Economia dell'Impero romano: differenze tra le versioni

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[[File:Europe 180ad roman trade map.png|upright=1.4|thumb|Le vie del commercio romano attorno alla fine del [[II secolo]].]]
 
Nei primi due secoli dell{{'}}'''Impero romano''' lo sviluppo dell{{'}}'''[[Economia romana|economia]]''' si era basato essenzialmente sulle conquiste militari, che avevano procurato terre da distribuire ai legionari oppure ai ricchi senatori, merci da commerciare e inoltre schiavi da sfruttare in lavori a costo zero.<ref>«Sistema agrario-mercantile a base schiavistica», con questa formula A. Schiavone definisce il sistema economico-sociale della prima età imperiale di Roma antica (Momigliano e Schiavone, ''Storia di Roma'', Einaudi, 1988).</ref> Per questo motivo l'economia appariva prospera ([[Età antonina|"secolo d'oro"]]). In realtà restava in una condizione di stagnazione, che divenne decadenza (declino della produzione agricola e contrazione dei grandi flussi commerciali) con la conclusione della fase delle grandi guerre di conquista (116 d.C., [[campagne partiche di Lucio Vero|conquista romana di Ctesifonte]], capitale dell'[[impero partico]]).
 
L'Impero romano, infatti, da un lato si dimostrò incapace di realizzare uno sviluppo economico endogeno (non dipendente dalle conquiste) e dall'altro di ovviare all'aumento dei costi della spesa pubblica (la vera radice della crisi fu l'incremento del costo dell'esercito e della burocrazia) con un sistema fiscale più efficiente che oppressivo. La grave crisi che ne conseguì ne provocò gradualmente la decadenza, fino ad arrivare nel [[V secolo d.C.]] alla caduta della parte occidentale ad opera di popolazioni germaniche<ref>Secondo A. Fusari il sistema economico dell'età imperiale era destinato alla stagnazione in quanto i due elementi che lo componevano, l'agricoltura ed il commercio, e la sua base energetica principale, gli schiavi, non erano integrati in un mercato unico come nell'economia capitalistica, e la sua alimentazione non derivava se non in minima parte dal surplus reinvestito nel mercato (accumulazione endogena promossa da fattori agenti all'interno del sistema), bensì dall'afflusso di risorse esterne (accumulazione esogena), frutto della rapina, delle guerre e dello sfruttamento delle province.
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===Commercio: espansione dei traffici ed importazione di prodotti di lusso===
[[File:Map of the Periplus of the Erythraean Sea.jpg|thumb|upright=1.8|Commercio romano con l'India secondo il ''[[Periplus maris erythraei]]'', [[I secolo]]]]
{{vedi anche|Commercio romano con l'India|Relazioni diplomatiche sino-romane}}
 
[[File:Map of the Periplus of the Erythraean Sea.jpg|thumb|upright=1.8|Commercio romano con l'India secondo il ''[[Periplus maris erythraei]]'', [[I secolo]]]]
Nella prima età imperiale l'impulso fornito dalla forte urbanizzazione<ref>La civiltà imperiale fu essenzialmente una civiltà urbana. Nelle popolose città dell'Impero risiedevano i ceti privilegiati. Specie in Occidente la città era prima di tutto un centro amministrativo, attraverso il quale veniva esercitato il controllo e lo sfruttamento della regione agricola circostante, ma era anche il luogo dove veniva distribuita e consumata la ricchezza prodotta ed il centro di diffusione dei modelli di comportamento della società imperiale (Luigi Bessone, ''Roma imperiale'', in (a cura di G. Solfaroli Camillocci) ''Civiltà Antiche'', Sei, 1987, p. 231).</ref> e la sicurezza delle linee di traffico favorirono l'espansione del commercio terrestre e marittimo<ref>Da Narbona a Cartagine si impiegavano in media cinque giorni di navigazione, da Marsiglia ad Alessandria, invece, trenta ({{cita|Ruffolo|p. 130)}}</ref>:<ref>Giorgio Ruffolo calcola in 4 miliardi di sesterzi (un quinto del Pil totale) il valore aggiunto complessivo del settore commerciale nel I secolo d.C. (Giorgio Ruffolo, ''Quando l'Italia era una superpotenza'', Einaudi, 2004, p. 28).</ref><ref>«Attraverso queste strade passava un traffico sempre crescente, non soltanto di truppe e funzionari, ma di commercianti, mercanzie e perfino di turisti. Lo scambio di merci fra le varie province si era sviluppato rapidamente, e presto raggiunse una scala senza precedenti nella storia».
 
