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{{torna a|Rete 4}}
Per '''Lodo Rete 4''' si intende un' insieme di vicende giudiziarie, sentenze e leggi emanate dal parlamento italiano, riguardanti [[Rete 4]] e la disputa circa l'occupazione delle [[AnalogicoTelevisione analogica terrestre|frequenze analogiche]] necessarie a trasmetteretrasmetterne il segnale.
 
== Gli anni 1980 e l'"occupazione dell'etere" ==
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Nell'estate del [[1981]], in attesa di una nuova sentenza della Corte costituzionale, Berlusconi dichiarò che non si può fare televisione se non si è collegati con tutto il paese e con l'estero; il 14 luglio la Corte si espresse ribadendo il limite per i privati a trasmettere solo in ambito locale.
 
Forte di questa sentenza, il 1º febbraio [[1982]] la [[Rai]] si rivolse alla magistratura denunciando [[Canale 5]] di [[Fininvest]], [[Italia 1]] di [[Edilio Rusconi Libri|Rusconi]], e [[Rete 4]] di [[Arnoldo Mondadori Editore|Mondadori]] e [[Telemontecarlo]] per «la contemporaneità delle trasmissioni, non via etere, ma a mezzo videocassette preduplicate su varie emittenti, intaccando così il privilegio monopolistico», dal momento che i tre network avevano già interconnesso i propri ripetitori e trasmettevano su tutto il territorio nazionale.
 
Anche l'[[Associazione nazionale teleradio indipendenti]] (ANTI), nata nel 1974, si rivolse alla magistratura nel 1982 accusando i networks di «avere realizzato la diffusione su scala nazionale di uno stesso programma». Il [[Parlamento della Repubblica Italiana|Parlamento]] non intervenne, nonostante in quello stesso anno il [[Ministri delle comunicazioni della Repubblica Italiana|ministro delle poste e delle telecomunicazioni]] [[Remo Gaspari]] affermò di avere l'intenzione di disattivare gli impianti di trasmissione delle tre reti.
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== L'acquisto di Rete 4 da parte di Fininvest e gli interventi del governo Craxi ==
{{Vedi anche|Decreto Berlusconi}}
Nel luglio [[1984]] Mondadori decise di vendere la propria quota di maggioranza in Rete 4 perché l'emittente era in perdita. Il presidente [[Mario Formenton]] chiese aiuto all'ingegner [[Carlo De Benedetti]] per trovare un valido acquirente e risolvere la crisi<ref>{{Cita news|autore=Giovanni Pons|url=http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/07/10/dal-tradimento-formenton-ai-giudici-comprati-la.html|titolo=Dal tradimento Formenton ai giudici comprati la guerra dei vent' anni per l'impero di Segrate|pubblicazione=[[la Repubblica (quotidiano)|la Repubblica]]|giornodata=10|mese= luglio|anno= 2011|accesso=}}</ref>. Ben presto circolarono voci su una trattativa in corso tra Mondadori e l'imprenditore edile Vincenzo Romagnoli, proprietario del [[Gruppo Acqua Marcia]]<ref>{{Cita news|autore=Gianfranco Modolo|titolo=Retequattro, accordo quasi fatto tra Mondadori e un costruttore|pubblicazione=[[La Stampa]]|giornodata=19|mese= luglio|anno= 1984|p=6}}</ref>, voci che poi trovarono conferma qualche giorno dopo<ref>{{Cita news|autore=Gianfranco Modolo|titolo=Retequattro passa a Romagnoli «Suicida la guerra dei networks»|pubblicazione=La Stampa|giornodata=24|mese= luglio|anno= 1984|p=17}}</ref><ref>{{Cita news|url=http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/07/25/vendita-di-rete-nessuna-decisione.html|titolo=VENDITA DI RETE 4 'NESSUNA DECISIONE'|pubblicazione=la Repubblica|giornodata=25|mese= luglio|anno= 1984|accesso=}}</ref>. Negli articoli citati si afferma che la crisi che Rete 4 stava subendo era causata perlopiù dalla guerra, per gli ascolti e per le tariffe pubblicitarie, in corso tra essa e Canale 5 di [[Silvio Berlusconi]]: l'accordo con Romagnoli, che era un imprenditore edile proprio come Berlusconi, avrebbe dovuto dare inizio ad una fase di collaborazione tra le due reti concorrenti, sia sul piano pubblicitario che su quello tecnico.<br />Nei successivi giorni, però, emersero dei dubbi sulla tenuta finanziaria del gruppo di Romagnoli dal momento che, per l'acquisto di Rete 4, Mondadori chiedeva almeno 110 miliardi di lire<ref>{{Cita news|autore=Ugo Bertone|titolo=Rete4, salta la vendita?|pubblicazione=La Stampa|giornodata=2|mese= agosto|anno= 1984|p=14}}</ref>. Siccome il gruppo di Romagnoli non poteva affrontare questo acquisto "da solo", la Mondadori cercò di sollecitare il gruppo Acqua Marcia per conoscere l'identità di coloro che, assieme al già citato gruppo, avrebbero acquisito le quote di maggioranza di Rete 4.
 
