Giosuè Carducci: differenze tra le versioni

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=== L'infanzia ===
È qui che il figlio primogenito di Michele e Ildegonda Celli, Giosuè Carducci, nacque la sera del 27 luglio [[1835]],<ref group="Nota">La data del 27 è stata comunemente accettata dagli studiosi dopo la morte del Carducci, in quanto la conferma egli stesso in un passo che si può leggere in ''Primizie e reliquie'': «Nacqui ... addì 27 di luglio 1835, giorno di martedì, alle ore 11 di sera». Tuttavia, la questione è molto più complessa. Nel 1853 scriveva al Gargani di essere nato il 24, ma potrebbe essersi trattato di un banale errore. Molto chiaro è però l'atto di battesimo steso dal pievano in data 29 luglio 1835. Vi si afferma che il bambino è nato il giorno prima alle undici di sera. I dubbi sembravano risolti quando Giuseppe Picciòla, un allievo del poeta, pubblicò un atto che si trovava nell'archivio della Normale di Pisa; Giosuè sarebbe nato il 27 e battezzato due giorni dopo. Se non che la vicenda si tinge di grottesco: i calcoli degli studiosi hanno stabilito che il 27 era un lunedì! Se, come Carducci potrebbe essersi sentito ripetere molte volte, fosse allora davvero nato un martedì, è probabile che avessero ragione i compaesani del vate quando il 6 novembre 1887 apposero sulla casa natale la data del 28. Per la ricostruzione dell'intera controversia e molti altri particolari cfr. E. Pasquini, ''Cecco Frate (Francesco Donati)'', Firenze, Le Monnier, 1935, pp. 95-101.</ref> venendoe fu battezzato nella chiesa locale il giorno successivo. La scelta del nome fu contesa dai genitori; il padre voleva chiamare il nascituro Giosuè, come un amico reincontrato, dopo parecchio tempo, durante la gravidanza della moglie, mentre Ildegonda avrebbe preferito Alessandro, come suo padre in quel momento gravemente malato. La spuntò Michele, ma Alessandro fu comunque il secondo nome del futuro poeta.<ref>F. Giannessi (a cura di), ''Carducci'', Milano, Nuova Accademia, 1963, pp. 7-8.</ref> Giuseppe, il terzo nome, gli fu assegnato in omaggio al nonno paterno.
 
I problemi finanziari del padre si acuirono, costringendolo a lasciare Valdicastello, conducendolo a [[Seravezza]], dove nacque il secondogenito Dante ([[1837]]), e nei pressi di [[Pontestazzemese]] (in località Fornetto, all'epoca sotto [[Retignano]]), finché nel [[1838]] la famiglia si trasferì a [[Bolgheri]], in piazza Alberto, dove Michele ottenne una condotta nel feudo della Gherardesca.<ref>M. Saponaro, p.25</ref>
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=== Gli studi ===
Nei dieci anni a Bolgheri la famiglia visse in povertà e non era possibile per Giosuè frequentare lela scuolescuola; il padre incaricò così il sacerdote Giovanni Bertinelli di dargli lezioni di latino durante il giorno, mentre la sera era direttamente Michele a impartirgli l'insegnamento della lingua romana<!-- Quale lingua? Il latino o un'altra?
Non è chiaro. --> che il giovane amò profondamente sin dall'inizio.<ref>F. Giannessi, pp. 8-10</ref> Già in questi anni cominciò a cimentarsi nella composizione di qualche verso, la ''Satira a una donna'' ([[1845]]) e l'appassionato ''Canto all'Italia'' ([[1847]]), entrambi in [[terzina (metrica)|terzine]]. Il [[1848]] è l'anno del [[sonetto]] ''A Dio'' e del racconto in ottave ''La presa del castello di Bolgheri''. Il progetto didattico paterno prevedeva la lettura dei classici latini (si dice che il ragazzo sapesse a memoria i primi quattro libri delle ''[[Le metamorfosi (Ovidio)|Metamorfosi]]'') ma anche del [[Alessandro Manzoni|Manzoni]] e del [[Silvio Pellico|Pellico]], che il figlio obbedientemente studiava, pur covando una vena antimanzoniana che andrà acuendosi negli anni appresso.<ref>M. Saponaro, pp. 28-30</ref>
 
