Giosuè Carducci: differenze tra le versioni

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Così, alla fine del [[1853]], si iscrisse alla Facoltà di Lettere, dove divenne amico di [[Ferdinando Cristiani]] e [[Giuseppe Puccianti]], poi professori come lui. Alla Normale Carducci si diede allo studio anima e corpo, con quell'amore estremo di cui già aveva dato prova negli anni precedenti. All'infuori dell'orario di lezione, le giornate si consumavano abitualmente entro le pareti della sua stanza. Gli amici qualche volta gli facevano degli scherzi inneggiando al Manzoni, quando la sera rientravano sul tardi, e ''Pinini''<ref>«Io, conosciuto anche per Pinini, causa un raddoppiamento spostato nella coniugazione del verbo πίνειν ("bere")»; G. Carducci, ''Le «Risorse» di san Miniato al Tedesco'', in ''Prose di Giosue Carducci'', Bologna, Zanichelli, 1938, p. 945</ref> usciva furibondo facendoli scappare terrorizzati.<ref>F. Cristiani, «Il Carducci alla Scuola Normale», in ''Rivista d'Italia'', anno IV, fasc.V (maggio 1901), pp.44 e ss.</ref> Alla Scuola Normale, col forte beneplacito dei Governi (1852-1861) [[Camillo Benso, conte di Cavour|Cavour]], in linea col programma politico del predecessore [[Massimo d'Azeglio]] («Fatta l'Italia, bisogna fare gli italiani»,<ref>su Wikiquote, senza la parola iniziale «Purtroppo»</ref>), ricevette il mandato di formare i professori di lettere antiche e lettere moderne, per le scuole primarie e secondarie di tutto il Regno d'Italia, Paese in cui all'analfabetismo doveva sostituirsi una lingua e una cultura letteraria nazionale.
 
L'umore però variava a seconda dei giorni, ogni tanto la porta era aperta in segno di accoglienza, e i compagni chiassosamente entravano e si sdraiavano sul suo letto, mentre il suo carattere sanguigno non gli negò talvolta lunghe fuoriuscite per la città con gli amici, e appassionate serate al ''Caffè Ebe'', dove si riunivano alcuni intellettuali pisani e il futuro vate dibatteva per ore di politica e letteratura bevendo il [[Ponce (bevanda)livornese|ponce]]. D'altra parte, i normalisti lo ammiravano e gli volevano bene, consci inoltre del fatto che quando si avvicinavano gli esami era opportuno "tenerselo buono".<ref>{{Cita|Chiarini|pp. 35-36}}.</ref>
 
Pisa aveva reagito con veemenza ai moti rivoluzionari da poco trascorsi. Alla Normale non solo erano obbligatori la [[Celebrazione eucaristica|Messa]] mattutina e il [[Rosario]] serale, ma, racconta Cristiani, «Ogni mese dovevamo pure intervenire, cogli altri scolari della Università, alla congregazione, nella chiesetta di san Sisto. Guai a chi avesse ciarlato durante la lunga predica, o fosse mancato all'appello; i bidelli con lapis e carta prendevano nota di tutto per riferirne ai superiori. … Tutte queste pratiche di religione toglievano del tempo allo studio; e il Carducci, che del tempo era economo come l'avaro della borsa, portava anche alla messa, in cambio del libro d'orazioni, un qualche classico del formato in sedicesimo».<ref>F. Cristiani, pp. 44 e ss.</ref>
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Frattanto il Granduca [[Leopoldo II di Toscana|Leopoldo II]] era stato cacciato il 27 aprile, segnando l'avvento del governo provvisorio di [[Bettino Ricasoli]], e Carducci si dedicò alla composizione della canzone a lode di [[Vittorio Emanuele II d'Italia|Vittorio Emanuele]], pubblicata anni dopo ma già circolante manoscritta. Ebbe grande successo, come la coeva ode ''Alla Croce di Savoia'', che Silvio Giannini volle a tutti i costi mettere in musica. Malgrado l'opposizione del diretto interessato, l'opera fu musicata da [[Carlo Romani]] e cantata alla ''Pergola'' da [[Marietta Piccolomini]]. Presentato in quella circostanza al Ministro del culto [[Vincenzo Salvagnoli]], si vide nuovamente offrire un posto al liceo aretino, ma rifiutò. Accettò invece la nomina a professore di greco del liceo Niccolò Forteguerri di [[Pistoia]].<ref>{{Cita|Chiarini|p. 124}}.</ref>
 
