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Il maresciallo [[Rodolfo Graziani]] divenne il primo viceré-governatore con pieni poteri ma egli non condivideva le decisioni provenienti da Roma; isolato con le sue forze ad Addis Abeba, Graziani era in difficoltà e richiedeva una politica più elastica e la presa di contatto con "ex ras e [[Titoli nobiliari etiopici|degiac]]"; il maresciallo riferiva che la sua situazione era critica e che i capi etiopici e la popolazione "sono a noi avversi" e facevano resistenza<ref>{{cita|Rochat|pp. 79-80}}.</ref>. Le sue proposte furono però nettamente respinte; il ministro Lessona confermò le disposizioni del Duce e ordinò al viceré di impiegare "mezzi estremi per stroncare inesorabilmente ogni velleità di ribellione". Lessona in data 10 settembre 1936 autorizzava "ad impiegare i gas, se Vostra Eccellenza lo ritenga utile"<ref>{{cita|Rochat|pp. 80-81}}.</ref>.
 
Alla fine di maggio 1936 vaste regioni aride e inospitali dell'Etiopia sud-occidentale, quasi prive di vie di comunicazione, non erano state ancora occupate dal corpo di spedizione italiano; tutto il territorio compreso tra i laghi [[lago Tana|Tana]] e [[Chew Bahir|Stefania]] e i centri di [[Magalo]] e [[Gambela]] che comprendeva le province del [[Regione degli Amara|Goggiam]], [[Arussi]], [[Gimma]], [[Sidamo]], [[Borana (zona)|Borana]] e parte dello Scioa era ancora libero<ref name="ADB11">{{cita|Del Boca|vol. III, p. 11}}.</ref>. In questo vasto territorio erano ancora attivi i resti dell'esercito etiopico costituiti da circa 40.000{{M|40000|-50.000|50000}} combattenti; i nuclei principali erano presenti nell'[[Regione di Harar|Harar]], nel Sidamo, dove erano comandati da ras [[Destà Damtù]] e dal degiac [[Gabre Mariam]], nell'Arussi sotto la guida del degiac [[Bejene Merid]], nell'[[Ilubabor]], dove si trovava ras [[Immirù Hailé Selassié|Immirù]]<ref name="ADB11"/>. Il gruppo più pericoloso e più aggressivo era però costituito dai guerriglieri presenti nello Scioa dove aveva avuto inizio il vero e proprio movimento dei cosiddetti ''arbegnuoc'', i "patrioti" della resistenza etiopica.
 
Sembra che il primo ''arbegnuoc'' dello Scioa sia stato il [[Titoli nobiliari etiopici|ligg]] [[Hailè Mariam Mammo]] che guidò un attacco ad un convoglio italiano il 4 maggio 1936, il giorno prima della caduta di Addis Abeba; a questo primo nucleo si unirono ben presto soldati sbandati, giovani volontari decisi ad opporsi all'occupante e una parte dei cadetti dell'accademia militare di Oletta guidati dal giovane [[Negga Haile Selassie]]<ref name="ADB17">{{cita|Del Boca|vol. III, p. 17}}.</ref>. Entro giugno nelle colline intorno alla capitale erano attivi numerosi gruppi di ribelli guidati da militari o politici come il degiac [[Ficrè Mariam]], il degiac [[Balcià Abba Nefsa]], il [[Titoli nobiliari etiopici|blatta]] [[Tecle Uolde Hawariat]], l'abile e aggressivo [[Titoli nobiliari etiopici|balambaras]] [[Abebe Aregai]], il vecchio comandante della cavalleria [[Aradù Ifrù]]<ref name="ADB17"/>. Gli ''arbegnouc'' dello Scioa in questa fase riconoscevano la guida suprema del degiac [[Aberra Cassa]], figlio di ras [[Cassa Darghiè]], che era sostenuto dal fratello [[Asfauossen Cassa]] e dal prestigioso vescovo di Dessiè l'[[abuna Petros]]<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 17-18}}.</ref>. I gruppi di guerriglieri dello Scioa a giugno e luglio attaccarono soprattutto la "strada imperiale" e la ferrovia per [[Gibuti]] e misero in seria difficoltà i presidi e le colonne italiane; Ficrè Mariam in particolare guidò il 6 e il 9 luglio 1936 due pericolosi attacchi alle stazioni ferroviarie a 50 chilometri dalla capitale che, pur respinti, causarono gravi perdite agli occupanti<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 18-20}}.</ref>.
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Nei mesi di giugno e luglio 1938 il generale Cavallero estese le operazioni di repressione della guerriglia anche nell'Ancoberino contro Abebe Aregai, che pur subendo perdite, riuscì sistematicamente a sganciarsi; altri combattimenti ebbero luogo nell'Amhara Nord, nel Beghemeder e nel [[monte Gibatti]] contro bande ''arbegnuoc'' particolarmente attive e pericolose<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, p. 319}}.</ref>. Cavallero, sulla base dei dati statistici e dei risultati apparenti, si mostrò ottimista e comunicò a Mussolini che contava di vincere la ribellione entro Natale, ma in realtà nel Goggiam erano già ripresi gli attacchi dei guerriglieri che, sotto la guida di Mangascià Giamberiè e Negasc Bezabè, continuarono da luglio a settembre<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 319-320}}.</ref>. In particolare Mangascià Giamberiè riuscì ad evitare i rastrellamenti e nonostante la grave carenza di viveri e munizioni, riuscì a sopravvivere con la sua banda agli attacchi e agli inseguimenti degli occupanti; anche molti altri capi ''arbegnuoc'' riuscirono a mantenersi attivi e, senza deprimersi per le difficoltà materiali e la superiorità del nemico, prolungarono ancora la resistenza, riaccendendo continuamente la guerriglia<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 320-321}}.</ref>.
 
