Vincenzo Calmeta: differenze tra le versioni
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|Attività2 = critico letterario
|Nazionalità = italiano
|FineIncipit = Fu [[scrittore]], [[poeta]] e [[critico letterario]] al servizio di vari signori, nel corso dei suoi continui e inquieti spostamenti per l'Italia e la Francia. Dapprima [[segretario (ufficio)|segretario]] della duchessa di Milano [[Beatrice d'Este]], dappoi di [[Cesare Borgia]], fu poeta favorito anche della duchessa d'Urbino [[Elisabetta Gonzaga]]▼
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== Biografia ==
La vita di Vincenzo rimane in larga parte oscura, ed è possibile ricostruirla solo per brevi accenni e per ciò che egli riferisce di sé all'interno delle proprie opere e lettere sopravvissute.<ref name=":4">{{Cita|Grayson|La vita del Calmeta: pp. XIII-XXX}}.</ref>
=== Origini ===
Il copista di un codice contenente alcune sue opere ne fornisce alcuni particolari biografici, sulla base di ciò che Vincenzo stesso aveva scritto nella propria ''Amorosa Peregrinazione'', opera perduta: i suoi antenati furono [[Insubria|insubri]] ed egli apparteneva a una nobile famiglia [[Vigevano|vigevanese]]. Il padre era un gran viaggiatore e, capitato a [[Chio (isola)|Chio]], allora sotto la giurisdizione genovese, vi aveva ottenuto il compito dell'amministrazione della giustizia. Qui aveva sposato una nobildonna del luogo,
Vincenzo dichiara, nelle prose scritte dopo il 1500, di avere quarant'anni, perciò la sua data di nascita è fissata attorno al 1460 o poco dopo. Né le prose sono infatti databili prima del 1500, poiché contengono numerosi riferimenti alla caduta di Ludovico il Moro e al proprio servizio presso Cesare Borgia, di cui Vincenzo parla come di fatti ormai passati.<ref name=":4" /><ref name=":7" />
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=== Segretario di Beatrice d'Este ===
[[File:Eleanor Fortescue-Brickdale - The Forerunner.jpg|miniatura|305x305px|La corte di [[Ludovico il Moro]]. [[Eleanor Fortescue-Brickdale]]. Sulla sinistra è la duchessa Beatrice d'Este, cui un cortigiano, forse il suo segretario, sussurra qualcosa all'orecchio.]]
Terminati gli studi, ed essendo in età ancora giovanile, si recò in data imprecisata, ma comunque antecedente al 1494, a [[Milano]], presso la corte di [[Ludovico il Moro]], dove divenne segretario della duchessa [[Beatrice d'Este]]. Si noti comunque che è Vincenzo stesso a definirsi con tale termine all'interno delle proprie opere, mentre mancano tuttavia testimonianze concrete della sua effettiva attività durante la permanenza a Milano, come se non ci fosse mai stato.<ref name=":0" /> Parrebbe inoltre che in onore della duchessa egli avesse composto una serie di poesie che non ci sono pervenute, ma entrò senz'altro a far parte del rinomato circolo di poeti radunato intorno alla donna, che egli stesso descrisse con queste parole:<ref name=":3" />{{Citazione|Era la corte soa [di [[Beatrice d'Este|Beatrice]]] de homini in qual se voglia Virtù et exercitio copiosa e sopratutto de Musici e Poeti da li quali oltra le altre compositioni mai non passava mese che da loro o [[Egloga]] o [[Commedia|Comedia]] o [[tragedia]] o altro novo spettaculo e representatione non se aspettasse. Leggevasi ordinatamente a tempo conveniente l'alta Comedia del Poeta vulgare per uno [[Antonio Grifo|Antonio Gripho]] homo in quella facultà prestantissimo, né era piccola relaxatione d'animo a [[Ludovico Sforza]] quando absoluto da le grandi occupationi del stato poteva sentirla. Ornavano quella Corte tre generosi Cavallieri li quali oltra la poetica facultate di molte altre Virtù erano insigniti: [[Niccolò II da Correggio|Nicolò da Correggio]], [[Gaspare Ambrogio Visconti|Gasparro Vesconte]], Antognetto da Campo Fregoso et altri assai tra li quali era anchor io, che di secretario con quella inclita e virtuosissima Donna il luoco ottenneva.|Vincenzo Calmeta, Vita di [[Serafino Aquilano]]
{{Vedi anche|Triumphi di Vincenzo Calmeta|Morte di Beatrice d'Este}}Alla propria signora egli fu sinceramente affezionato, quando non direttamente innamorato, come risulta da diverse evidenze, e specialmente dall'incredibile dolore espresso in seguito nella sua opera più famosa: i ''[[Triumphi di Vincenzo Calmeta|Triumphi]]''. Si tratta di un [[poema]] in cinque canti d'ispirazione petrarchesca e dantesca, che Vincenzo compose per dare sfogo al dolore causato dalla prematura scomparsa di lei, avvenuta al principio del 1497. Il poema è tutto intriso di un lessico fortemente amoroso, e due soli sono i personaggi presenti: Beatrice, nel ruolo della [[Dolce stil novo|donna angelica]], e Vincenzo, che si sostituisce a Dante e Petrarca nel ruolo del poeta perduto che necessita della guida e del conforto della propria donna.<ref name=":0" /><ref name=":22">{{Cita|Berra|pp. 90-95}}.</ref>