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Così, alla fine del [[1853]], si iscrisse alla Facoltà di Lettere, dove divenne amico di [[Ferdinando Cristiani]] e [[Giuseppe Puccianti]], poi professori come lui. Alla Normale Carducci si diede allo studio anima e corpo, con quell'amore estremo di cui già aveva dato prova negli anni precedenti. All'infuori dell'orario di lezione, le giornate si consumavano abitualmente entro le pareti della sua stanza. Gli amici qualche volta gli facevano degli scherzi inneggiando al Manzoni, quando la sera rientravano sul tardi, e ''Pinini''<ref>«Io, conosciuto anche per Pinini, causa un raddoppiamento spostato nella coniugazione del verbo πίνειν ("bere")»; G. Carducci, ''Le «Risorse» di san Miniato al Tedesco'', in ''Prose di Giosue Carducci'', Bologna, Zanichelli, 1938, p. 945</ref> usciva furibondo facendoli scappare terrorizzati.<ref>F. Cristiani, «Il Carducci alla Scuola Normale», in ''Rivista d'Italia'', anno IV, fasc.V (maggio 1901), pp.44 e ss.</ref> Alla Scuola Normale, col forte beneplacito dei Governi (1852-1861) [[Camillo Benso, conte di Cavour|Cavour]], in linea col programma politico del predecessore [[Massimo d'Azeglio]] («Fatta l'Italia, bisogna fare gli italiani»,<ref>su Wikiquote, senza la parola iniziale «Purtroppo»</ref>), ricevette il mandato di formare i professori di lettere antiche e lettere moderne, per le scuole primarie e secondarie di tutto il Regno d'Italia, Paese in cui all'analfabetismo doveva sostituirsi una lingua e una cultura letteraria nazionale.
 
L'umore però variava a seconda dei giorni, ogni tanto la porta era aperta in segno di accoglienza, e i compagni chiassosamente entravano e si sdraiavano sul suo letto, mentre il suo carattere sanguigno non gli negò talvolta lunghe fuoriuscite per la città con gli amici, e appassionate serate al ''Caffè Ebe'', dove si riunivano alcuni intellettuali pisani e il futuro vate dibatteva per ore di politica e letteratura bevendo il [[Ponce (bevanda)livornese|ponce]]. D'altra parte, i normalisti lo ammiravano e gli volevano bene, consci inoltre del fatto che quando si avvicinavano gli esami era opportuno "tenerselo buono".<ref>{{Cita|Chiarini|pp. 35-36}}.</ref>
 
Pisa aveva reagito con veemenza ai moti rivoluzionari da poco trascorsi. Alla Normale non solo erano obbligatori la [[Celebrazione eucaristica|Messa]] mattutina e il [[Rosario]] serale, ma, racconta Cristiani, «Ogni mese dovevamo pure intervenire, cogli altri scolari della Università, alla congregazione, nella chiesetta di san Sisto. Guai a chi avesse ciarlato durante la lunga predica, o fosse mancato all'appello; i bidelli con lapis e carta prendevano nota di tutto per riferirne ai superiori. … Tutte queste pratiche di religione toglievano del tempo allo studio; e il Carducci, che del tempo era economo come l'avaro della borsa, portava anche alla messa, in cambio del libro d'orazioni, un qualche classico del formato in sedicesimo».<ref>F. Cristiani, pp. 44 e ss.</ref>
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=== Dopo San Miniato: la collaborazione con l'editore Barbera e i primi lutti ===
Così, senza lavoro, in una situazione familiare che continuava ada essere attanagliata dalla precarietà economica, ai primi d'ottobre il giovane poeta propose a [[Gaspero Barbera]] un'edizione di tutte le opere italiane di [[Angelo Poliziano]]. Il Barbera aveva recentemente fondato una casa editrice, destinata poi a gran fama, e cercava qualcuno che curasse le proprie edizioni di opere letterarie. Oltre ad accettare il lavoro polizianeo, offrì al Carducci cento lire toscane per ogni volume di cui avesse curato la parte filogicafilologica e tipografica. Giosuè accettò con entusiasmo, e lavorò brillantemente alle ''Satire e poesie minori di Vittorio Alfieri'' e a ''[[La secchia rapita]]'' del [[Alessandro Tassoni|Tassoni]].<ref>{{Cita|Chiarini|pp. 113-114}}.</ref>
 