Carducci indicò quindi chiaramente la propria appartenenza ideologica alla fazione che voleva l'Italia unita e il ricongiungimento con il Piemonte, in opposizione agli obiettivi dei filo-granducali e a quelli del circolo facente capo a [[Gino Capponi]] (il cosiddetto circolo di san Bastiano), propugnatore di un ritorno alla libertà municipale.<ref>P. Bargellini, pp. 120-122; cfr. M. Gioli Bartolomei, ''Il rivolgimento toscano e l'azione popolare'', Firenze, Barbera, 1905</ref>
[[File:Louisa Grace Bartolini.jpg|thumb|upright=0.8|Louisa Grace Bartolini]]
Il 12 dicembre, settimina, nacque Beatrice (Bice), la prima figlia, e la famiglia si trasferì a Pistoia tra il 7 e l'8 gennaio [[1860]]. Al fine di trovare prima una sistemazione, Carducci non portò subito con sé la famiglia, ma lo fece solo dopo aver preso dimora in un appartamento di proprietà del professor Giovanni Procacci.<ref>M. Saponaro, p. 84</ref> La legge sui licei toscani del 10 marzo gli mutò l'insegnamento del greco in quello dell'italiano e del latino - la cattedra di greco fu affidata a [[Raffaello Fornaciari]] - ma infine, essendo l'anno scolastico già nella seconda parte, Carducci si risolse, in accordo col direttore della scuola, a fare solo lezioni cattedratiche.
 
In città frequentò la casa della poetessa di lingua [[inglesi|inglese]] d'origine e sentimenti indipendentisti irlandesi [[Louisa Grace Bartolini]] (1818-1865), nativa di [[Bristol]] e sposa dell'architetto toscano [[Francesco Bartolini]]. Convenivano abitualmente nel salotto Giovanni Procacci e Fornaciari, e talvolta vi si univano Gargani e Chiarini, che non avevano perso l'abitudine di andare a trovare l'amico ovunque si trovasse. Per Louisa Grace Carducci nutriva una notevole ammirazione, come dimostrano le parole che antepose all'ode che le dedicò in ''Levia Gravia'': «Quelli che solo abbian visto di lei le versioni dei canti di T.B. Macaulay e E.W. Longfellow e le ''Rime'' e ''Prose'' ... non potrebbero ancora farsi un'idea giusta del suo ingegno, della dottrina in più lingue e letterature e dell'ancor più grande gentilezza e generosità dell'animo suo».<ref>''Poesie di Giosue Carducci'', Bologna, Zanichelli, 1901, p. 370</ref>
 
Appena iniziate le lezioni Carducci venne a sapere della [[Spedizione dei Mille|spedizione di Garibaldi]] in [[Sicilia]], e pensando che il Targioni e il Gargani erano partiti a combattere per la patria gli si strinse il cuore. Lui era rimasto ad accudire la madre sofferente per le recenti perdite del figlio e del marito. La passione si profuse quindi nell'ode in [[decasillabo|decasillabi]] manzoniani ''Sicilia e la Rivoluzione'', e venne apposta a Firenze per recitarla agli amici entusiasti in casa di Luigi Billi, mentre nel comune obiettivo si dimenticavano le "imperfezioni romantiche" del testo:<ref>{{Cita|Chiarini|p. 130}}.</ref>
 
