Vincenzo Calmeta: differenze tra le versioni
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|Attività2 = critico letterario
|Nazionalità = italiano
|FineIncipit = Fu [[scrittore]], [[poeta]] e [[critico letterario]] al servizio di vari signori, nel corso dei suoi continui e inquieti spostamenti per l'Italia e la Francia. Dapprima [[segretario (ufficio)|segretario]] della duchessa di Milano [[Beatrice d'Este]], che celebrò nei ''[[Triumphi (Vincenzo Calmeta)|Triumphi]]'', dappoi commissario di [[Cesare Borgia]], fu poeta favorito anche della duchessa d'Urbino [[Elisabetta Gonzaga]], alla quale dedicò i ''Nove libri della volgar poesia'' (oggi perduti), ma subì la persecuzione del fratello di lei, il marchese [[Francesco II Gonzaga]], che gli portò un odio feroce▼
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== Biografia ==
La vita di Vincenzo rimane in larga parte oscura, ed è possibile ricostruirla solo per brevi accenni e per ciò che egli riferisce di sé all'interno delle proprie opere e lettere sopravvissute.<ref name=":4">{{Cita|Grayson|La vita del Calmeta: pp. XIII-XXX}}.</ref>
=== Origini ===
Il copista di un codice contenente alcune sue opere ne fornisce alcuni particolari biografici, sulla base di ciò che Vincenzo stesso aveva scritto nella propria ''Amorosa Peregrinazione'', opera perduta: i suoi antenati furono [[Insubria|insubri]] ed egli apparteneva a una nobile famiglia [[Vigevano|vigevanese]]. Il padre era un gran viaggiatore e, capitato a [[Chio (isola)|Chio]], allora sotto la giurisdizione genovese, vi aveva ottenuto il compito dell'amministrazione della giustizia. Qui aveva sposato una nobildonna del luogo,
Vincenzo dichiara, nelle prose scritte dopo il 1500, di avere quarant'anni, perciò la sua data di nascita è fissata attorno al 1460 o poco dopo. Né le prose sono infatti databili prima del 1500, poiché contengono numerosi riferimenti alla caduta di Ludovico il Moro e al proprio servizio presso Cesare Borgia, di cui Vincenzo parla come di fatti ormai passati.<ref name=":4" /><ref name=":7" />
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Alcuni numerosi sonetti attribuiti, con maggiore o minore certezza, al Calmeta, sono stati rinvenuti in diversi manoscritti, e datati approssimativamente agli ultimi anni del XV secolo,<ref name=":11">Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei, Classe di scienze morali, storiche e filologiche, L'Academia, 1892, pp. 375-377.</ref> altri ai primi del secolo successivo.<ref name=":12">Alcuni componimenti del Calmeta e un codice cinquecentesco poco noto, Franca Ageno, Vol. 13, No. 3 (Luglio-Settembre 1961), pp. 295-315.</ref> I sonetti amorosi parlano tutti di un amore infelice, non corrisposto e non realizzabile. Così per esempio il VII contenuto nel manoscritto Par. It. 1543, dove egli lamenta di non poter sfogare "el martir mio tanto atroce", col rivelare a tutti il proprio desiderio, poiché sarebbe una grave minaccia all'[[onore]] della dedicataria (mantenuta anonima), ragione per cui aveva scelto di soffrire e di tacere il proprio amore: "cussì l'un via a me, l'altra ad te noce, unde pel meglio mi consumo e taccio, e cerco cun mio damno conservarte, perché in te sta de me la meglior parte".<ref name=":12" /> Un altro parla della bellezza e della crudeltà dell'amata, che non lo corrisponde.<ref name=":12" /> In una epistola metrica (di attribuzione anch'essa incerta) parla invece di un amore finalmente corrisposto: un "licito amor" di cui "l'oneste accoglienze siano il frutto", ma precisa che si tratta di una donna di bassa condizione sociale, che infatti non può sposare.<ref name=":12" />
Quanto ai ''[[Triumphi di Vincenzo Calmeta|Triumphi]]'', essi iniziano col poeta (Vincenzo) che piange la prematura morte della "sua cara compagna", la duchessa Beatrice, e si esprime addirittura con queste struggenti parole:<ref name=":15">Rassegna critica della letteratura italiana, Volumi 1-2, 1896, E. Percopo, pp. 146-148.</ref>