Il 1 ottobre 1938 Cavallero fu costretto a sferrare un nuovo ciclo di operazioni nell'Arcoberino contro Abebe Aregai che stava consolidando il suo potere e la sua influenza sul territorio; tre gruppi di bande irregolari e quattro battaglioni coloniali cercarono di agganciare e bloccare gli ''arbegnuoc'' ma nonostante qualche successo, Abebe Aregai riuscì ancora una volta a sfuggire e rompere l'accerchiamento raggiungendo la sua regione natale del [[Menz (Etiopia)|Menz]] dove, rafforzato dai gruppi di Auraris Dullu, riprese le sue azioni di guerriglia<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 321-322}}.</ref>. Il generale Cavallero giunse sul posto per dirigere personalmente le operazioni contro il capo abissino, ma nonostante l'impiego di circa 20.000{{formatnum:20000}} uomini, il comandante italiano non raggiunse alcun risultato e dopo quaranta giorni di sterili operazioni fu costretto alla metà del mese di dicembre 1938 ad interrompere l'offensiva contro gli ''arbegnuoc'' di Abebe Aregai<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, p. 322}}.</ref>. Ugualmente insoddisfacenti furono le azioni di repressione della guerriglia guidata dal balambaras Gherarsù Duchì, il capo dei resistenti nel [[Guraghé]]; il 23 ottobre 1938 quattro colonne italiane, precedute da violenti bombardamenti aerei, iniziarono una manovra concentrica nella regione del [[Bedachè]] per schiacciare gli ''arbegnuoc'' di Gherarsù Duchì. In un primo momento l'operazione raggiunse qualche risultato; gli italo-eritrei effettuarono vasti rastrellamenti, uccisero 866 "ribelli" e agirono, secondo le direttive del viceré e dello stesso Mussolini, "con la massima energia", ma alla fine anche Gherarsù Duchì sfuggì, insieme ai suoi guerriglieri, alla caccia delle forze occupanti<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 322-325}}.</ref>. Contemporaneamente nel Beghemeder, nell'Amhara settentrionale e nel Goggiam era già ripresa la rivolta; gli ''arbegnuoc'' nel Goggiam colpirono due battaglioni coloniali e nell'Amhara attaccarono gli operai italiani al lavoro sulla strada [[Gondar]]-Debrà Tabor, che rimase permanentemente minacciata dalla guerriglia<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, p. 325}}.</ref>.
 