Il 2 agosto 1984 la trattativa venne interrotta perché si scoprì che nella cordata di compratori della rete era presente anche la [[Fininvest]]<ref>{{Cita news|autore=Ugo Bertone|titolo=Vento di guerra alle tv|pubblicazione=La Stampa|giorno=4|mese=agosto|anno=1984|p=14}}</ref>; inoltre, sembra che alla base della mancata trattativa ci siano state valutazioni discordanti tra i contraenti sul costo dei programmi da comprare. Qualche settimana dopo si avviarono le trattative di vendita di Rete 4 a Berlusconi<ref>{{Cita news|autore=Simonetta Robiony|titolo=Berlusconi in settimana comprerà Retequattro?|pubblicazione=La Stampa|giorno=25|mese=agosto|anno=1984|p=15}}</ref> mediate da [[Enrico Cuccia]] presso [[Mediobanca]]<ref>{{Cita news|autore=[[Antonio Calabrò]]|url=http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1989/12/06/scontro-formenton-de-benedetti.html|titolo=SCONTRO FORMENTON - DE BENEDETTI|pubblicazione=la Repubblica|giornodata=6|mese= dicembre|anno= 1989|accesso=}}</ref>.
 
Il 27 agosto 1984 Fininvest chiuse l'accordo con Mondadori per la costituzione della società "Sedit - Retequattro", partecipata al 50% da Mondadori e al 50% da Fininvest, che avrebbe controllato l'emittente televisiva. L'operazione fu vista in qualche maniera come eclatante, poiché Berlusconi possedeva già due reti televisive nazionali, Canale 5 ed Italia 1. Con l'acquisizione di Rete 4 si veniva a delineare un monopolio dell'emittenza privata esclusivamente in mano a Fininvest; Berlusconi, dal canto suo, negò la sussistenza di una tale situazione e definì invece l'operazione come un'alleanza tra la Fininvest, il più grande gruppo televisivo italiano, e la Mondadori, azienda leader nel campo della carta stampata<ref name=acquisto>{{Cita news|autore=Ugo Bertone|titolo=Berlusconi, le mani su Rete4|pubblicazione=La Stampa|giorno=28|mese=agosto|anno=1984|p=15}}</ref><ref>{{Cita web|url=https://www.radioradicale.it/scheda/60896/la-societa-mondadori-vende-rete4-alla-fininvest-berlusconi|titolo=La società Mondadori vende 'Rete4' alla Fininvest (Berlusconi)|data=27 agosto 1984}}</ref>. Quest'operazione causò diverse reazioni: ci fu chi invocò l'intervento dello Stato per una definitiva legge sulle TV private, chi rimase deluso per la negligenza dello Stato stesso che non aveva fatto nulla in merito<ref>{{Cita news|autore=Ornella Rota|titolo=Dentro Segrate si discute il nuovo padrone|pubblicazione=La Stampa|giorno=6|mese=settembre|anno=1984|p=18}}</ref> e chi auspicò una maggiore attenzione verso la situazione economica del cinema italiano. Esponenti del [[Partito Comunista Italiano]] come [[Achille Occhetto]] e [[Walter Veltroni]] denunciarono, in quest'operazione, un possibile pericolo per il pluralismo dell'informazione televisiva<ref name=acquisto />.
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Il 7 dicembre [[1994]] la Corte costituzionale (sentenza n. 420) bocciò la legge Mammì definendola «incoerente, irragionevole» e inidonea a garantire il pluralismo in materia televisiva. L'articolo 15, comma quarto della legge fu dichiarato incostituzionale per violazione dell'articolo 3 della [[Costituzione della Repubblica Italiana|Costituzione]]; la Consulta sollecitò quindi il legislatore a trovare una soluzione definitiva entro l'agosto 1996, rispettando l'auspicio di aumentare il pluralismo informativo (articolo 21 della Costituzione)<ref name="ReferenceA">{{cita pronuncia costituzionale|tipo=sentenza|numero=420|anno=1994}}</ref>. Secondo il pronunciamento, la legge del 1990 non risolveva i problemi di concentrazione che la Corte aveva evidenziato nella sua sentenza del 1988, in quanto le 3 reti possibili, su un massimo di 12, di cui 9 date in concessione ai privati, avrebbero continuato a permettere ad un unico soggetto (la cui situazione era già stata definita incostituzionale precedentemente) di controllare un terzo delle reti (superando il tetto del 25% fissato dalla legge Mammì), ma anzi li aggravava, perché, in una situazione in cui vi è già una "''posizione dominante"'', fissando a 9 le reti in concessione ai privati, rispetto all'assenza di limiti precedenti alla legge del 1990, si tiene "fuori dalla categoria dei soggetti privati concessionari [...] ogni ulteriore emittente nazionale non utilmente collocata in graduatoria", impedendo quindi l'accesso a possibili nuovi concorrenti che porterebbero un maggiore pluralismo.
 