Tema portante dell'opera è dunque l'amore per la donna che, sul solco del [[Dolce stil novo|Dolce Stil Novo]], conduce il poeta alla salvezza. Anche in questo caso, secondo l'interpretazione di Rossella Guberti, si tratta di un amore puramente spirituale e non fisico, secondo una visione filosofico-religiosa: Beatrice è guida per gli smarriti sensi del poeta.<ref>R. Ruberti, edizione critica dei "Triumphi", p. XXXIV.</ref> Anche secondo Claudia Berra il sentimento di Vincenzo si mantiene sempre più sulla strada della devozione che non dell'amore vero e proprio.<ref name=":22" /> L'amore-passione sarebbe cioè assente, "surrogato dalla venerazione del segretario per la sua signora".<ref name=":43">{{Cita|Berra|pp. 120-122}}.</ref> ▼
D'altra parte alcuni versi di un [[Epicedio|epicedion]] dell'umanista [[Pier Francesco Giustolo]], composto forse nel 1501 e dedicato a Vincenzo Calmeta, sembrano condurre a un'interpretazione diversa, nonché dimostrare il ruolo centrale che Beatrice ebbe nella vita e nella poetica del proprio segretario:<ref>[https://www.google.it/books/edition/Medioevo_e_umanesimo/zJw2AAAAIAAJ?hl=it&gbpv=0&bsq=felicis%20nemoris%20pueri%20cum%20voce%20decorem%20Beatrix Medioevo e umanesimo], Volume 17, 1974, pp. 271, 302 e seguenti.</ref><ref name=":1">{{Cita web|url=https://treccani.it/enciclopedia/colli-vincenzo-detto-il-calmeta_(Dizionario-Biografico)/|titolo=COLLI, Vincenzo, detto il Calmeta}}</ref><ref>[https://www.academia.edu/3300516/Vincenzo_Calmeta_Triumphi_a_cura_di_R_Guberti_2004 PER LEGGERE I GENERI DELLA LETTURA] ANNO VI, NUMERO 11, AUTUNNO 2006, Pensa MultiMedia 2006, p. 190.</ref>
{{Citazione|La folla abitante della felice selva si stupisce del fanciullo per la grazia nella voce; soprattutto dal tuo canto è allietata la desiderata Beatrice, e compiacente riconosce le proprie lodi, e infine, deposta la lira, lo prende per mano e portandolo con sé tra le amene ombre gli chiede di te, Calmeta, del tuo canto armonioso, e ti perdona volentieri i successivi amori.|Epicedion di Pier Francesco Giustolo.<ref>[https://www.google.it/books/edition/Medioevo_e_umanesimo/zJw2AAAAIAAJ?hl=it&gbpv=0&bsq=felicis%20nemoris%20pueri%20cum%20voce%20decorem%20Beatrix Medioevo e umanesimo], Volume 17, 1974, pp. 276 e 309.</ref>|[...] stupet accola turba / felicis nemoris pueri cum voce decorem; / praecipueque tuo cantu affectata Beatrix / mulcetur propriosque libens agnoscit honores / ac demum posita pueri testudine dextram / abripit et, secum per amoena umbracula ducens, / de te deque tuis fidibus, Calmeta, sonoris / quaeritat et curis ignoscit sponte secundis.|lingua=lat}}
Si tratta del compianto per un giovane poeta di recente defunto, il quale era stato allievo di Vincenzo: la scena si svolge nella selva ultraterrena, dove il fanciullo allieta le anime dei defunti con le canzoni che Vincenzo gli ha insegnato, e dove appare inaspettatamente una Beatrice che altri non può essere che la stessa duchessa Beatrice d'Este, già morta da anni. Da ciò si comprende che Vincenzo aveva continuato a scrivere poesie in sua memoria, le quali insegnò al proprio allievo: riconosciutele, Beatrice prende per mano il fanciullo defunto e lo interroga sul benestare di Vincenzo, dicendo di perdonarlo per le sue "curis secundis", verosimilmente traducibile con "successivi amori", in quanto intrattenuti dopo la morte della duchessa. In seguito, in una successiva edizione dell'epicedio, il nome di Vincenzo venne rimosso, mentre quello di Beatrice subì varie sostituzioni: si tentò dapprima di trasformarlo in quello di una anonima Lycore; fallito questo tentativo, il nome ''Beatrix'' venne trasformato in ''Hermosine'', misteriosa donna amata da [[Angelo Colocci]].<ref name=":10">Medioevo e umanesimo, Volume 17, Editrice Antenore, 1974, pp. 276, 309-313.</ref> Si trattò di un vero e proprio "furto letterario" perpetrato dal Colocci ai danni del Calmeta, al cui nome sostituì il proprio come dedicatario fittizio nell'epicedio del Giustolo, probabilmente dopo la sua morte nel 1508. Questa fu la versione che andò a stampa.<ref name=":9">Lettere italiane, Volume 34, Giuseppe Searpat, Leo S. Olschki Editore, 1982, p. 138.</ref> Esso fu invece presumibilmente composto dal Giustolo a [[Fano]], nel 1501, e inviato a Napoli al Calmeta, il quale era allora al servizio del Valentino. I veri nomi dei protagonisti furono riscoperti solo nella seconda metà del XX secolo da [[Augusto Campana]].<ref name=":10" /><ref name=":9" />