{{Citazione|Tolto m'ha morte el ben,<ref>Da notare che il bene, nella lingua letteraria, significa la persona amata.{{Cita web|url=https://www.dizionario-italiano.it/dizionario-italiano.php?parola=bene|titolo=bène 1|citazione=11 per estensione letterario persona amata: l'amato bene {{!}} il mio bene {{!}}[...]}}</ref> spietata e cruda, {{!}} del qual l'avaro Ciel me fu sì largo, {{!}} lassando nostra età di gloria nuda; e però aver vorrei le luce d'[[Argo Panoptes|Argo]], {{!}} che queste doi mei fonti<ref>I due fonti sono gli occhi</ref> han perso el lume {{!}} per le lacrime amar che ognora spargo. {{!}} Io son qual cigno in sul [[Meandro (fiume)|Meandro]] fiume {{!}} che la propinqua Morte canta e plora {{!}} scotendo spesso le sue bianche piume;<ref>Secondo il mito il cigno, già caro ad Apollo per la soavità del canto, canta ancor più soavemente quando si sente vicino alla morte. Il Meandro è un fiume della Lidia nelle cui acque vivevano molti cigni.</ref> {{!}} over qual [[Filomela|Filomena]] in su l'aurora {{!}} ch'empie di meste note la campagna {{!}} perché l'antiqua offesa ancor l'acora; {{!}} over qual tortorella che se lagna {{!}} in turbida acqua o in arbor senza fronde {{!}} poi che ha perduta sua cara compagna.<ref>Della tortora si dice che "non fa mai fallo al suo compagno, e se l'uno more, l'altro osserva perpetua castità, e non si posa mai su ramo verde e non beve mai acqua chiara", essa è dunque il miglior simbolo di un amore puro, fedele ed eterno.</ref>|Triumphi (I, 10-24)}}
Egli non fa che inveire contro il crudele [[Fato]] e tessere gli elogi della defunta, che è la "chiara luce al mio scuro intellecto" e "del mio ardente cor vera fenice", e invoca addirittura la Morte affinché lo faccia morire al più presto e gli conceda di riposare accanto alle sue "caste ossa":<ref name=":15" />{{Citazione|Pallida [[Morte personificata|Morte]], el tuo furor non temo, {{!}} ché se a felice già foste acra e bruna, {{!}} sareste or dolce a me in tal caso extremo. {{!}} Più de uom che viva qua sotto a la luna {{!}} felice fui, or son sopra la terra {{!}} remasto per exemplo di [[Fortuna]]. {{!}} Tu sola trar mi puoi di tanta guerra: {{!}} vien, sorda! Perché 'l tuo soccorso invoco, {{!}} il colpo acro e funesto in me disserra. {{!}} E tu beato saxo e dolce loco, {{!}} dove reposte son quelle caste ossa {{!}} che m'han per lacrimar già fatto roco, {{!}} perché a mia carne lacerata e scossa {{!}} non concedette per extrema pace {{!}} ivi propinqua la sua eterna fossa? {{!}} Dura terra, orbo mondo e ciel rapace, {{!}} fra voi diviso avete un tanto bene, {{!}} perché d'un loco sol non fu capace [...]|Triumphi (I, 43-60)}}[[File:Ludovico il Moro and Beatrice d'Este.jpg|miniatura|323x323px|[[Cenotafio di Ludovico il Moro e Beatrice d'Este]], stampa antica.]]Passa poi a una più profonda meditazione sulla miseria umana, sulla [[Fortuna]] e su Dio:<ref name=":15" />
{{Citazione|E però spinto da un furore immenso, {{!}} a gridar cominciai con tal furia {{!}} ch'ancora abruscio e tremo quando el penso: {{!}} « O de mortali detestanda iniuria! {{!}} che l'om col proprio pianto quando nasce {{!}} subito ogni miseria e mal s'auguria! {{!}} Al mondo nudo vien, poi delle fasce {{!}} per conservar i membri è avolto e cinto, {{!}} sol con l'altrui mezanità si pasce. {{!}} Gli altri animal tutti hanno el suo d'istinto: {{!}} chi al corso, chi al natar, chi al volo è pronto {{!}} come più e meno da natura è spinto; {{!}} lui in questa valle de miseria gionto, {{!}} inerme e vinto iace mansueto, {{!}} quasi simili ad om che sia defunto. {{!}} Non è suo proprio istinto altro che 'l fleto, {{!}} sol tra tanti animali a pianger nato: {{!}} ah, de nostra natura impio decreto! [...] perché col tempo cresce la malizia, {{!}} la superbia, luxuria, ira e perfidia, {{!}} la ceca ambizione e l'avarizia. {{!}} Gli è ricco: orsù ognun li porta invidia; {{!}} gli è sano: infirmità lo expecta al varco; {{!}} gli è giovene: vechieza ognor lo insidia; {{!}} gli è virtuoso e d'ogni bontà carco: {{!}} sì ben, ma povertà li fa tal guerra {{!}} ch'oltra el dovere è nel suo viver parco. {{!}} Nessun felice mai se trovò in terra; {{!}} dunque l'umana specie è sempre in doglia; {{!}} se nulla è in ciel, chi more è for de guerra.|Triumphi (II, 121-138)}}