Nella prima età imperiale l'impulso fornito dalla forte urbanizzazione<ref>La civiltà imperiale fu essenzialmente una civiltà urbana. Nelle popolose città dell'Impero risiedevano i ceti privilegiati. Specie in Occidente la città era prima di tutto un centro amministrativo, attraverso il quale veniva esercitato il controllo e lo sfruttamento della regione agricola circostante, ma era anche il luogo dove veniva distribuita e consumata la ricchezza prodotta ed il centro di diffusione dei modelli di comportamento della società imperiale (Luigi Bessone, ''Roma imperiale'', in (a cura di G. Solfaroli Camillocci) ''Civiltà Antiche'', Sei, 1987, p. 231).</ref> e la sicurezza delle linee di traffico favorirono l'espansione del commercio terrestre e marittimo<ref>Da Narbona a Cartagine si impiegavano in media cinque giorni di navigazione, da Marsiglia ad Alessandria, invece, trenta ({{cita|Ruffolo|p. 130)}}.</ref>:<ref>Giorgio Ruffolo calcola in 4 miliardi di sesterzi (un quinto del Pil totale) il valore aggiunto complessivo del settore commerciale nel I secolo d.C. (Giorgio Ruffolo, ''Quando l'Italia era una superpotenza'', Einaudi, 2004, p. 28).</ref><ref>«Attraverso queste strade passava un traffico sempre crescente, non soltanto di truppe e funzionari, ma di commercianti, mercanzie e perfino di turisti. Lo scambio di merci fra le varie province si era sviluppato rapidamente, e presto raggiunse una scala senza precedenti nella storia».
 
Grazie a un sistema altamente organizzato di trasporto e vendita, si muovevano liberamente da un angolo all'altro dell'Impero migliaia di tonnellate di prodotti: metalli estratti nelle regioni montagnose dell'Europa occidentale: stagno dalla Britannia, ferro dalla Spagna, piombo dalla Sardegna; pelli, panni e bestiame dai distretti pastorali della Britannia, della Spagna e dai mercati del Mar Nero; vino dalla Provenza, dall'Aquitania, dall'Italia, da Creta, dalla Numidia; olio dall'Africa e dalla Spagna; lardo dalla Lucania; miele dall'Attica; formaggio dalla Dalmazia; frutta secca, datteri e prugne dalla Siria; cavalli dalla Sicilia e dalla Numidia; legname, pece e cera dalla Russia meridionale e dal nord dell'Anatolia; marmo dai litorali egei, dall'Asia Minore, dall'Egitto, dai Pirenei e anche dal Mar di Marmara; e - il più importante di tutti - grano dai distretti dell'Africa del nord, dell'Egitto, della Sicilia, della Tessaglia e della valle del Danubio per i bisogni delle grandi città (H. St. L. B. Moss, ''The Birth of the Middle Ages'', p.1).</ref> a Roma, per esempio, si moltiplicarono le botteghe, le aziende commerciali all'ingrosso e al dettaglio, i depositi, i magazzini, le corporazioni di artigiani e trasportatori. I traffici commerciali si spinsero fino alle coste del Baltico, in Arabia, India e Cina per importare prodotti di lusso e di prestigio a prezzi astronomici (al valore della merce andava infatti aggiunto il costo elevatissimo dei trasporti e una lunga serie di dazi e pedaggi). Per quanto non paragonabile con i concetti moderni, ci fu un costante legame di importazione tramite rotte carovaniere ed il commercio marittimo con le regioni orientali, in particolare l'India e la penisola Arabica, da dove arrivavano incenso, profumi, perle, gemme, spezie, sete, carni e pesci rari, frutta esotica, ebano, unguenti.
 