=== La guerriglia alla vigilia della seconda guerra mondiale ===
 
Le operazioni di repressione del 1938 non ottennero quindi risultati decisivi; inoltre in questo periodo si accentuarono i contrasti tra il Duca d'Aosta, convinto della necessità di ridurre la violenza e la brutalità della lotta contro la guerriglia, e il generale Cavallero deciso a mantenere il controllo operativo della guerra contro gli ''arbegnuoc''; a Roma Mussolini manifestò il suo scontento per la situazione in Africa orientale. All'inizio del 1939 il comandante superiore in Africa orientale riprese quindi le grandi operazioni militari contro la resistenza organizzando un'ambiziosa operazione contro gli ''arbegnuoc'' di Abebe Aregai; il generale Cavallero affidò al colonnello [[Orlando Lorenzini]] cospicue forze coloniali per rastrellare il Menz; i risultati tuttavia non furono conclusivi; i principali capi della guerriglia sfuggirono al rastrellamento che si prolungò fino alla fine di marzo 1939<ref>{{cita|Dominioni|pp. 206-209}}.</ref>. Inoltre il 9-11 aprile 1939 le truppe italo-eritree furono protagoniste di un nuovo episodio di brutale violenza contro i civili, vecchi, donne e bambini, che seguivano le bande ''arbegnuoc'' in fuga; nella [[strage di Gaia-Zeret]] vennero uccisi con l'impiego di gas o con il fuoco delle mitragliatrici circa 1.200{{M|1200|-1.500|1500}} etiopi in grande maggioranza civili rifugiati in una grotta<ref>{{cita|Dominioni|pp. 209-215}}.</ref>. A causa dell'insuccesso della sua strategia globale alla fine il generale Cavallero il 10 aprile 1939 venne richiamato in Italia e sostituito dal generale [[Luigi De Biase]], mentre il generale Nasi, fautore di una politica severa ma corretta verso la popolazione indigena, divenne vicegovernatore generale<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 325-326}}.</ref>.
 
Durante il 1939, mentre la situazione politica internazionale degenerava rapidamente verso la guerra generale, in Africa orientale si alternarono fasi di recrudescenza della guerriglia degli ''arbegnuoc'' e della repressione, con fasi di trattative per ottenere la sottomissione pacifica dei capi della guerriglia<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 326-327}}.</ref>. I tentativi del Duca d'Aosta e del generale Nasi di ottenere la sottomissione dei capi della guerriglia per mezzo di trattative ottennero alcuni risultati: Zaudiè Asfau e Olonà Dinkel si accordarono con le autorità italiane e rinunciarono alla ribellione<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, p. 331}}.</ref>. Non raggiunsero il successo invece i lunghi e complessi tentativi per convincere a rinunciare alla lotta ras Abebe Aregai che ormai era divenuto il vero capo degli ''arbegnuoc'' e manteneva rapporti con i francesi di Gibuti. Sembra che in alcune circostante egli abbia accettato di intavolare trattative soprattutto per guadagnare tempo e ottenere armi e vettovaglie; tutti i contatti con Abebe Aregai ricercati da inviati italiani di alto rango, compreso il generale De Biase terminarono nel nulla; il capo etiope non si presentò all'incontro al vertice programmato per il 14 marzo 1940 cosicché Mussolini ordinò la ripresa delle operazioni di repressione contro i suoi guerriglieri con "azione militare, immediata, dura... non esclusi i gas"<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 327-331}}.</ref>.
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[[File:Ethiopian men gather in Addis Ababa, heavily armed with captured Italian weapons, to hear the proclamation announcing the return to the capital of the Emperor Haile Selassie in May 1941. K325.jpg|upright=1.2|thumb|Guerriglieri etiopici ad [[Addis Abeba]] liberata nel maggio 1941.]]
 