Alcuni numerosi sonetti attribuiti, con maggiore o minore certezza, al Calmeta, sono stati rinvenuti in diversi manoscritti, e datati approssimativamente agli ultimi anni del XV secolo,<ref name=":11">Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei, Classe di scienze morali, storiche e filologiche, L'Academia, 1892, pp. 375-377.</ref> altri ai primi del secolo successivo.<ref name=":12">Alcuni componimenti del Calmeta e un codice cinquecentesco poco noto, Franca Ageno, Vol. 13, No. 3 (Luglio-Settembre 1961), pp. 295-315.</ref> I sonetti amorosi parlano tutti di un amore infelice, non corrisposto e non realizzabile. Così per esempio il VII contenuto nel manoscritto Par. It. 1543, dove egli lamenta di non poter sfogare "el martir mio tanto atroce", col rivelare a tutti il proprio desiderio, poiché sarebbe una grave minaccia all'[[onore]] della dedicataria (mantenuta anonima), ragione per cui aveva scelto di soffrire e di tacere il proprio amore: "cussì l'un via a me, l'altra ad te noce, unde pel meglio mi consumo e taccio, e cerco cun mio damno conservarte, perché in te sta de me la meglior parte".<ref name=":12" /> Un altro parla della bellezza e della crudeltà dell'amata, che non lo corrisponde.<ref name=":12" /> In una epistola metrica (di attribuzione anch'essa incerta) parla invece di un amore finalmente corrisposto: un "licito amor" di cui "l'oneste accoglienze siano il frutto", ma precisa che si tratta di una donna di bassa condizione sociale, che infatti non può sposare.<ref name=":12" />
Quanto ai ''[[Triumphi di Vincenzo Calmeta|Triumphi]]'', essi iniziano col poeta (Vincenzo) che piange la prematura morte della "sua cara compagna", la duchessa Beatrice, e si esprime addirittura con queste struggenti parole:<ref name=":15">Rassegna critica della letteratura italiana, Volumi 1-2, 1896, E. Percopo, pp. 146-148.</ref>
▲==== I Triumphi ====
{{Citazione|Tolto m'ha morte el ben,<ref>Da notare che il bene, nella lingua letteraria, significa la persona amata.{{Cita web|url=https://www.dizionario-italiano.it/dizionario-italiano.php?parola=bene|titolo=bène 1|citazione=11 per estensione letterario persona amata: l'amato bene {{!}} il mio bene {{!}}[...]}}</ref> spietata e cruda, {{!}} del qual l'avaro Ciel me fu sì largo, {{!}} lassando nostra età di gloria nuda; e però aver vorrei le luce d'[[Argo Panoptes|Argo]], {{!}} che queste doi mei fonti<ref>I due fonti sono gli occhi</ref> han perso el lume {{!}} per le lacrime amar che ognora spargo. {{!}} Io son qual cigno in sul [[Meandro (fiume)|Meandro]] fiume {{!}} che la propinqua Morte canta e plora {{!}} scotendo spesso le sue bianche piume;<ref>Secondo il mito il cigno, già caro ad Apollo per la soavità del canto, canta ancor più soavemente quando si sente vicino alla morte. Il Meandro è un fiume della Lidia nelle cui acque vivevano molti cigni.</ref> {{!}} over qual [[Filomela|Filomena]] in su l'aurora {{!}} ch'empie di meste note la campagna {{!}} perché l'antiqua offesa ancor l'acora; {{!}} over qual tortorella che se lagna {{!}} in turbida acqua o in arbor senza fronde {{!}} poi che ha perduta sua cara compagna.<ref>Della tortora si dice che "non fa mai fallo al suo compagno, e se l'uno more, l'altro osserva perpetua castità, e non si posa mai su ramo verde e non beve mai acqua chiara", essa è dunque il miglior simbolo di un amore puro, fedele ed eterno.</ref>|Triumphi (I, 10-24)}}
Egli non fa che inveire contro il crudele [[Fato]] e tessere gli elogi della defunta, che è la "chiara luce al mio scuro intellecto" e "del mio ardente cor vera fenice", e invoca addirittura la Morte affinché lo faccia morire al più presto e gli conceda di riposare accanto alle sue "caste ossa":<ref name=":15" />{{Citazione|Pallida [[Morte personificata|Morte]], el tuo furor non temo, {{!}} ché se a felice già foste acra e bruna, {{!}} sareste or dolce a me in tal caso extremo. {{!}} Più de uom che viva qua sotto a la luna {{!}} felice fui, or son sopra la terra {{!}} remasto per exemplo di [[Fortuna]]. {{!}} Tu sola trar mi puoi di tanta guerra: {{!}} vien, sorda! Perché 'l tuo soccorso invoco, {{!}} il colpo acro e funesto in me disserra. {{!}} E tu beato saxo e dolce loco, {{!}} dove reposte son quelle caste ossa {{!}} che m'han per lacrimar già fatto roco, {{!}} perché a mia carne lacerata e scossa {{!}} non concedette per extrema pace {{!}} ivi propinqua la sua eterna fossa? {{!}} Dura terra, orbo mondo e ciel rapace, {{!}} fra voi diviso avete un tanto bene, {{!}} perché d'un loco sol non fu capace [...]|Triumphi (I, 43-60)}}[[File:Ludovico il Moro and Beatrice d'Este.jpg|miniatura|323x323px|[[Cenotafio di Ludovico il Moro e Beatrice d'Este]], stampa antica.]]