L'emorragia di monete in metallo prezioso per l'acquisto dei prodotti di lusso finirà, però, per provocare nei secoli successivi gravi conseguenze a livello di bilancio commerciale.<ref>Plinio il Vecchio calcolava in 100 milioni di sesterzi la somma che ogni anno usciva dall'Impero per pagare le merci pregiate: era una cifra davvero enorme, corrispondente al gettito annuale di tutte le imposte indirette ed era pari a a 1/14 di tutte le entrate dell'Impero al tempo di Vespasiano (Luigi Bessone, ''Roma imperiale'', in (a cura di G. Solfaroli Camillocci) ''Civiltà Antiche'', Sei, 1987, p. 247).</ref><ref>Nessun aristocratico romano si sarebbe sognato di chiamar "consumi" le attività rivolte all'acquisto di prodotti di lusso o a generare piaceri. L'ideale della società aristocratica romana era l'''otium'', non il [[lavoro produttivo]]. Della riproducibilità delle risorse usate ci si occupava poco: c'erano gli schiavi e le legioni a provvedervi. Tanto meno ci si occupava della disuguaglianza della distribuzione delle risorse: la società romana, come tutte quelle antiche, era spietata e considerava naturale che alla concentrazione delle ricchezze in pochissime mani corrispondesse la povertà estrema dei consumi delle masse. Quel che contava non era tanto migliorare la produzione di risorse e distribuirle meglio, quanto piuttosto l'intensità dei piaceri che si potevano trarre dal loro sfruttamento (Giorgio Ruffolo, ''Quando l'Italia era una superpotenza'', Einaudi, 2004, p. 64).</ref>
 
Tra i prodotti industriali più diffusi tra la popolazione dell'Impero romano c'erano invece le ceramiche fini da mensa ([[ceramica sigillata]]), realizzate inizialmente in Italia (in particolare ad [[Arezzo]]). La produzione toscana verrà poi soppiantata nel corso del I secolo d.C. da quella gallica e, infine, africana.
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{{vedi anche|Aerarium|Aerarium militare|Congiaria|Fisco|Institutio Alimentaria|Monetazione imperiale romana}}
 
Il gigantesco apparato imperiale comportava costi crescenti. [[Augusto]] aveva diviso l'Impero in province senatorie i cui tributi finivano nell'[[aerarium|erario]] (l'antica cassa dello Stato), a sostenere le spese correnti di quell'istituzione, ed in province imperiali, le cui entrareentrate alimentavano il ''[[Fiscus Caesaris|fiscus]]'', la cassa privata dell'imperatore, cui toccavano gli oneri più gravosi, rappresentati dall'[[esercito romano|esercito]], dalla burocrazia e dalle sovvenzioni alla plebe urbana (distribuzioni di frumento o denaro, ''[[congiaria]]'') per evitare rivolte. Sotto i successori di Augusto si ingenerò confusione tra erario e fisco, a tutto vantaggio di quest'ultimo. Inoltre, per l'esercito era prevista una cassa apposita, l'erario militare (''[[aerarium militare]]''), in cui si accantonavano i fondi per il pagamento dell'indennità ai soldati congedati.<ref>Il problema della scarsità di contante fu avvertito già in età augustea: non rari erano i casi di veterani trattenuti in servizio oltre la scadenza della ferma, perché mancavano i soldi per le liquidazioni (Luigi Bessone, ''Roma imperiale'', in (a cura di G. Solfaroli Camillocci) ''Civiltà Antiche'', Sei, 1987, p. 234).</ref> Il costo dell'esercito<ref>In età augustea il costo delle legioni era intorno alla metà della spesa pubblica totale, ma rappresentava solo il 2,5 per cento del Pil.
 
