1819-25 ca. (particolare).JPG|thumb|400pxupright=1.8|Priamo chiede ad Achille il corpo di Ettore di Antonio Giaccarelli, 1819-25]]
 
La crudeltà e la malvagità, invece, nascono spesso dalla negligenza e dalla leggerezza delle nostre azioni, piuttosto che dalla ''pessima qualità morale'' degli uomini. Spesso però, nella piccola economia dei rapporti umani, è meno grave ricevere un'offesa manifesta (per maleducazione o per malvagità) che un ''piccolo'' riconoscimento per una ''grande'' azione di cui si è artefici; perché, in questo secondo caso, da un lato si priva il benefattore della ''nuda e infruttuosa gratitudine dell'animo'' (il fare qualcosa per la gloria, ecc.); dall'altro gli impedisce di lamentarsi per il torto ricevuto. Allo stesso modo, siamo portati a non riconoscere le buone qualità negli altri quando non sono a nostro vantaggio. <ref>''Quando non siano a nostro vantaggio, le buone qualità degli altri, se pure le scorgiamo, vogliamo celare a noi stessi di scorgerle''. Porena, ''Operette Morali'', Milano Hoepli, 1921</ref>
 
'''Capitolo quarto'''<br />
 
Ha per argomento i ''generi'' di persone.
 
Gli ''indecisi'' sono sempre quelli più determinati nel perseguire i loro propositi perché temono, a causa dell'ansia e dell'incertezza in cui vivono quotidianamente, di tornare in quella condizione di ''perplessità e sospensione d'animo'' che alimenta le loro esistenze: la vera sfida non è l'oggetto dell'impresa, ma vincere sé stessi. Negli uomini, sia antichi che moderni, la ''grandezza'' è frutto dell'eccesso di una loro particolare ''qualità'', tanto che la ''straordinarietà'' non si acquisisce se le qualità di un uomo importante siano ''bilanciate'' tra loro.
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# ''tollerabile'': quando la corruzione superò ogni limite e l'uomo imparò a disprezzare la virtù e ad avere esperienza dell'arido vero, la vecchiaia divenne tollerabile a causa del ''decadere fisico del corpo'', che mitigava, con il raffreddarsi del cuore e con la debolezza dei sensi, l'inclinazione alla malvagità.
 
'''Capitolo quinto'''<br />
 
{{citazione| [...] il vivere, per sé stesso non è bisogno; perché disgiunto dalla felicità non è BENE|ibidem}}
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Oggi lodare qualcuno significa misurare la soddisfazione “nel bene o nel male” che si ha di lui. Non si può amare senza un rivale: chiedere un piacere a qualcuno produce l'odio di una terza persona; alla fine i nostri desideri non saranno esauditi per timore dell'ira e dell'odio degli altri uomini. Oggi se servi qualcuno nella speranza di essere ricompensato non otterrai nessun risultato: le persone sono facili a ricevere e difficili a rendere.
 
Alcuni pensieri sono rivolti alla MODA, che ha un potere grandissimo, capace di far cambiare idea e costumi alle persone più radicali, tanto da convincerle ad abbandonare le loro precedenti convinzioni. (rif. Dialogo della Moda e della Morte); e al RISO: si ride di tutto tranne delle cose veramente ridicole.
 
Ciascuna generazione crede la precedente migliore della successiva: eppure si crede che i popoli migliorino più ci si allontana da una condizione ''primitiva'' e che fare un passo indietro significherebbe peggiorare.
 
Il VERO non è bello. Ma quando manca, il BELLO è da preferire a ogni altra cosa. Le città grandi sono luoghi di infelicità e miseria, dove si respira solo falsità perché ogni cosa è finta e vana. Per gli spiriti ''delicati'' sono il posto peggiore del mondo. OCCUPARE la vita è un bisogno maggiore del vivere stesso: il vivere per sé stesso non è BISOGNO perché separato dalla felicità non è BENE.
 
Sul finale un curioso riferimento all'innesto del vaiolo e una battuta sulla retorica: fatta promessa di non lodare nessuno, torna su i suoi passi per non dimenticare l'arte del ''ben parlare''.
 