{{Citazione|E però spinto da un furore immenso, {{!}} a gridar cominciai con tal furia {{!}} ch'ancora abruscio e tremo quando el penso: {{!}} « O de mortali detestanda iniuria! {{!}} che l'om col proprio pianto quando nasce {{!}} subito ogni miseria e mal s'auguria! {{!}} Al mondo nudo vien, poi delle fasce {{!}} per conservar i membri è avolto e cinto, {{!}} sol con l'altrui mezanità si pasce. {{!}} Gli altri animal tutti hanno el suo d'istinto: {{!}} chi al corso, chi al natar, chi al volo è pronto {{!}} come più e meno da natura è spinto; {{!}} lui in questa valle de miseria gionto, {{!}} inerme e vinto iace mansueto, {{!}} quasi simili ad om che sia defunto. {{!}} Non è suo proprio istinto altro che 'l fleto, {{!}} sol tra tanti animali a pianger nato: {{!}} ah, de nostra natura impio decreto! [...] perché col tempo cresce la malizia, {{!}} la superbia, luxuria, ira e perfidia, {{!}} la ceca ambizione e l'avarizia. {{!}} Gli è ricco: orsù ognun li porta invidia; {{!}} gli è sano: infirmità lo expecta al varco; {{!}} gli è giovene: vechieza ognor lo insidia; {{!}} gli è virtuoso e d'ogni bontà carco: {{!}} sì ben, ma povertà li fa tal guerra {{!}} ch'oltra el dovere è nel suo viver parco. {{!}} Nessun felice mai se trovò in terra; {{!}} dunque l'umana specie è sempre in doglia; {{!}} se nulla è in ciel, chi more è for de guerra.|Triumphi (II, 121-138)}}
Nel mezzo di essa interviene la stessa Beatrice, che gli appare per consolarlo e per trarlo fuori dal suo "passato errore":<ref name=":0">{{Cita libro|autore=Vincenzo Calmeta|curatore=Rossella Guberti|titolo=Triumphi|pp=IX-XXIII}}</ref><ref name=":15" />
{{Citazione|Misero, perché vai tu consumando {{!}} in pianto amaro i fugitivi giorni, {{!}} la morte ad ora ad ora desiando? {{!}} Deh, non turbare i mei dolci sogiorni! {{!}} Morta non son, ma gionta a meglior vita {{!}} lassando el mondo e soi fallaci scorni. {{!}} E s'io fui sciolta nella età fiorita {{!}} con tuo dolor dal bel carcer terreno, {{!}} tanto più fu felice la partíta, {{!}} ch'è bel morir mentre è el viver sereno.|Vincenzo Calmeta, Triumphi (III, 55-64)}}Il poeta, commosso e sbigottito, le
{{Citazione|''Alma mia diva e mio terrestre sole'', {{!}} parlando e lacrimando alor dissi io, {{!}} ''o quanto el viver senza te mi dole! {{!}} Ché, te perdendo, persi ogni desio, {{!}} tua morte me interruppe ogni speranza, {{!}} né so più dove fermare el pensier mio'' [...]|Triumphi (III, 79-84)}}
▲Tema portante dell'opera è l'amore per la donna che, sul solco del [[Dolce stil novo|Dolce Stil Novo]], conduce il poeta alla salvezza. Anche in questo caso, secondo l'interpretazione di Rossella Guberti, si tratta di un amore puramente spirituale e non fisico, secondo una visione filosofico-religiosa: Beatrice è guida per gli smarriti sensi del poeta.<ref>R. Ruberti, edizione critica dei "Triumphi", p. XXXIV.</ref>
=== Ritorno a Roma ===
A detta dello stesso Vincenzo il poema fu composto non a Milano bensì a Roma; così infatti egli scrive nel finale della prefazione: "adonqua io, che in lei ogni mia speranza aveva collocata e mia servitù fin a morte aveva dedicata, e trovandome in Roma per alcune mie occurrenzie e ignaro de tanto caso, poi che me fu sua repentina e immatura morte annunciata, così amaramente incominciai a deplorare".<ref>{{Cita libro|autore=Vincenzo Calmeta|curatore=Rossella Guberti|titolo=Triumphi|p=4}}</ref>
Non è affatto chiaro quando di preciso si fosse recato a Roma né perché, motivazione che egli volutamente tralascia di spiegare. Simone Albonico si mostra tuttavia stupito dal fatto che Vincenzo si fosse allontanato dalla corte proprio un momento tanto delicato nella vita della propria signora, quale la sua terza gravidanza, il cui esito infausto ne causò appunto la morte.<ref>''Ludovicus dux. L'immagine del potere'', S. Albonico, Appunti su Ludovico il Moro, 1995, p. 69.</ref>
=== Commissario di Cesare Borgia ===
Forse aveva già in quel tempo conosciuto il duca [[Cesare Borgia]], ma non entrò subito al suo servizio, si suppone infatti un suo momentaneo ritorno a Milano, perché egli stesso nella sua "Vita di Serafino Aquilano", traendo un'ulteriore occasione per ricordare la propria duchessa, scrisse che a causa della di lei morte "ogni cosa andò in ruina e precipizio, e de lieto Paradiso in tenebroso inferno la corte se converse, onde ciascuno virtuoso a prendere altro camino fu astretto, et io tra li altri, vedendo tanta mia alta speranza interrotta, sopragiontomi anchora altra nova occasione, a Roma me redussi".<ref name=":3">''Vita del facondo pieta vulgare Seraphino Aquilano'', in ''Le rime di Serafino de'Ciminelli dall'Aquila'', a cura di Maio Menghini, Romagnoli-Dall'Aqua, Bologna, 1894, vol I, p. 12.</ref>[[File:Certosa pietra tombale di Beatrice d’Este xilografia di Barberis.jpg|miniatura|301x301px|[[Certosa di Pavia]]: la pietra tombale di [[Beatrice d'Este|Beatrice d’Este]] in una [[xilografia]] di [[Giuseppe Barberis]].]]Nel maggio-settembre 1498 è infatti segnalato a Mantova presso i Gonzaga. Circa in quel tempo partì per la Francia al seguito di Cesare Borgia, come suo segretario, e tornò in Italia con le truppe francesi tra l'agosto e il settembre 1499. I progetti politici del Borgia gli risultavano però spiacevoli, e da ciò si comprende il motivo del suo intervento presso [[Luigi XII di Francia|Luigi XII]] in favore di Caterina Sforza. Vincenzo si mostrava sinceramente preoccupato per la sorte della donna e le scriveva consigli su come impedire il piano papale, promettendo anche di accorrere in suo aiuto. Egli seguì comunque Cesare nella sua impresa di Forlì e poi a Roma. Qui fu testimone del primo tentato assassinio di [[Alfonso d'Aragona (1481-1500)|Alfonso di Bisceglie]], di cui diede notizia alla duchessa Elisabetta Gonzaga.<ref name=":4" />