In realtà fin dal 31 marzo 1941 il Duca d'Aosta aveva deciso che la difesa di Addis Abeba era ormai impossibile e aveva quindi ordinato di ripiegare con le truppe superstiti verso il ridotto difensivo di [[Dessiè]]-[[Amba Alagi]]<ref>{{cita|Mockler|pp. 472-473}}.</ref>; egli intendeva aprire trattative con i britannici per cedere la capitale ordinatamente e salvaguardare la vita dei 35.000{{formatnum:35000}} residenti italiani, tra cui 11.000{{formatnum:11000}} donne e bambini. Nei giorni 1-3 aprile le truppe italiane evacuarono quindi Addis Abeba e si ritirarono, in una atmosfera di disastro e collasso generale, parte nel Galla e Sidamo e parte nel ridotto dell'Amba Alagi; la linea difensiva del fiume Ausc venne superata dai sudafricani del generale Cunningham che il pomeriggio del 5 aprile raggiunsero la periferia della città<ref>{{cita|Mockler|pp. 471-475}}.</ref>. Alle ore 10.30 del 6 aprile le prime truppe britanniche entrarono in Addis Abeba senza incontrare resistenza; alle truppe sudafricane e nigeriane si erano unite le bande ''arbegnuoc'' di Abebe Aregai e circa 800 guerriglieri, dall'aspetto singolare e caratteristico per le folte capigliature, i vestiti laceri, i piedi scalzi e le armi e parte delle divise sottratte agli italiani, fecero ingresso nella capitale<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 459-460}}.</ref>. L'entrata degli ''arbegnuoc'' fu caratterizzata da manifestazioni di entusiasmo e di rivalsa sull'occupante ma nel complesso i guerriglieri tennero un comportamento corretto e non vi furono esplosioni di violenza incontrollata e di vendetta sanguinosa; la capitale rimase relativamente tranquilla, gli italiani residenti collaborarono subito con le autorità britanniche che sgomberarono il centro cittadino e concentrarono i civili bianchi in aree separate<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 461-462}}.</ref>.
 
Mentre i generali Platt e Cunningham sferravano la loro travolgente offensiva in Eritrea e Somalia, dal 20 gennaio 1941 il negus Hailè Sellasiè, accompagnato da molti dignitari dell'impero, era finalmente rientrato in Etiopia nella regione del Goggiam insieme alla ''Gideon Force'' del colonnello Wingate, costituita da truppe britanniche, soldati sudanesi e un reggimento regolare del nuovo esercito etiopico<ref>{{cita|Mockler|pp. 424-425}}.</ref> L'avanzata della ''Gideon Force'' non fu agevole a causa soprattutto delle difficoltà del territorio e anche per la resistenza italiana; nel Goggiam erano attivi gli ''arbegnuoc'' di Mangascià Giamberiè e Negasc Bezabè, con loro si trovavano anche gli uomini della ''mission 101'' di Sandford che parteciparono alle operazioni; le bande di Mangascià liberarono [[Dangila]] prima dell'arrivo delle forze di Wingate<ref>{{cita|Mockler|pp. 442-443}}.</ref>. Nonostante la debolezza della ''Gideon Force'', il colonnello Wingate e Hailè Sellasiè continuarono l'avanzata; la situazione ebbe una svolta con la defezione di Hailu Tekle Haymanot, il ras collaborazionista che dopo aver ricevuto grande autorità dagli italiani, il 7 aprile decise di cambiare campo e aiutare il Negus<ref>{{cita|Dominioni|pp. 274-276}}.</ref>.
 
Il 6 aprile era già stata raggiunta Debra Marcos e il 5 maggio 1941, a cinque anni esatti dalla caduta di Addis Abeba, Hailè Sellasiè arrivò alla periferia della capitale insieme alla ''Gideon Force'' di Wingate<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 473-475}}.</ref>. Il Negus aveva diffuso fin dal 19 gennaio 1941 un documento in cui invitava alla moderazione ed a perdonare gli italiani per le loro brutali violenze; nel proclama Hailè Sellasiè ordinava di rinunciare alla vendetta, risparmiare la vita di donne e bambini, non punire i prigionieri e dimostrare "senso dell'onore e un cuore umano"<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 463-464}}.</ref>. Alle ore 15.30 il Negus fece ingresso nella capitale su un'auto scoperta, accolto dallo straordinario entusiasmo della popolazione; gli ''arbegnuoc'' di Abebe Aregai, circa 7.000{{formatnum:7000}} guerriglieri, si fecero intorno e scortarono il corteo imperiale durante il passaggio nelle vie cittadine fino all'incontro con il generale Alan Cunningham<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 475-476}}. I guerriglieri di Abebe Aregai portavano i capelli lunghi sulle spalle perché avevano giurato di non tagliarseli fino alla liberazione di Addis Abeba.</ref>. Non si verificarono incidenti, violenze o rappresaglie verso gli italiani; nel suo discorso il negus parlò di "giorno di felicità per tutti", di "non ripagare il male con il male", e invitò a non macchiarsi di "atti di crudeltà"; nella notte la liberazione fu festeggiata con una grande fiaccolata dei guerriglieri su tutte le colline intorno ad Addis Abeba<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 476-477}}.</ref>.
 