La tragedia, però, era dietro l'angolo. Il fratello Dante era ancora senza lavoro e la sua vita era sempre più dissipata. La sera del 4 novembre [[1857]], a Santa Maria a Monte, Dante arrivò in ritardo per cena, con al collo una sciarpa non sua. Al padre disse di averla ricevuta da una donna che aveva fama di facili costumi, e pare che Michele, irritato, sia uscito dalla stanza seguito dalla moglie, che cercava di calmarlo. L'attimo fu fatale, e rientrando trovarono il figlio che si era inferto una ferita mortale al petto.<ref>P. Bargellini, pp.106-107</ref>
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Frattanto il Granduca [[Leopoldo II di Toscana|Leopoldo II]] era stato cacciato il 27 aprile, segnando l'avvento del governo provvisorio di [[Bettino Ricasoli]], e Carducci si dedicò alla composizione della canzone a lode di [[Vittorio Emanuele II d'Italia|Vittorio Emanuele]], pubblicata anni dopo ma già circolante manoscritta. Ebbe grande successo, come la coeva ode ''Alla Croce di Savoia'', che Silvio Giannini volle a tutti i costi mettere in musica. Malgrado l'opposizione del diretto interessato, l'opera fu musicata da [[Carlo Romani]] e cantata alla ''Pergola'' da [[Marietta Piccolomini]]. Presentato in quella circostanza al Ministro del culto [[Vincenzo Salvagnoli]], si vide nuovamente offrire un posto al liceo aretino, ma rifiutò. Accettò invece la nomina a professore di greco del liceo Niccolò Forteguerri di [[Pistoia]].<ref>{{Cita|Chiarini|p. 124}}.</ref>
 
Carducci indicò quindi chiaramente la propria appartenenza ideologica alla fazione che voleva l'Italia unita e il ricongiungimento con il Piemonte, in opposizione agli obiettivi dei filo-granducali e a quelli del circolo facente capo a [[Gino Capponi]] (il cosiddetto circolo di san Bastiano), propugnatore di un ritorno alla libertà municipale.<ref>P. Bargellini, pp. 120-122; cfr. M. Gioli Bartolomei, ''Il rivolgimento toscano e l'azione popolare'', Firenze, Barbera, 1905</ref>
[[File:Louisa Grace Bartolini.jpg|thumb|upright=0.8|Louisa Grace Bartolini]]
Il 12 dicembre, settimina, nacque Beatrice (Bice), la prima figlia, e la famiglia si trasferì a Pistoia tra il 7 e l'8 gennaio [[1860]]. Al fine di trovare prima una sistemazione, Carducci non portò subito con sé la famiglia, ma lo fece solo dopo aver preso dimora in un appartamento di proprietà del professor Giovanni Procacci.<ref>M. Saponaro, p. 84</ref> La legge sui licei toscani del 10 marzo gli mutò l'insegnamento del greco in quello dell'italiano e del latino - la cattedra di greco fu affidata a [[Raffaello Fornaciari]] - ma infine, essendo l'anno scolastico già nella seconda parte, Carducci si risolse, in accordo col direttore della scuola, a fare solo lezioni cattedratiche.
 