Mancano altre sue notizie fino al 1502, ma si presume che avesse continuato a seguire il Borgia in tutti i suoi spostamenti e quindi in [[Romagna]] e a [[Napoli]]. Sicuramente si trovava a Imola nell'ottobre-dicembre 1502. Probabilmente assistette anche alla drammatica [[strage di Senigallia]]. Nel gennaio 1503 il Borgia lo inviò come [[commissario]] a [[Fermo (Italia)|Fermo]], ma tenne quel posto solo per pochi mesi, poiché già nel maggio fu sostituito da Giacomo Nardino. Vincenzo dovette cogliere l'occasione per separarsi dal servizio del Borgia, la cui stella era oramai al declino, e dei cui favori non godeva più come in passato. Già nel settembre 1503 lo si ritrova al servizio di Ercole Pio Carpi
===
Al principio del 1504 si stabilì alla corte di [[Urbino]], dove rimase, pare, quasi fino alla morte. Nel marzo 1507 figura nella compagnia dei gentiluomini del prefetto di Roma [[Francesco Maria I della Rovere|Francesco Maria della Rovere]]. Nonostante proseguisse la sua corrispondenza con [[Isabella d'Este]], alla quale nel 1504 mandò un'epistola sulle elegie volgari,<ref name=":4" /> egli non poté mai tornare a Mantova per via dell'odio feroce che gli portava il marchese [[Francesco II Gonzaga|Francesco Gonzaga]], non si capisce per quale ragione. Quest'ultimo pregò la sorella [[Elisabetta Gonzaga|Elisabetta]] di non nominargli più Vincenzo neppure per sbaglio, dicendo: "io non potria sentire né ricever il magior dispiacer che vedermi ricerchato [raccomandato] da V. S. [Vostra Signoria] in favore de Vincentio Calmetta, quale non sento nominare senza mio gran disturbo et molto fastidio, per causa ho de non volerli bene [...] et sij certa che alla sua prima [lettera] non feci resposta solum per l'odio [che] porto ad esso Vincentio".<ref name=":2">[https://www.google.it/books/edition/Mantova_e_Urbino/ezzczUKkbx8C?hl=it&gbpv=0 Mantova e Urbino: Isabella d'Este et Elisabetta Gonzaga nelle relazioni famigliari e nelle vicende politiche: Narrazione storica documentata], Alessandro Luzio, 1893, pp. 100-102 e 290.</ref> Egli trafficò in modo tale da fargli perdere i favori del fratello cardinale [[Sigismondo Gonzaga]] che, pur desiderando tenerlo a proprio servizio, fu costretto a rinunciarvi. A questi infatti Francesco scriveva, come già per la sorella, un aspro rimprovero: "Circa il Calmetta non posso già far che non me resenti [risenta] alquanto, perché una persona tanto odiata da noi, quanto è il Calmetta, sia accarezata et ben vista da quelloro [coloro] che mi doverieno [dovrebbero] amare, et odiar quelli che odio e non tenirne tanto conto".<ref name=":2" />
Secondo [[Alessandro Luzio]], già prima del 1502 Vincenzo si pavoneggiava del favore accordatogli da [[Isabella d'Este]], moglie di Francesco. Secondo Stephen Kolsky, l'odio del marchese non sarebbe derivato da gelosia ma, al contrario, da una difesa della moglie e della sorella, le quali sarebbero state infamate da Vincenzo: in seguito alle feste ferraresi per le nozze di [[Lucrezia Borgia]] con [[Alfonso I d'Este|Alfonso d'Este]] fu diffusa una lettera, proveniente dall'Accademia romana e diretta proprio alle due donne, in cui la marchesa Isabella era descritta come una mangiona, avida e sciatta che, pur non essendo più tanto giovane, si conciava in modo tale da volere sembrare
Certamente da ciò si comprende "quanto interesse doveva portargli Elisabetta",<ref name=":2" /> se per causa sua correva persino il pericolo di entrare in contrasto con l'amato fratello, come in effetti accadde.<ref>Archivio ..., Volume 16, Società romana di storia patria, 1893, p. 528.</ref> Difatti "la relazione del Calmeta con Elisabetta durò inalterata per anni parecchi", fino alla sua morte.<ref name=":2" /> Anche Pietro Bembo, che all'epoca stimava molto Vincenzo (essendo stato da lui lodato in alcune sue opere) nel gennaio 1507 scriveva da Urbino al fratello Bartolomeo che Vincenzo stavasi recando a Venezia per stampare alcune sue opere, e perciò gli raccomandava di onorarlo convenientemente ospitandolo in casa loro, e precisava che "egli [Vincenzo] è qui già buon tempo stato con Mad. Duchessa [Elisabetta], e ha onore assai da lei ricevuto".<ref>La Letteratura italiana: Storia e testi, Volume 25, Edizione 1, Riccardo Ricciardi Editore, 1951, p. 389.</ref>
In questo periodo Vincenzo si dedicò intensamente all'approfondimento dello studio sulla [[lingua cortigiana]] elaborando la sua [[teoria]] e dimostrò, nei ''"Nove libri della volgare poesia"'', oggi andati perduti, nelle "Annotazioni e iudìci" e nella nota "Vita di Serafino Aquilano" pubblicata a [[Bologna]] nel [[1504]], di essere uno tra i più validi critici del tempo. Questi libri gli causarono l'avversione e l'inimicizia di [[Pietro Bembo]], col quale era inizialmente in buoni rapporti. Morì infine a Roma nell'agosto del 1508.<ref name=":2" />▼
In una scena narrata nel ''[[Il Cortegiano|Cortegiano]]'' di [[Baldassarre Castiglione]] (ambientato nel 1507 ma scritto diversi anni dopo) "l'irreprensibile Elisabetta, che ha scelto di essere ''vidua'' [vedova] ''in vita'' dell'impotente Guidobaldo" si mostra in pubblico con una lettera S sulla fronte, sul significato della quale i suoi cortigiani si interrogano: "forse cela nell'emblema che le orna la fronte un desiderio segreto relativo alla tanto agognata, impossibile maternità. O forse un segreto vincolo d'amore". Nell'opera è detto che [[Bernardo Accolti|Unico Aretino]] risponde alla sfida con la composizione estemporanea di un sonetto, ''Per segno del mio amor nel fronte porto'', il quale indica appunto il significato principalmente amoroso di quella S sulla fronte, che varia poi in base alle diverse situazioni.<ref>La rivista di engramma 2010 82-86, Edizioni Engramma, 2019, Raccolta dei numeri di 'La Rivista di Engramma' (www.engramma.it) 82-86 dell'anno 2010, pp. 347-348.</ref> In verità tale sonetto, attribuito da Castiglione all'Aretino, uscì a stampa già nel 1502 sotto il nome di Vincenzo Calmeta.<ref>Il Libro di poesia dal copista al tipografo: Ferrara, 29-31 maggio 1987, Edizioni Panini, 1989, p. 166; Forme e vicende: per Giovanni Pozzi, Ottavio Besomi, Antenore, 1988, p. 144.</ref><blockquote>