Nel mezzo di essa interviene la stessa Beatrice, che gli appare per consolarlo e per trarlo fuori dal suo "passato errore":<ref name=":0">{{Cita libro|autore=Vincenzo Calmeta|curatore=Rossella Guberti|titolo=Triumphi|pp=IX-XXIII}}</ref><ref name=":15" />
{{Citazione|Misero, perché vai tu consumando {{!}} in pianto amaro i fugitivi giorni, {{!}} la morte ad ora ad ora desiando? {{!}} Deh, non turbare i mei dolci sogiorni! {{!}} Morta non son, ma gionta a meglior vita {{!}} lassando el mondo e soi fallaci scorni. {{!}} E s'io fui sciolta nella età fiorita {{!}} con tuo dolor dal bel carcer terreno, {{!}} tanto più fu felice la partíta, {{!}} ch'è bel morir mentre è el viver sereno.|Vincenzo Calmeta, Triumphi (III, 55-64)}}Il poeta, commosso e sbigottito, le si rivolge allora con questa invocazione:<ref name=":15" />
{{Citazione|''Alma mia diva e mio terrestre sole'', {{!}} parlando e lacrimando alor dissi io, {{!}} ''o quanto el viver senza te mi dole! {{!}} Ché, te perdendo, persi ogni desio, {{!}} tua morte me interruppe ogni speranza, {{!}} né so più dove fermare el pensier mio'' [...]|Triumphi (III, 79-84)}}
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Forse aveva già in quel tempo conosciuto il duca [[Cesare Borgia]], ma non entrò subito al suo servizio, si suppone infatti un suo momentaneo ritorno a Milano, perché egli stesso nella sua "Vita di Serafino Aquilano", traendo un'ulteriore occasione per ricordare la propria duchessa, scrisse che a causa della di lei morte "ogni cosa andò in ruina e precipizio, e de lieto Paradiso in tenebroso inferno la corte se converse, onde ciascuno virtuoso a prendere altro camino fu astretto, et io tra li altri, vedendo tanta mia alta speranza interrotta, sopragiontomi anchora altra nova occasione, a Roma me redussi".<ref name=":3">''Vita del facondo pieta vulgare Seraphino Aquilano'', in ''Le rime di Serafino de'Ciminelli dall'Aquila'', a cura di Maio Menghini, Romagnoli-Dall'Aqua, Bologna, 1894, vol I, p. 12.</ref>[[File:Certosa pietra tombale di Beatrice d’Este xilografia di Barberis.jpg|miniatura|301x301px|[[Certosa di Pavia]]: la pietra tombale di [[Beatrice d'Este|Beatrice d’Este]] in una [[xilografia]] di [[Giuseppe Barberis]].]]Nel maggio-settembre 1498 è infatti segnalato a Mantova presso i Gonzaga. Circa in quel tempo partì per la Francia al seguito di Cesare Borgia, come suo segretario, e tornò in Italia con le truppe francesi tra l'agosto e il settembre 1499. I progetti politici del Borgia gli risultavano però spiacevoli, e da ciò si comprende il motivo del suo intervento presso [[Luigi XII di Francia|Luigi XII]] in favore di Caterina Sforza. Vincenzo si mostrava sinceramente preoccupato per la sorte della donna e le scriveva consigli su come impedire il piano papale, promettendo anche di accorrere in suo aiuto. Egli seguì comunque Cesare nella sua impresa di Forlì e poi a Roma. Qui fu testimone del primo tentato assassinio di [[Alfonso d'Aragona (1481-1500)|Alfonso di Bisceglie]], di cui diede notizia alla duchessa Elisabetta Gonzaga.<ref name=":4" />
Mancano altre sue notizie fino al 1502, ma si presume che avesse continuato a seguire il Borgia in tutti i suoi spostamenti e quindi in [[Romagna]] e a [[Napoli]]. Sicuramente si trovava a Imola nell'ottobre-dicembre 1502. Probabilmente assistette anche alla drammatica [[strage di Senigallia]]. Nel gennaio 1503 il Borgia lo inviò come [[commissario]] a [[Fermo (Italia)|Fermo]], ma tenne quel posto solo per pochi mesi, poiché già nel maggio fu sostituito da Giacomo Nardino. Vincenzo dovette cogliere l'occasione per separarsi dal servizio del Borgia, la cui stella era oramai al declino, e dei cui favori non godeva più come in passato. Già nel settembre 1503 lo si ritrova al servizio di Ercole Pio Carpi,<ref name=":4" /> a Ferrara, dove conobbe [[Pietro Bembo]].<ref name=":14">Un decennio della vita di M. Pietro Bembo 1521 - 1531: Appunti biografici e saggio di studi sul Bembo ; con appendice di documenti indediti, Vittorio Cian, E. Loescher, 1885, pp. 51 e seguenti.</ref>