In compenso erano enormi le ricchezze che grazie alle sue conquiste affluivano allo Stato e soprattutto ai privati: oro, tesori, terre, opere d'arte. Per molti anni il ''tributum'' del 5 per cento del reddito imponibile istituito da Augusto per finanziare la difesa dell'Impero poté essere abbuonato ai cittadini romani (G. Ruffolo, ''Quando l'Italia era una superpotenza,'' Einaudi, 2004, p. 51).</ref> fu aggravato inoltre dall'uso invalso da [[Claudio]] in poi di gratificare i soldati con un donativo per assicurarsene la fedeltà al momento dell'ascesa al trono e in situazioni delicate. Se aggiungiamo alle spese necessarie e inevitabili gli sprechi nella gestione della corte, si capisce come lo stato delle finanze fosse in genere alquanto precario. La decisione di Augusto di consolidare l'Impero, assicurandogli confini naturalmente sicuri e compattezza interna, invece che di estendere le frontiere, dipese anche dal fatto che l'imperatore si era reso conto che le risorse erano limitate e non in grado di sostenere eccessivi sforzi espansionistici.<ref>Luigi Bessone, ''Roma imperiale'', in (a cura di G. Solfaroli Camillocci) ''Civiltà Antiche'', Sei, 1987, p. 235.</ref>.
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{{Coin image box 1 double
| header = [[Traiano]]: [[Æ (numismatica)|Æ]] [[Sesterzio]]<ref>[[Roman Imperial Coinage|RIC]] ''Traianus'', II 461; Banti 12.</ref>
| hbkg = #abcdef
| image = File:TRAIANUS RIC II 461-84001016.jpg
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}}
 
Il costo dell'intero esercito crebbe moderatamente come % del PIL tra il 14 ed il 150 d.C., malgrado un incremento degli effettivi di circa il 50%: da 255.000 armati circa<ref>Sottinteso da [[Tacito]], ''Annales''.</ref> del [[23]] a 383.000<ref>CAH XI 320 estimates 380,000.</ref> sotto [[Adriano]], fino ad arrivare alla morte di [[Settimio Severo]] nel [[211]] a 442.000 soldati circa<ref>R. MacMullen, ''How Big was the Roman imperial Army?'', in ''KLIO'' (1980), p. 454, stimati 438.000.</ref>, questo perché la popolazione dell'impero, e quindi il PIL totale, aumentò sensibilmente (+35% ca.). Successivamente la percentuale del PIL dovuta alle spese per l'esercito crebbe di quasi la metà, sebbene l'aumento degli effettivi dell'esercito fu solo del 15% ca. (dal [[150]] al [[215]]). Ciò fu dovuto principalmente alla peste antonina, che gli storici epidemiologici hanno stimato aver ridotto la popolazione dell'impero tra il 15% ed il 30%. Tuttavia, anche nel 215 i Romani spendevano una percentuale sul PIL simile a quella che oggi spende la difesa dell'unica superpotenza globale, gli [[Stati Uniti d'America]], (pari al 3,5% del PIL nel 2003). Ma l'effettivo onere dei contribuenti, in un'economicaeconomia pressoché agricola con una produzione in eccedenza veramente limitata (l'80% della popolazione imperiale dipendeva da un'[[agricoltura di sussistenza]] ed un ulteriore 10% dal reddito di sussistenza), era certamente molto più gravoso. Infatti, uno studio sulle imposte imperiali in [[Egitto (provincia romana)|Egitto]], la provincia di gran lunga meglio documentata, ha stabilito che il gravame era piuttosto pesante.<ref Name="Duncan-Jones 1994">Duncan-Jones (1994).</ref>
 