'''Capitolo sesto'''<br />
 
Capitolo che, come il successivo, gioca sugli aforismi in maniera marcata. Qui sono contrapposti quelli di autori famosi, spesso commentati dal filosofo, mentre nel successivo sono riportati esclusivamente motti dell'Ottonieri.
 
Il capitolo si divide in de parti:
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'''I parte. Motti antichi.'''
 
L'ignoranza produce ''speranza''; la conoscenza produce l'oblio: la prima è un BENE la seconda un MALE. Secondo gli Egesiaci il vero piacere deriva dall'assenza di ogni dolore e quindi nella morte.<ref>Egesia, filosofo cirenaico del III sec a.C. era chiamato ''persuasor di morte'', cfr. ''Dialogo di Plotino e di Porfirio''</ref>
 
Di conseguenza gli uomini che cercano la felicità sono quelli più tormentati: i più fortunati traggono piacere da gioie minime che appena trascorse possono essere rivissute attraverso il ricordo (la rimembranza);<ref>La prima parte è una sentenza di [[Bione di Boristene]], filosofo cinrenaico del II sec. a.C.</ref>
 
Perché ci lamentiamo della NATURA che ci nasconde il VERO con vane apparenze, belle e dilettevoli, ma che ci lasciano nello stesso tempo LIETI? <ref>A riprova si cita un passo di [[Plutarco]] tradotto da [[Marcello Adriani]] sulle ''buffonerie di [[Stratocle]]'' che persuase gli Ateniesi di aver riportato una grande vittoria, mentre avevano subito una sconfitta. ''[…] quale ingiuria riceveste da me, che seppi tenervi in festa ed in gioia per ispazio di tre giorni?'' cit. ibidem </ref>
 
L'unico cammino di lode e di gloria tra i giovani è quello che passa per il piacere (VOLUTTA'). Magnificarsi e pavoneggiarsi con infinite novelle su grandi imprese, spesso ritoccate o interamente false, davanti agli amici con lo scopo di ottenere effimeri lodi o riconoscimenti, è l'unico modo per ottenere la fama.<ref>Ad esempio di '''vera''' grande impresa l'autore porta la storica battaglia di Isso 333 a.C. combattuta fra Dario, re dei persiani, e Alessandro Magno.</ref>
 
'''II parte. Il valore di un bravo scrittore.'''
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{{citazione| [...] quelli che scrivono delle cose proprie hanno l'animo fortemente preso e occupato dalla materia, [...] si astengono dagli ornamenti frivoli, [...] o dall'affettazione o da tutto quello che è fuori dal naturale|ibidem}}
 
[[File:JulianusII-antioch(360-363)-CNG.jpg|thumb|upright=0.7|[[Flavio Claudio Giuliano|Giuliano l'Apostata]] raffigurato su di una moneta.]] E i lettori lo apprezzano perché non esiste modo migliore per trattate con maggior ''verità'' ed ''efficacia'' le cose altrui che ''favellando'' delle proprie; perché tutti gli uomini si assomigliano tra loro, sia nelle gioie che negli accidenti, quindi non esiste espediente tecnico migliore che trattarli come ''fatti'' propri. Segue un elenco di esempi tratti da famosi oratori che hanno animato il loro auditorio, ad un certo punto dell'arringa, parlando di sé stessi come [[Demostene]] o [[Marco Tullio Cicerone|Cicerone]] nel [[Pro milione]]; [[Bousset]] per le sue orazioni funebri, e l'[[GiulianoFlavio Claudio Giuliano|imperatore Giuliano]],<ref>Giuliano l'Apostata tentò di far ripartire il paganesimo in un periodo in cui il cristianesimo andava affermandosi.</ref> per le argute ironie contro i suoi detrattori; tra gli italiani, [[Lorenzino dei Medici]]<ref>Lorenzino dei Medici giustificò di aver fatto uccidere nel 1537 il duca Alessandro dei Medici.</ref> e la sua ''apologia di un omidicio'', e le ''lettere familiari'' del [[Torquato Tasso|Tasso]].
'''Capitolo settimo'''<br />
 
Si conclude in chiave ironica la seconda prosa in capitoli (vedi il Parini) in cui si riportano le migliori sentenze e risposte argute dell'Ottonieri. La battuta sulla ''signora attempata'' che ''non intende certe voci antiche'' presenti in alcune poesie giovanili del filosofo è ripresa integralmente dalla prima pagina dello Zibaldone; quella sul gruppo di ''antiquari'' è probabile riferimento all'esperienza negativa del soggiorno romano in casa di parenti, durante le frequentazioni dei vari circoli culturali. Leopardi se ne lamentava in diverse lettere indirizzate al fratello Carlo. Nei salotti romani dell'epoca un ''letterato'' era l'equivalente dell'Antiquario o Archeologo.
 