== Giudizi ==▼
"Tratto spiccato della sua vita riesce il grande favore in cui lo ebbero le maggiori donne del tempo: Beatrice, Elisabetta, e insieme con esse anche la sorella dell'una e cognata dell'altra, Isabella Gonzaga; nobili sembianze, frammezzo alle quali produce effetto singolare il veder sporgere il truce suo viso Cesare Borgia".<ref name=":13">Scritti di filologia e linguistica italiana e romanza, Volume 2, Pio Rajna, Salerno, 1998, p. 921.</ref>
Il Calmeta passò alla storia come "un cortigiano caro alle donne, superficiale e ciarlatanesco: un rimatore d'occasione, che poteva allora godere una certa fama, ma per cui, passata quell'età, quasi non bastarono più le parole di disprezzo".<ref name=":6" /> ''Poetuncolo pretenzioso'' lo definì sdegnosamente lo storico [[Alessandro Luzio]].<ref name=":2" /> In verità egli rivela un animo profondo, un occhio indagatore della società e della crisi del suo tempo: "tutta la sua critica [...] punta sulla rivelazione dei vizi, delle esagerazioni, delle frivolità, delle debolezze del suo tempo, dei vivi. [...] giudica e manda alcune delle più cospicue figure dell'epoca sua senza riguardo per le persone o per le simulate riserve della società cortigiana".<ref name=":6">{{Cita|Grayson|L'uomo di lettere e l'uomo di mondo: pp. XLIII-LXVIII}}.</ref>▼
</blockquote>
=== Inimicizia con Pietro Bembo ===
▲In questo periodo Vincenzo si dedicò intensamente all'approfondimento dello studio sulla [[lingua cortigiana]] elaborando la sua [[teoria]] e dimostrò, nei ''"Nove libri della volgare poesia"'', oggi andati perduti, nelle "Annotazioni e iudìci" e nella nota "Vita di Serafino Aquilano" pubblicata a [[Bologna]] nel [[1504]], di essere uno tra i più validi critici del tempo. Questi libri gli causarono l'avversione e l'inimicizia di [[Pietro Bembo]], col quale era inizialmente in buoni rapporti, e che lo denigrò nelle sue ''[[Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua|Prose]]''.
[[Lodovico Castelvetro|Ludovico Castelvetro]], che conosceva bene Vincenzo poiché aveva letto le sue opere, affermò che Pietro Bembo nelle ''Prose'' aveva messo in bocca a Vincenzo una opinione sulla lingua volgare alla diversa da quella che egli aveva espresso nei suoi libri sulla volgar poesia, cioè che Bembo avesse commesso una falsificazione ai suoi danni, sebbene anche qui sia impossibile giudicare la fondatezza dell'accusa<ref name=":14" />
Vincenzo morì infine a Roma nell'agosto del 1508.<ref name=":2" />
== Aspetto e personalità ==
Nulla ci è noto dell'aspetto fisico di Vincenzo. Francesco Oriolo lo definisce "cruccioso in vista", cioè d'aspetto stizzoso.<ref name=":2" /> Il suo temperamento iracondo, per certi aspetti arrogante, trova conferma anche all'interno delle ''[[Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua|Prose]]'' di [[Pietro Bembo]], pur suo nemico: qui Vincenzo è descritto mentre, in seguito a una vivace discussione letteraria, "tutto cruccioso e caldo [adirato]" si separa dalla compagnia.<ref>Biblioteca dell'"Archivum romanicum.": Storia, letteratura, paleografia, Volumi 215-216, L. S. Olschki, 1988, p. 76.</ref> In un compimento che porta il suo nome, ma d'attribuzione incerta, egli si descrive come un capitano d'armate, che per amore non si dedica a balli e giochi, bensì a giostre e a tornei, e che anche in battaglia trae coraggio dal pensiero della donna amata.<ref name=":12" />
Fu senz'altro un'anima inquieta, la cui costante malinconia molto si riflette nelle sue poesie. Vincenzo stesso dichiarava il proprio proposito di mantenersi a ogni costo fedele alla virtù, ma il suo animo inclinava talvolta alla superbia. Nell'opera di [[Baldassarre Castiglione]], il [[Il Cortegiano|''Cortegiano'']], alla dichiarazione di [[Federigo Fregoso|Federico Fregoso]] che la miglior via di conseguire i favori sia il meritarli, Vincenzo obietta che l'esperienza insegna il contrario, ossia che solo i presuntuosi sono favoriti dai principi, non i modesti, e cita a esempi gli spagnoli e i francesi. Per presunzione egli intende tuttavia la sfrontatezza, cioè l'ardire di domandare grazie ai principi e di farsi notare, senza attendere di essere spontaneamente favoriti da loro in virtù dei propri buoni meriti, cosa che a parer suo capita assai di rado.<ref name=":6" />
Nelle proprie prose, egli fa in verità professione di modestia, quando chiede al lettore se non ha forse ragione a sdegnarsi contro certi rozzi cortigiani o "vane donne, o d'altri temerari ignoranti, che per sapere concordare due desinenze, o uno [[Strambotto|stramotto]] nel liuto" si credono allo stesso livello di Dante e Petrarca, mentre egli "provetto [poveretto] di età di quaranta anni, e che tutto il mio tempo in questa professione ho dispensato, non mi pare ancora d'essere giunto alla millesima parte di quello che io conosco", cioè all'eccellenza dei grandi luminari italiani, quali Dante e Petrarca. "E se costoro [i sedicenti poeti della sua epoca] dicono a me ch'io sono presontuoso, risponderò esser molto più prosuntuosi loro, che hanno ardire di sindacar me, che tutto il mondo ho preso a bilanciare".<ref name=":8" />
▲== Giudizi ==