Le spese militari costituivano quindi il 75% ca. del bilancio totale statale, in quanto poca era la spesa "sociale", mentre tutto il resto era utilizzato in progetti di prestigiose costruzioni a [[Roma (città antica)|Roma]] e nelle [[province romane|province]]; a ciò si aggiungeva un sussidio in grano per coloro che risultavano disoccupati, oltre ad aiuti al proletariato di Roma (''[[congiaria]]'') e sussidi alle famiglie italiche (simile ai moderni [[assegni familiari]]) per incoraggiarle a generare più figli. Augusto istituì questa politica, distribuendo 250 ''denari'' per ogni bambino nato.<ref>[[Svetonio]], ''Augusto'', 46.</ref> Altri sussidi ulteriori furono poi introdotti per le famiglie italiche (''[[Institutio Alimentaria]]'') dall'imperatore [[Traiano]].<ref name="Duncan-Jones 1994 35">Duncan-Jones (1994), p. 35.</ref>
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La forte instabilità politica, i saccheggi delle soldataglie romane (nel corso delle guerre civili) o barbariche, la stasi produttiva e l'insicurezza dei traffici impoverirono nel corso del Tardo Impero i ceti medi cittadini (artigiani e commercianti), i quali dovevano far fronte anche alla necessità di sfamare le moltitudini di contadini immigrati in città dalle campagne in seguito alla crisi dell'agricoltura. Nei primi secoli l'Impero era riuscito a sopperire in parte a questa esigenza grazie all'[[evergetismo]]<ref>Comprendeva non solo le distribuzioni gratuite di denaro o generi alimentari, ma anche l'allestimento di giochi, feste e gare, oppure la realizzazione di templi, circhi, terme e teatri.</ref> dei notabili, ma di fronte alla crisi furono proprio le distribuzioni gratuite di denaro o generi alimentari ad essere tagliate. Da [[Costantino]] in poi si preferì fare beneficenza alla [[Chiesa latina|Chiesa]], che nel V secolo d.C. ormai si era sostituita alle istituzioni statali nelle opere di carità, se non nell'amministrazione di gran parte delle città dell'[[Impero romano d'Occidente]].
 
I senatori latifondisti ed i ricchi imprenditori (banchieri, armatori, alti funzionari), che avevano privilegi esorbitanti e vivevano di rendita in un lusso sfarzoso, cominciarono a preferire la vita in campagna a quella in città. Nei loro stessi latifondi cominciarono a concentrarsi attività industriali ed artigianali, capaci di renderli autosufficienti (la conseguenza fu un'ulteriore riduzione delle opportunità di lavoro per i ceti medi cittadini, già in difficoltà per la crisi dei traffici commerciali) e, nel caos generale che anticipò la [[caduta dell'Impero romano d'Occidente]], cominciarono a provvedere da sé alla tutela delle loro proprietà, assoldando eserciti privati (i cosiddetti ''buccellarii''). Lo Stato finì per affidare loro quei compiti che non era più in grado di assolvere, come la riscossione delle tasse dei coloni e dei contadini rimasti liberi nei villaggi, che si affidavano ormai a loro per la protezione delle proprie famiglie (fenomeno del ''patronato''): su queste basi si svilupperà la [[signoria feudale]] nel [[Medio Evo|Medioevo]].
 
===Economia e società: fiscalità oppressiva, professioni coatte e disuguaglianza giuridica===
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Dato che i nullatenenti non avevano niente ed i ricchi contavano su appoggi e corruzione<ref>La corruzione nel Tardo Impero, a differenza che nell'Alto Impero, non era più semplicemente tollerata o dissimulata, ma ostentata ed acclamata. I poteri di fatto erano gestiti da una vera e propria categoria sociale (a Roma li chiamavano ''maiores'' o ''priores''), che comprava e vendeva tutto. C'era un vero mercato dei favori e dei delitti. Un verdetto di esilio costava 300 000 sesterzi, uno strangolamento in carcere 700 000. La rete dei poteri di fatto riusciva spesso a neutralizzare l'intervento correttivo dei funzionari e dello stesso imperatore. Agenti principali della corruzione erano gli esattori: quelli pubblici (''publicani'') e quelli semiprivati: «Richiedevano barche, cibo, cavalli; molestavano le spose». Arruolavano abusivamente contadini inermi, d'autorità, o intascavano dai latifondisti il prezzo del mancato arruolamento (R. MacMullen, ''La corruzione e il declino di Roma'', Il Mulino, 1991).</ref> chi ne pagò il costo furono il ceto medio (piccoli proprietari terrieri, artigiani, trasportatori, mercanti) e gli amministratori locali ([[decurione|decurioni]]), tenuti a rispondere in proprio della quota di tasse fissata dallo Stato (''indizione''<ref>
 