[[File:Carlo leopardi.jpg|thumb|left|upright=0.7|[[Carlo Leopardi]]]]{{citazione| Vi ho parlato solamente delle donne, perché della letteratura non so che mi vi dire. Orrori e poi orrori. I più santi nomi profanati, le più insigni sciocchezze levate al cielo, i migliori spiriti di questo secolo calpestati come inferiori al minimo letterato di Roma, la filosofia disprezzata come studi da fanciulli, il genio, l'immaginazione e il sentimento, nomi (non dico cose ma nomi) incogniti e forestieri ai poeti e alle poetesse di professione; l'Antiquaria messa da tutti in cima al sapere umano, e considerata costantemente e universalmente come l'unico vero studio dell'uomo [...] Letterato e Antiquario a Roma è perfettamente tutt'uno.|Lettera a Carlo Leopardi, Roma 16 dicembre 1822}}.
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[[File:Mikolaj Kopernik.jpg|thumb|left|upright=0.7|[[Niccolò Copernico]]]]
 
In questa Operetta, composta nel 1827,<ref name="Firenze1845" /> torna il concetto della nullità del genere umano: l'ironico testo attacca la filosofia che mette l'uomo al centro dell'universo.<ref>''Storia dell'astronomia'' capp. II, IV, V; e Zibaldone, 84.</ref>
 
Leopardi la voleva nell'edizione Starita che fu interrotta e nella progettata e mai realizzata edizione [[:Operette morali#Edizione del '35|parigina]].
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{{citazione|[...] sono deliberato di lasciare le fatiche e i disagi agli altri|ibidem}}
 
'''Scena seconda'''<br />La più corta delle quattro, ci presenta Copernico intento all'osservazione del cielo dalla terrazza della sua abitazione. Lo scienziato non comprende il motivo della continua oscurità, quando il tempo segnala che è giunta da un bel pezzo l'alba. Un battito di ali lo distoglie da i suoi pensieri pieni di riferimenti dotti<ref>Si cita ''l'Almagesto'' ovvero il ''Trattato della composizione'' di [[Claudio Tolomeo]], compendiato da [[Giovanni di Sacrobosco]] (dalla città inglese di [[Holywood]]) nel suo ''De sphaera Mundi''; tra i citati anche [[Archimede]]; per i miti si ricorda la favolosa notte trascorsa tra [[Zeus]] e [[Alcmena]], dalla cui unione nacque [[Ercole]], durata il triplo del normale</ref> e prepara la scena successiva.
 
[[File:Fotothek df tg 0008204 Theosophie ^ Alchemie.jpg|thumb|upright=1.4|La [[Terra]] e il [[Sole]]]]
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{{citazione|come pare a prima vista che debba essere; e che gli effetti suoi non apparterranno alla fisica solamente: perché esso sconvolgerà i gradi delle dignità delle cose, e l'ordine degli enti; scambierà i fini delle creature; e per tanto farà un grandissimo rivolgimento anche nella metafisica [...]|ibidem}}
 