▲Il Calmeta passò alla storia come "un cortigiano caro alle donne, superficiale e ciarlatanesco: un rimatore d'occasione, che poteva allora godere una certa fama, ma per cui, passata quell'età, quasi non bastarono più le parole di disprezzo".<ref name=":6" /> ''Poetuncolo pretenzioso'' lo definì sdegnosamente lo storico [[Alessandro Luzio]].<ref name=":2" /> In verità egli rivela un animo profondo, un occhio indagatore della società e della crisi del suo tempo: "tutta la sua critica [...] punta sulla rivelazione dei vizi, delle esagerazioni, delle frivolità, delle debolezze del suo tempo, dei vivi. [...] giudica e manda alcune delle più cospicue figure dell'epoca sua senza riguardo per le persone o per le simulate riserve della società cortigiana".<ref name=":6">{{Cita|Grayson|L'uomo di lettere e l'uomo di mondo: pp. XLIII-LXVIII}}.</ref>
D'altra parte, nella critica dell'epoca, i versi di Vincenzo erano generalmente molto stimati ed egli ritenuto poeta eccelso: [[Cassio da Narni (poeta)|Cassio da Narni]] dice "coronato era quivi anche il Calmetta | e il suo stil dolce a tutti dilettava". [[Galeotto del Carretto]] lo chiama "Calmeta egreggio, fra tutti i bon poeti laureati"; il [[Burchiello (poeta)|Burchiello]] "facondo Calmetta" e "Il Calmetta con sue rime pronte". [[Giovanni Filoteo Achillini]] lo nomina, in alcuni suoi versi, "[...] el Calmeta eccellente, che 'l mal scorto Filefo assai disturba".<ref name=":5">{{Cita|Grayson|Le opere: pp. XXXI-XLII}}.</ref> [[Gaspare Ambrogio Visconti|Gaspare Visconti]] si rammaricava con un amico di non aver ricevuto le poesie di Vincenzo, come sperava, dicendogli: "più me ne dole per esser stato privo di quella dolceza che si suole sempre gustare nel suo delicatissimo stile".<ref>Gaspare Visconti, [[Rodolfo Renier]], Tip. Bortolotti di Giuseppe Prato, 1886, p. 104.</ref>
Fra i detrattori, invece, [[Lelio Manfredi]] lo dice nemico del Burchiello e "pien di fumo e fasto" ("né meglio potrebb'essere definito questo gonfianuvole" commenta sprezzantemente il curatore [[Francesco Flamini]]), e forse a lui si riferiva un verso del [[Antonio Cammelli|Pistoia]], che recita: "Vincenzo ha uno stil da sé solo apprezzato",<ref>Nozze Cian-Sappa Flandinet, 23 ottobre 1893, Vittorio Cian, Orazio Bacci, Istituto italiano d'arti grafiche, 1894, pp. 290 e 297.</ref> mentre il poeta Filippo Oriolo così ce ne lasciò memoria:<ref name=":2" />{{Citazione|V'era il Calmeta, cruccioso in vista,{{!}} ch'esser dicea la vulgare poesia{{!}} nata da lingua cortigiana mista.|Filippo Oriolo, Cianello, Decennio, p. 229.}}I suoi scritti, come scrisse Cecil Grayson, "rivelano una personalità robusta e vigorosa, preoccupata [...] di molti aspetti della sua età, oltre quello della letteratura cortigiana".<ref name=":4" /> La sua persona diede origine a un verbo, coniato da Pietro Bembo: calmeteggiare, col significato di "esaltare sé stesso", o altrimenti di "fare il ciarlatano, specie in materia di lingua".<ref name=":4" />
== Opere ==
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che mai via ho d'uscir fuor di martiro. [...]|Capitulo di Vincenzo Calmeta, in Compendio de cose nove etc}}
===
Numerose rime, sonetti, [[strambotto|strambotti]], epistole e capitoli metrici<ref name=":5" /> sono tramandati dai manoscritti e dalle opere a stampa sotto il nome di Vincenzo Calmeta, Vincenzo Collo (Colli), indicato più semplicemente come Calmetta (Calmete) o Vincentius (Vincentii). Benché le attribuzioni siano sempre incerte, esse lo sono specialmente nel caso in cui vi compare il solo nome, che può riferirsi anche al contemporaneo poeta Vincenzo Pappacorda. La maggior fama del Calmeta, tuttavia, induce a credere che solo a lui potessero riferirsi senza necessità di indicare il cognome.<ref name=":12" /><ref name=":11" /> Si aggiungono tuttavia le incertezze dovute alle frequenti confusioni autoriali fra Vincenzo e il suo amico Serafino Aquilano, anch'egli indicato col solo nome Seraphinii, e con altri poeti del medesimo circolo.<ref name=":12" /><ref name=":11" />
=== Opere letterarie ===
==== sopravvissute ====
# ''Compendio dell'Ars Amandi'': [[volgarizzamento]] in terzine dell'opera di [[Publio Ovidio Nasone|Ovidio]] composto fra il 1494 e il 1497, quasi controvoglia, su richiesta di [[Ludovico il Moro]]. In esso Vincenzo sembra voler emulare il Dante nella [[Vita nuova|Vita Nova]] quando annuncia l'intenzione di comporre la Divina Commedia per l'amata, in quanto scrive: "Altrove mostrar spero l'intelletto | alzando a volo una immortal fenice | che sarà al basso stil mio alto suggetto".<ref name=":5" /> Si tratta sicuramente della duchessa Beatrice.<ref name=":0" />
# [[Triumphi di Vincenzo Calmeta|''Triumphi'']]: poemetto in memoria di [[Beatrice d'Este (1268-1334)|Beatrice d'Este]];<ref name=":5" />
# [https://play.google.com/books/reader?id=hjvVEHiosh4C&pg=GBS.PP34&hl=it&printsec=frontcover ''Vita di Serafino Aquilano''], composta nel 1504:<ref name=":5" /> breve scritto biografico in memoria del caro amico e poeta vagabondo [[Serafino de' Cimminelli|Serafino Aquilano]], nel quale ancora una volta coglie occasione per ricordare il tempo perduto ed elogiare la defunta duchessa Beatrice, nonché il fu re [[Ferdinando II di Napoli|Ferrandino]] ed [[Elisabetta Gonzaga]];
# ''Annotazioni e iudìci;''<ref name=":5" />
▲# Rime, conosciu<nowiki/>te da varie edizioni:<ref name=":5" /> alcuni [[sonetto|sonetti]] amorosi e un lungo malinconico componimento intitolato ''Capitulo'', incentrato sui temi della Fortuna e della sventura umana, sicuramente posteriore alla morte della duchessa, contenuti in ''[https://www.google.it/books/edition/Compendio_de_cose_noue_de_Vicenzo_Calmet/MbgOBBhXK2YC?hl=it&gbpv=0 Compendio de cose noue de Vicenzo Calmeta & altri auctori]'', stampato a [[Venezia]] nel 1508. Gli vengono anche attribuiti alcuni [[strambotto|strambotti]].