{{Citazione|In quell'uno che tutti ci fiede,<br />che si pasce del sangue di tutti,<br />di giustizia d'amore di fede<br />tutti armati leviamoci su.<br />E tu, fine de gli odii e de i lutti,<br />ardi, o face di guerra, ogni lido!<br />Uno il cuore, uno il patto, uno il grido:<br />né stranier né oppressori mai più.|''Sicilia e la Rivoluzione'', vv. 125-132}}
 
=== L'arrivo a Bologna ===
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Il 27 luglio Carducci ricevette da Carolina una lettera di ammirazione cui erano allegati dei versi e un ritratto. Il poeta, lusingato, iniziò con lei un fitto scambio epistolare, e scriveva contemporaneamente anche a Torriani, dedicando versi a entrambe, ''Autunno romantico'' a Maria, la seconda ''Primavera Ellenica'' (la ''Dorica''; più avanti anche la terza, l{{'}}''Alessandrina'') a Carolina, che a Milano - dove viveva la maggior parte dell'anno, in via Stella - frequentava il salotto di [[Clara Maffei]] facendo conoscere il nome di Giosuè ed esaltandovi [[Ugo Foscolo|Foscolo]], il suo poeta prediletto.
 
Lo scambio che più lo stimolava eràera però quello con Carolina, sempre più frenetico e sempre più esplicito, finché il 9 aprile [[1872]] la conobbe di persona a Bologna e il 5 maggio la rivide a Milano.<ref>M. Saponaro, pp.160-164</ref> Nello stesso anno Carducci si recò ancora a trovarla in ottobre e in dicembre e il rapporto sfocerà in una relazione amorosa. Le lettere rivelano un Carducci pienamente innamorato e dolce, alle prese con una esperienza affatto nuova che lo pone in pace col mondo, e Piva corrispondeva con uguale sentimento. Nell'estate 1872 passarono indimenticabili giorni insieme; ai primi di luglio risalirono l'[[Adda]] presso [[Lodi]] con una barchetta mentre a [[Brescia]] Lina depose un fascio di fiori ai piedi della [[Vittoria alata di Brescia|Vittoria alata]].<ref>M. Saponaro, pp.176-178</ref> I due momenti ispirarono le ''Barbare'' ''Su l'Adda'' e ''Alla Vittoria''. A lei, «bello ed unico pensier d'estetica viva e reale»,<ref>Lettera a Carolina Cristofori Piva, 23 ottobre 1872, ora in M. Saccenti, cit., pp.724-726; i due amanti avevano stabilito di intrattenere una conversazione «fermo posta», in modo che i coniugi rispettivi non si accorgessero della relazione.</ref> materializzazione del proprio ideale classico di bellezza, continuava a scrivere e a dedicare versi, e dopo averla sempre chiamata Lina, passò in poesia a rivolgerlesi con un più oraziano Lidia.
 
La relazione culminerà nel 1873 con la nascita di [[Gino Piva]], ritenuto figlio legittimo del generale garibaldino Domenico Piva.<ref>La paternità di Carducci è stata dimostrata da [[Guido Davico Bonino]] nell'opera ''Il leone e la pantera. Lettere d'amore a Lidia (1872-1878)'', Roma, Salerno, 2010</ref> Carducci, tuttavia, nutriva una profonda gelosia per l'amico Panzacchi che era in confidenza con Piva e che con lei (dopo che con Torriani) aveva avuto dei trascorsi. Si arrivò addirittura al punto in cui Carducci ruppe con Panzacchi e gli rimandò indietro i suoi libri. Panzacchi, invece, non fece altrettanto, nutrendo una vera e propria venerazione per il ''vate'': con il tempo il dissidio si placò.<ref>C. Mariotti, ''Panzacchi e la buona melica'', in E. Panzacchi, ''Lyrica'', a cura di C. Mariotti, Roma, Salerno editrice, 2008, pp. XLIX-L</ref>