Nei mesi seguenti, dopo la liberazione della capitale e il rientro del Negus, caddero gli ultimi nuclei di resistenza delle forze armate italiane nell'Africa orientale; il 19 maggio 1941 si arrese all'Amba Alagi il Duca d'Aosta insieme al generale [[Claudio Trezzani]]; il generale [[Pietro Gazzera]] cessò la resistenza nel Galla e Sidamo il 3 luglio 1941, mentre il generale Guglielmo Nasi, dopo una prolungata ed accanita resistenza nella regione di Gondar, dovette infine cedere le armi il 27 novembre 1941<ref>{{cita|Dominioni|pp. 259-260}}.</ref>. I guerriglieri abissini ''arbegnuoc'' e i nuovi reparti dell'esercito etiopico organizzati dai britannici presero parte con un ruolo di rilievo anche a queste ultime battaglie, contribuendo alla totale sconfitta dell'occupante; furono i combattenti della resistenza che entrarono per primi a Gondar<ref>{{cita|Dominioni|p. 260}}.</ref>.
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La resistenza, iniziata soprattutto come movimento di difesa contro la brutale repressione dell'occupante, si trasformò nel tempo in un movimento popolare di massa privo peraltro di connotazioni rivoluzionarie e di istanze sociali radicali; gli ''arbegnuoc'' combattevano in grande maggioranza per ripristinare la vecchia società feudale etiopica e i dirigenti erano sempre legati al Negus; le popolazioni non espressero richieste di sovvertimento della società anche se in parte il movimento di resistenza sviluppò una prima coscienza democratica antimperialista<ref>{{cita|Dominioni|p. 276}}.</ref>. In questo senso la resistenza ''arbegnuoc'' fu un evento molto importante nella storia dell'Etiopia, favorì la partecipazione del popolo agli eventi politici e sviluppò i sentimenti di indipendenza e coesione nazionale<ref>{{cita|Dominioni|p. 262}}.</ref>.
 
Gli ''arbegnuoc'' impegnati nella guerriglia erano numerosi; un numero variabile nel corso delle stagioni dell'anno tra i 40.000{{formatnum:40000}} e i 100.000{{formatnum:100000}} fu sempre attivo soprattutto nelle regioni dello Scioa e del Goggiam; la popolazione contadina incrementava questo numero partecipando temporaneamente alla lotta e unendosi alle bande; non mancavano peraltro contrasti interni e a volte gli ''arbegnuoc'' ricorrevano alle intimidazioni e alle vendette per ottenere l'appoggio e il sostegno della popolazione<ref name="Dominioni" />. Le perdite dovute alla repressione e alle operazioni di rastrellamento delle forze militari italiane, furono pesanti; secondo i dati ufficiali forniti dal Negus, 75.000{{formatnum:75000}} "patrioti" furono uccisi in combattimento, 24.000{{formatnum:24000}} furono giustiziati dalle autorità nemiche, 35.000{{formatnum:35000}} morirono nei campi di concentramento; inoltre pesanti furono le vittime civili calcolate in oltre 300.000{{formatnum:300000}} persone<ref>{{cita|Dominioni|pp. 270-271}}.</ref>. I dati italiani sono in parte differenti; 76.906{{formatnum:76906}} sarebbero stati gli ''arbegnuoc'' uccisi, 4.437{{formatnum:4437}} i feriti e 2.847{{formatnum:2847}} i prigionieri; il modesto numero dei prigionieri rispetto ai morti conferma la durezza della guerra in Africa orientale nel periodo 1936-1941 e la grande carica di violenza dispiegata dall'apparato repressivo italiano per cercare di sottomettere le popolazioni e schiacciare la resistenza<ref>{{cita|Dominioni|p. 271}}.</ref>.
 
Il 5 maggio, anniversario della liberazione di Addis Abeba, in Etiopia viene festeggiato ogni anno lo ''Arbegnoch Qen'' (የአርበኞች ቀን), il giorno degli ''arbegnuoc'', in onore dei patrioti della resistenza contro l'Italia fascista; i reduci della guerriglia ancora viventi partecipano orgogliosamente alle manifestazioni di ricordo.