Anche considerando il solo stravolgimento celeste, con tutti gli altri astri immobili rispetto ai loro pianeti, il nostro Sole non indietreggia di un passo, anzi si dichiara disposto a non essere più ''unico'' nel suo genere e che ''diversamente da [[Marco Tullio Cicerone|Cicerone]]'',<ref>Il riferimento si legge nell'orazione ''Pro Sestio'', XLV, 98:«''Neque enim rerum gerendarum dignitate homines ecferri ita convenit ut otio non prospiciant, neque ullum amplexari otium quod abhorreat a dignitate''»</ref> ha ''riguardo più all'ozio che alla dignità''.
Ad un Copernico, infine, preoccupato delle conseguenze,<ref>Probabile allusione a [[Giordano Bruno|Bruno]]</ref> l'astro consiglia di dedicare la scoperta al papa.<ref>Copernico dedicò il libro ''De revolutionibus orbium coelestium'' al pontefice [[Paolo III]].</ref>
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{{S sezione|letteratura}}
{{leggi il testo|sezione=s|[[s:Operette morali/Dialogo di Plotino e di Porfirio|Dialogo di Plotino e di Porfirio]]}}
[[File:Plotinos.jpg|thumb|left|upright=0.7|[[Plotino]]]]Composto, probabilmente a [[Firenze]], nel 1827<ref name="Firenze1845" />, il Dialogo propone il tema del suicidio, che già aveva ispirato le poesie ''Ultimo canto di Saffo'' e ''Bruto minore'', affrontandolo però in una prospettiva diversa. Mentre nelle poesie il suicidio è la scelta legittima di un'anima nobile che rifiuta la bassezza della vita e della società, nel Dialogo Leopardi conclude che le ragioni per respingere il suicidio sono di carattere umanitario.<br />Il dialogo si svolge fra due filosofi neoplatonici. [[File:Porphyry.jpg|thumb|right|upright=0.7|[[Porfirio]]]][[Porfirio]], il più giovane, è intenzionato ad uccidersi e difende con argomenti razionali la validità di tale decisione; il suo maestro [[Plotino]] non tenta di confutare le argomentazioni di Porfirio, ma sostiene che il suicidio deve essere evitato per non rendere più gravi, con tale gesto, le sofferenze delle persone care. La conclusione è un invito a sopportare ciò che il destino impone all'umanità, aiutandosi l'un l'altro "per compiere nel miglior modo questa fatica della vita". Essa in ogni caso sarà breve, e al suo termine ci si potrà consolare pensando che gli amici conserveranno con affetto il ricordo.
 
=== Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere ===
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{{leggi il testo|sezione=s|[[s:Operette morali/Dialogo di Tristano e di un amico|Dialogo di Tristano e di un amico]]}}
 
[[File:Aleksander-d-store.jpg|thumb|right|upright=0.7|[[Alessandro Magno]]]]
[[File:Julius_Caesar.jpg|thumb|left|upright=0.7|[[Gaio Giulio Cesare|Giulio Cesare]]]]
{{citazione|[...] Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi.|ibidem}}
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Inserita nell'edizione del '34 a conclusione del libro, l'operetta rappresenta la difesa finale del pensiero leopardiano, consumatasi nella rottura definitiva col gruppo fiorentino de l'Antologia di [[Gian Pietro Vieusseux]] e [[Niccolò Tommaseo]].
 
 
Tristano, autore di un libro sull'infelicità e la miseria umana, rivela ad un amico, in modo ironico, di essersi sbagliato e che le sue teorie erano solo pazzie: la vita è felice,
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{{citazione|[...] È ben vero che alcune volte penso che gli antichi valevano, delle forze del corpo, ciascuno per quattro di noi. E il corpo è l'uomo; perché [...] la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere [...] dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; [...] la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono. [...] tra noi già da lunghissimo tempo l'educazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo spirito. [...] L'effetto è che a paragone degli antichi noi siamo poco più che bambini [...].|ibidem}}
 
[[File:Gino Capponi.jpg|thumb|right|upright=0.7|[[Gino Capponi]], amico di Giacomo, destinatario della famosa [[palinodia]].]]Le citazioni classiche<ref>[[Francesco Petrarca]], [[Salomone]], [[Omero]], [[Menandro]]</ref> fanno sempre da dotto contrappunto all'ironia del testo: Tristano crede nel secolo XIX, e nel progresso dell'umanità in ogni campo del sapere, tuttavia, stanco di vedere esaurita ''da ogni parte la favola della vita'', è spinto a disiderare ''solo la morte''.
 
Tornano riflessioni già affrontate in altre testi e più compiutamente in Plotino e Porfirio. La morte come fine delle sofferenze rimanda ad una conclusione cercata fuori dalla finzione narrativa ed è un effetto di costante sospensione per un finale che non arriva mai, incontrato spesso lungo tutta la lettura delle operette.
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== Note ==
{{<references|2}} />
 
== Bibliografia ==
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{{Leopardi}}
{{Portale|letteratura}}
 
 
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