L'indizione era una specie di finanziaria annuale, sulla base della quale erano calcolate le spese che l'Impero avrebbe dovuto sostenere l'anno seguente e quindi le entrate delle quali aveva bisogno.</ref>) a carico della comunità per evitare l'evasione fiscale. L'[[evergetismo]], che era un munifico e magnifico vanto, diventò sempre più una obbligazione imposta dal governo centrale. Le cariche pubbliche, che in precedenza erano ambite, significavano nel Tardo Impero gravami e rovina. Per arrestare la fuga dal decurionato, dalle professioni e dalle campagne, che divenne generale proprio con l'inasprimento della pressione fiscale tra il III ed il IV secolo d.C., lo Stato vincolò ciascun lavoratore e i suoi discendenti al lavoro svolto fino ad allora<ref>Stazionaria era l'economia, stazionaria divenne anche la società.</ref>, vietando l'abbandono del posto occupato (fenomeno delle "professioni coatte", che nelle campagne finirà per dare avvio, attraverso il ''[[colonato]]'', a quella che nel [[Medioevo]] verrà chiamata "[[servitù della gleba]]"). L'avanzamento sociale (possibile solo con la carriera militare, burocratica o ecclesiale) non derivava dalla competizione sui mercati, bensì dai favori provenienti dall'alto. È comprensibile, a questo punto, che molti considerassero l'arrivo dei barbari non tanto una minaccia, quanto una liberazione. Ormai si era scavato un solco profondo tra uno Stato sempre più invadente e prepotente (soprusi dell'esercito e della burocrazia) e la società. Lo Stato che nel V secolo crollò sotto l'urto dei barbari era uno Stato ormai privo di consenso<ref>{{cita|Ruffolo|p. 113.}}.</ref>.
 
Quando le popolazioni germaniche occuparono i territori dell'Impero d'Occidente, si trovarono di fronte una società profondamente divisa tra una minoranza di privilegiati e una massa di povera gente. La distanza sociale prima esistente tra lavoratori liberi e schiavi si era, infatti, ridotta notevolmente con l'istituzione del ''[[colonato]]'': entrambi erano dipendenti nella stessa misura dal ricco proprietario del fondo agricolo. Anche questo fenomeno, quindi, contribuì alla biforcazione della società nelle due principali categorie sociali del Tardo Impero, profondamente differenti non solo per il censo (poveri e ricchi), ma anche per le condizioni giuridiche (con il fenomeno delle professioni coatte, infatti, la distanza economica tra classi ricche e classi povere divenne anche una distinzione di diritto, fissata dalla legge): gli "inferiori" (''humiliores''), cui appartenevano la massa dei ''coloni'' e dei proletari urbani, e i "rispettabili" (''honestiores''), cui appartenevano i grandi proprietari terrieri ed i vertici della burocrazia militare e civile. Solo agli ''humiliores'' erano riservate le punizioni più dure ed infamanti, come la fustigazione e la pena di morte.
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* G. Cascarino & C. Sansilvestri, ''L'esercito romano. Armamento e organizzazione'', Vol. III - Dal III secolo alla fine.
* Francesco De Martino, ''Storia economica di Roma antica'', La Nuova Italia, Firenze, 1980.
* {{cita libro |autore=Richard Duncan-Jones|titolo=Money and Government in the Roman Empire |url=https://archive.org/details/moneygovernmenti0000dunc|anno=1994|lingua=ingleseen|cid=Duncan-Jones 1994}}
* Geraci e Marcone, ''Storia romana'', Le Monnier, 2004.
* E. Lo Cascio, ''Roma imperiale. Una metropoli antica'', Carocci, 2011.
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{{Economia e finanza nell'Antica Roma}}
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[[Categoria:Economia dell'Impero romano| ]]