In città frequentò la casa della poetessa di lingua [[inglesi|inglese]] d'origine e sentimenti indipendentisti irlandesi [[Louisa Grace Bartolini]] (1818-1865), nativa di [[Bristol]] e sposa dell'architetto toscano [[Francesco Bartolini]]. Convenivano abitualmente nel salotto Giovanni Procacci e Fornaciari, e talvolta vi si univano Gargani e Chiarini, che non avevano perso l'abitudine di andare a trovare l'amico ovunque si trovasse. Per Louisa Grace Carducci nutriva una notevole ammirazione, come dimostrano le parole che antepose all'ode che le dedicò in ''Levia Gravia'': «Quelli che solo abbian visto di lei le versioni dei canti di T.B. Macaulay e E.W. Longfellow e le ''Rime'' e ''Prose'' ... non potrebbero ancora farsi un'idea giusta del suo ingegno, della dottrina in più lingue e letterature e dell'ancor più grande gentilezza e generosità dell'animo suo».<ref>''Poesie di Giosue Carducci'', Bologna, Zanichelli, 1901, p. 370</ref>
 
Appena iniziate le lezioni Carducci venne a sapere della [[Spedizione dei Mille|spedizione di Garibaldi]] in [[Sicilia]], e pensando che il Targioni e il Gargani erano partiti a combattere per la patria gli si strinse il cuore. Lui era rimasto ad accudire la madre sofferente per le recenti perdite del figlio e del marito. La passione si profuse quindi nell'ode in [[decasillabo|decasillabi]] manzoniani ''Sicilia e la Rivoluzione'', e venne apposta a Firenze per recitarla agli amici entusiasti in casa di Luigi Billi, mentre nel comune obiettivo si dimenticavano le "imperfezioni romantiche" del testo:<ref>{{Cita|Chiarini|p. 130}}.</ref>
 
{{Citazione|In quell'uno che tutti ci fiede,<br />che si pasce del sangue di tutti,<br />di giustizia d'amore di fede<br />tutti armati leviamoci su.<br />E tu, fine de gli odii e de i lutti,<br />ardi, o face di guerra, ogni lido!<br />Uno il cuore, uno il patto, uno il grido:<br />né stranier né oppressori mai più.|''Sicilia e la Rivoluzione'', vv. 125-132}}
 
=== L'arrivo a Bologna ===
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Il 27 luglio Carducci ricevette da Carolina una lettera di ammirazione cui erano allegati dei versi e un ritratto. Il poeta, lusingato, iniziò con lei un fitto scambio epistolare, e scriveva contemporaneamente anche a Torriani, dedicando versi a entrambe, ''Autunno romantico'' a Maria, la seconda ''Primavera Ellenica'' (la ''Dorica''; più avanti anche la terza, l{{'}}''Alessandrina'') a Carolina, che a Milano - dove viveva la maggior parte dell'anno, in via Stella - frequentava il salotto di [[Clara Maffei]] facendo conoscere il nome di Giosuè ed esaltandovi [[Ugo Foscolo|Foscolo]], il suo poeta prediletto.
 
