Canzone al Metauro: differenze tra le versioni
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{{Citazione|O del grand'Appennino<br>figlio picciolo sì ma glorioso,<br>e di nome più chiaro assai che d'onde,<br>fugace pellegrino<br>a queste tue cortesi amiche sponde<br>per sicurezza vengo e per
[[File:Tasso 02.jpg|thumb|Incisione ritraente Torquato Tasso]]
La '''''Canzone al Metauro''''' è una composizione poetica di [[Torquato Tasso]].
La "Canzone al Metauro", che è tratta dalle ''Rime'' e che segna il punto forse più alto della lirica tassiana, fu concepita nell'estate del [[1578]], durante il soggiorno del poeta
La canzone è composta da tre strofe in endecasillabi e settenari. La fronte di ciascuna strofa ha due piedi aBC, aBC; la sirma presenta due volte lo schema CDEe, DFGGFHHFII.
== Trama della canzone ==
[[File:Metauro à San Angelo in Vado.jpg|thumb|upright=1.4|Il fiume [[Metauro]]]]
Tasso si ferma su un fiume, il [[Metauro]] delle [[Marche]], dove riflette
== Analisi del testo ==
Le "Rime" tassiane più apprezzate sono quelle in cui il poeta canta liricamente la propria vita. È ciò che accade in questa canzone incompiuta, che già i lettori del tardo Cinquecento consideravano un capolavoro per la diretta effusione degli affetti che il poeta ha travasato nei versi. Non mancano neppure qui gli spunti cortigiani, come avviene per esempio ai vv. 7-9 con l'iperbolica rappresentazione della Quercia, i cui rami si distendono su monti e mari, a suggerire la potenza dei duchi di Urbino; l'esordio della canzone è ricco di simili spunti elogiativi (figlio piccolo, sì ma glorioso, v.2; cortesi.....sponde, v.5; ombra....ospital, v.11; gentil riposo e sede, v.12). Ma questi elementi vengono riequilibrati nella meditazione autobiografica che si snoda a partire dal v.21.
Colpisce l'insistenza con la quale Tasso si dice incalzato dalla sorte avversa, spietata nel tendergli agguati da cui appunto spera salvezza grazie alla protezione del signore
La dolente meditazione si serve di uno stile magniloquente, intonato a quel "sublime" che informa anche la "Gerusalemme liberata". Non a caso prevalgono gli austeri endecasillabi, rispetto ai più morbidi e musicali settenari; frequenti enjambements (per esempio "non niega/ .....riposo", v.11-12; "cruda /e cieca dèa", vv.14-15) spezzano il ritmo lirico, sottolineando i momenti più meditativi o l'addensarsi dei concetti; anafore in funzione enfatizzante sono presenti qua e là, come ai vv. 45-46 con due significati di "amarezza" prima e "fanciullezza" poi. Il lessico è rivestito di una patina aulica, con impiego sistematico di latinismi (chiaro, aure, egra), termini letterari (m'appiattì, risalda) e citazioni (con sospir mi rimembra), perifrasi eloquenti (per designare per esempio la Fortuna: cruda / e cieca dèa, vv. 14-15; ingiusta e ria, v. 24). Un intero verso petrarchesco (il già menzionato " con sospir mi rimembra", v. 34) viene con naturalezza incastonato entro il discorso poetico. Impreziosiscono il dettato chiasmi (egro e morto / la tomba e il letto, vv. 56-58), antitesi (piccolo / glorios, v.2; sepolcro / cuna, v.28) e altre figure retoriche, come l'ipallage aggettivale " per solingo calle/ notturno" (vv.17-18).
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