# ''S'egli è lecit''<nowiki/>''o giudicare i vivi o no'': difesa del poeta contro coloro che lo accusano di giudicare con presunzione i viventi. "E se costoro dicono a me ch'io sono presontuoso, risponderò esser molto più prosuntuosi loro, che hanno ardire di sindacar me, che tutto il mondo ho preso a bilanciare".<ref name=":8">{{Cita|Grayson|pp. 3-6}}.</ref>
# ''S'egli è possi''<nowiki/>''bile essere buon poeta volgare senza aver lettere latine'': la poesia è una dote innata, infusa da "divino furore", che non dipende dunque dall'ingegno dell'uomo, ma che deve essere comunque aiutata dallo studio e dalle lettere. "Non nego che al poeta non sia necessario prima portarsi la vena dal ventre della madre [...] ma dico, se non è aiutato dall'accidente, sarà come una veste di broccato ricchissimo fatta da inetto sartore, nella quale più sarà biasimato l'artificio che laudata la materia". Dunque chi vuol essere un elegante poeta non deve essere del tutto ignaro della lingua latina. "E però voi altri che avete gl'ingegni elevati, e che siate desiderosi nella poetica facultà far qualche frutto, vogliate nelle dottrine insudare, fuggendo la bestial persuasione di alcuni ignoranti, i quali per saper accordar quattro rime insieme, vestiti d'un bestial fumo, come hanno le loro inezie a qualche barbaro o feminella recitato, la ignoranza loro con la eccellenza del Petrarca non permuteriano".<ref>{{Cita|Grayson|pp. 7-11}}.</ref>
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# ''Della ostentaz''<nowiki/>''ione'';<ref>{{Cita|Grayson|pp. 37-46}}.</ref>
# ''Littera di Vin''<nowiki/>''cenzo Calmeta scritta all'Illustrissima Madama Marchesa nostra'': epistola sui capitoli, epistole ed elegie indirizzata a [[Isabella d'Este]];<ref name=":5" />
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#''Nove libri del''<nowiki/>''la volgare poesia'': dedicati a Elisabetta Gonzaga,<ref name=":13" /> furono l'esposizione della sua teoria sulla lingua;<ref name=":5" /> ▼
▲#''Nove libri del''<nowiki/>''la volgare poesia'': esposizione della sua teoria sulla lingua;<ref name=":5" />
#''Amoroso Pelleg''<nowiki/>''rinaggio'': [[prosimetro]] in tre libri, mai terminato;<ref name=":5" />
#La ''[[epitome]] del''<nowiki/>''la inclinazione dello Imperio infino al tempo di Sisto IIII sopra la varietà d'Italia, dove poi incomincia istoria della varietà della fortuna de' tempo suoi in XII libri distinta'': opera storica in dodici libri che copriva gli anni dal 1453, [[Assedio di Costantinopoli (1453)|conquista di Costantinopoli]], al 1502, con la [[Guerra d'Italia del 1499-1504|discesa in Italia di Luigi XII]], narrando tutti i principali avvenimenti e i loro protagonisti. Il dodicesimo libro costituiva una sorta di rassegna delle donne più famose d'Italia, fra cui [[Bona di Savoia]], [[Eleonora d'Aragona (1450-1493)|Eleonora d'Aragona]], [[Isabella d'Aragona (1470-1524)|Isabella d'Aragona]], [[Beatrice d'Este]], [[Isabella d'Este]], [[Elisabetta Gonzaga]], [[Lucrezia Borgia]], [[Caterina Sforza]], [[Sancia d'Aragona]] e molte altre. Perdita irrimediabile per la nostra conoscenza del periodo storico.<ref name=":5" /><ref>{{Cita|Grayson|pp. 118-122}}.</ref>
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* {{Cita libro|autore=Pietro Taravacci e Francesco Zambon|titolo=La lettera in versi
Canoni, variabili, funzioni|url=https://www.academia.edu/86884575/La_lettera_in_versi_Canoni_variabili_funzioni}}
* {{Cita libro|curatore=Filippo Bognini|titolo=Meminisse iuvat, Studi in memoria di Violetta de Angelis|url=https://air.unimi.it/retrieve/handle/2434/218806/274216/06_BERRA%281%29.pdf|anno=2012|editore=Edizioni ETS|capitolo=Lettura dei “Triumphi” del Calmeta, Claudia Berra|cid=Berra}}
== Voci correlate ==
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== Collegamenti esterni ==
* {{Collegamenti esterni}}
* [https://web.archive.org/web/20080624103316/http://www.italica.rai.it/rinascimento/parole_chiave/schede/calmeta_vincenzo.htm Approfondimento su Italica, sito edito da Rai International]
{{Controllo di autorità}}
{{portale|biografie|letteratura}}
[[Categoria:Beatrice d'Este]]
[[Categoria:Letterati alla corte degli Sforza|Calmeta]]
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