Lo scambio che più lo stimolava eràera però quello con Carolina, sempre più frenetico e sempre più esplicito, finché il 9 aprile [[1872]] la conobbe di persona a Bologna e il 5 maggio la rivide a Milano.<ref>M. Saponaro, pp.160-164</ref> Nello stesso anno Carducci si recò ancora a trovarla in ottobre e in dicembre e il rapporto sfocerà in una relazione amorosa. Le lettere rivelano un Carducci pienamente innamorato e dolce, alle prese con una esperienza affatto nuova che lo pone in pace col mondo, e Piva corrispondeva con uguale sentimento. Nell'estate 1872 passarono indimenticabili giorni insieme; ai primi di luglio risalirono l'[[Adda]] presso [[Lodi]] con una barchetta mentre a [[Brescia]] Lina depose un fascio di fiori ai piedi della [[Vittoria alata di Brescia|Vittoria alata]].<ref>M. Saponaro, pp.176-178</ref> I due momenti ispirarono le ''Barbare'' ''Su l'Adda'' e ''Alla Vittoria''. A lei, «bello ed unico pensier d'estetica viva e reale»,<ref>Lettera a Carolina Cristofori Piva, 23 ottobre 1872, ora in M. Saccenti, cit., pp.724-726; i due amanti avevano stabilito di intrattenere una conversazione «fermo posta», in modo che i coniugi rispettivi non si accorgessero della relazione.</ref> materializzazione del proprio ideale classico di bellezza, continuava a scrivere e a dedicare versi, e dopo averla sempre chiamata Lina, passò in poesia a rivolgerlesi con un più oraziano Lidia.
 
La relazione culminerà nel 1873 con la nascita di [[Gino Piva]], ritenuto figlio legittimo del generale garibaldino Domenico Piva.<ref>La paternità di Carducci è stata dimostrata da [[Guido Davico Bonino]] nell'opera ''Il leone e la pantera. Lettere d'amore a Lidia (1872-1878)'', Roma, Salerno, 2010</ref> Carducci, tuttavia, nutriva una profonda gelosia per l'amico Panzacchi che era in confidenza con Piva e che con lei (dopo che con Torriani) aveva avuto dei trascorsi. Si arrivò addirittura al punto in cui Carducci ruppe con Panzacchi e gli rimandò indietro i suoi libri. Panzacchi, invece, non fece altrettanto, nutrendo una vera e propria venerazione per il ''vate'': con il tempo il dissidio si placò.<ref>C. Mariotti, ''Panzacchi e la buona melica'', in E. Panzacchi, ''Lyrica'', a cura di C. Mariotti, Roma, Salerno editrice, 2008, pp. XLIX-L</ref>
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''Carducci. Albero Genealogico'', Roma, Ferraresi, 1989, p.22</ref> Fu tumulato con esequie solenni alla [[Cimitero Monumentale della Certosa di Bologna|Certosa di Bologna]]<ref>{{Cita web |url=http://goirsaa.it/goirsaa_Giosu%E8%20CARDUCCI.htm |titolo=Giosuè CARDUCCI - Grande Oriente d'Italia. In calce all'articolo è la foto che ritrae il poeta sul letto di morte con i paramenti del 33° del Rito Scozzese della Massoneria |accesso=27 marzo 2014 |dataarchivio=27 marzo 2014 |urlarchivio=https://web.archive.org/web/20140327234422/http://goirsaa.it/goirsaa_Giosu%E8%20CARDUCCI.htm |urlmorto=sì }}</ref>.
 
Negli ultimi anni di vita si convertì al cattolicesimo, come riportato dalla testimonianza della serva di Dio [[Luigia Tincani]], che apprese della conversione del poeta dal beato [[Luigi Orione|Don Orione]]. Sembra, inoltre, che riuscì a ricevere gli ultimi sacramenti in punto di morte da un sacerdote vestito da barbiere e venuto con la scusa di fargli la barba, riuscendo così ad eludere la guardia che gli facevano i massoni, alla sua camera (Cfr. Venturelli G., Don Luigi Orione e la Piccola Opera della Divina Provvidenza. Documenti e testimonianze. Vol. V: 1909-1912, Piccola Opera della Divina Provvidenza, Roma 1995, 316-317).
 
Tra gli onori e i monumenti che gli furono innalzati dopo la sua morte c'è l'[[edizione nazionale]] delle ''Opere'' in 30 volumi (Bologna, N. Zanichelli, 1935-40) e delle ''Lettere'' in 22 volumi (Bologna, N. Zanichelli, 1939-68).