=== Protetto di Elisabetta Gonzaga ===
Al principio del 1504 si stabilì alla corte di [[Urbino]], dove rimase, pare, quasi fino alla morte. Nel marzo 1507 figura nella compagnia dei gentiluomini del prefetto di Roma [[Francesco Maria I della Rovere|Francesco Maria della Rovere]]. Nonostante proseguisse la sua corrispondenza con [[Isabella d'Este]], alla quale nel 1504 mandò un'epistola sulle elegie volgari,<ref name=":4" /> egli non poté mai tornare a Mantova per via dell'odio feroce che gli portava il marchese [[Francesco II Gonzaga|Francesco Gonzaga]], non si capisce per quale ragione. Quest'ultimo pregò la sorella [[Elisabetta Gonzaga|Elisabetta]] di non nominargli più Vincenzo neppure per sbaglio, dicendo: "io non potria sentire né ricever il magior dispiacer che vedermi ricerchato [raccomandato] da V. S. [Vostra Signoria] in favore de Vincentio Calmetta, quale non sento nominare senza mio gran disturbo et molto fastidio, per causa ho de non volerli bene [...] et sij certa che alla sua prima [lettera] non feci resposta solum per l'odio [che] porto ad esso Vincentio".<ref name=":2">[https://www.google.it/books/edition/Mantova_e_Urbino/ezzczUKkbx8C?hl=it&gbpv=0 Mantova e Urbino: Isabella d'Este et Elisabetta Gonzaga nelle relazioni famigliari e nelle vicende politiche: Narrazione storica documentata], Alessandro Luzio, 1893, pp. 100-102 e 290.</ref> Egli trafficò in modo tale da fargli perdere i favori del fratello cardinale [[Sigismondo Gonzaga]] che, pur desiderando tenerlo a proprio servizio, fu costretto a rinunciarvi. A questi infatti Francesco scriveva, come già per la sorella, un aspro rimprovero: "Circa il Calmetta non posso già far che non me resenti [risenta] alquanto, perché una persona tanto odiata da noi, quanto è il Calmetta, sia accarezata et ben vista da quelloro [coloro] che mi doverieno [dovrebbero] amare, et odiar quelli che odio e non tenirne tanto conto".<ref name=":2" />
Secondo [[Alessandro Luzio]], già prima del 1502 Vincenzo si pavoneggiava del favore accordatogli da [[Isabella d'Este]], moglie di Francesco. Secondo Stephen Kolsky, l'odio del marchese non sarebbe derivato da gelosia ma, al contrario, da una difesa della moglie e della sorella, le quali sarebbero state infamate da Vincenzo: in seguito alle feste ferraresi per le nozze di [[Lucrezia Borgia]] con [[Alfonso I d'Este|Alfonso d'Este]] fu diffusa una lettera, proveniente dall'Accademia romana e diretta proprio alle due donne, in cui la marchesa Isabella era descritta come una mangiona, avida e sciatta che, pur non essendo più tanto giovane, si conciava in modo tale da volere sembrare
Certamente da ciò si comprende "quanto interesse doveva portargli Elisabetta",<ref name=":2" /> se per causa sua correva persino il pericolo di entrare in contrasto con l'amato fratello, come in effetti accadde.<ref>Archivio ..., Volume 16, Società romana di storia patria, 1893, p. 528.</ref> Difatti "la relazione del Calmeta con Elisabetta durò inalterata per anni parecchi", fino alla sua morte.<ref name=":2" /> Anche Pietro Bembo, che all'epoca stimava molto Vincenzo (essendo stato da lui lodato in alcune sue opere) nel gennaio 1507 scriveva da Urbino al fratello Bartolomeo che Vincenzo stavasi recando a Venezia per stampare alcune sue opere, e perciò gli raccomandava di onorarlo convenientemente ospitandolo in casa loro, e precisava che "egli [Vincenzo] è qui già buon tempo stato con Mad. Duchessa [Elisabetta], e ha onore assai da lei ricevuto".<ref>La Letteratura italiana: Storia e testi, Volume 25, Edizione 1, Riccardo Ricciardi Editore, 1951, p. 389.</ref>
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== Collegamenti esterni ==
* {{Collegamenti esterni}}
* [https://web.archive.org/web/20080624103316/http://www.italica.rai.it/rinascimento/parole_chiave/schede/calmeta_vincenzo.htm Approfondimento su Italica, sito edito da Rai International]
{{Controllo di autorità}}
{{portale|biografie|letteratura}}
[[Categoria:Beatrice d'Este]]
[[Categoria:Letterati alla corte degli Sforza|Calmeta]]
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