{{citazione|''L'inadeguatezza del limite alle concentrazioni emerge poi anche dal raffronto non soltanto con la normativa degli altri paesi, e soprattutto con quelli della Comunità europea (che hanno in larga prevalenza una disciplina più rigorosa e restrittiva), ma anche con la parallela disciplina nazionale dell'editoria. L'art. 3, lett. a), legge 25 febbraio 1985 n.67 considera come posizione dominante quella di chi editi (o controlli società che editino) testate quotidiane la cui tiratura nell'anno solare precedente abbia superato il 20% della tiratura complessiva dei giornali quotidiani in Italia; limite questo che si giustifica - al pari del limite dell'art.15, comma 4, per le emittenti televisive - con l'esigenza di salvaguardare il pluralismo delle voci. Però con questa rilevante differenza: che nel settore della stampa non c'è alcuna barriera all'accesso, mentre nel settore televisivo la non illimitatezza delle frequenze, insieme alla considerazione della particolare forza penetrativa di tale specifico strumento di comunicazione (sent. 148/81, paragr.paragrafo 2 e amplius paragr.paragrafo 3; già sent. 225/74, paragr.paragrafo 4, e poi sent. 826/88, paragr.paragrafo 9 e 16), impone il ricorso al regime concessorio.''
 
''Ed allora il grado di concentrazione consentito non può che essere inferiore in quest'ultimo settore per la ragione che l'esigenza di prevenire l'insorgere di posizioni dominanti si coniuga con l'inevitabile contenimento del numero delle concessioni assentibili. Ed invece - se si considera che dalla particolare disciplina posta dall'art. 1, comma 1, per l'ipotesi di titolarità di concessioni televisive in ambito nazionale e contestualmente di controllo di imprese editrici di quotidiani si deduce che la titolarità di una concessione è equiparata (nella valutazione discrezionale del legislatore) al controllo di imprese editrici di quotidiani con una tiratura pari all'8% della tiratura complessiva dei giornali in Italia - emerge che il limite del 25%, in principio, e del numero massimo di tre reti, allo stato, di cui all'art. 15, comma 4, cit. appare meno rigoroso del limite del 20% di cui all'art. 3, comma 1, cit.. Ciò da una parte ne svela '''l'incoerenza e quindi la irragionevolezza (art. 3 Cost.), d'altra parte ne conferma ulteriormente la inidoneità'''; questa peraltro aggravata dal rischio di ulteriore accentuazione della posizione dominante in ragione della possibilità per il titolare di tre emittenti nazionali di partecipare, sia pur come socio di minoranza, a imprese titolari di altre concessioni e ad imprese impegnate in altri settori dell'editoria.''
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Il 22 maggio [[1997]] il Parlamento approvò la «[[Legge Maccanico]]»<ref name=legge1997>{{Cita web |url=http://www.camera.it/parlam/leggi/97249l02.htm#legge |titolo=legge 31 luglio 1997, n. 249 |accesso=23 luglio 2007 |dataarchivio=22 dicembre 2018 |urlarchivio=https://web.archive.org/web/20181222232833/http://www.camera.it/parlam/leggi/97249l02.htm#legge |urlmorto=sì }}</ref>, dal nome di [[Antonio Maccanico]], ministro delle poste e delle telecomunicazioni del [[Governo Prodi I]]. Recependo il dettato della Corte, la legge vietava ad uno stesso soggetto di essere titolare di concessioni o autorizzazioni che consentissero di irradiare '''più del 20 per cento''' delle reti televisive analogiche in ambito nazionale.
La norma istituiva l'[[Autorità per le garanzie nelle comunicazioni]] e, colmando una lacuna decennale, prevedeva l'approvazione di un «Piano nazionale delle frequenze». Nell'attesa dell'approvazione del Piano, il termine ultimo del regime di ''prorogatio'', fissato dalla legge Mammì all'agosto 1996, fu posticipato all'aprile 1998.<br />
La legge stabiliva inoltre che le "reti eccedenti", ovvero Rete 4 e [[TELE+ Nero]], avrebbero potuto continuare a trasmettere anche dopo il nuovo limite dell'aprile 1998, a patto che affiancassero alle trasmissioni analogiche quelle digitali (intese, alloraal tempo, unicamente come via cavo e satellitesatellitari; infatti non erano ancora diffusi segnali terrestri di tipo digitale), per permettere un passaggio graduale a queste ultime. Ma ciò sarebbe avvenuto solo quando la stessa Autorità avesse accertato che in Italia la diffusione di antenne paraboliche fosse ''congrua''. Termine, quest'ultimo che, non esprimendo una quantità, era lasciato alla discrezione dell'Autorità Garante.
 
==Il ricorso di Di Stefano==
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# [[Telemarket|Elefante Telemarket]].
 
Rete 4 e TELE+ Nero persero così il diritto di trasmettere, così come [[Rete Mia]] e [[Rete A]]. L'assegnazione dell'ottava concessione fu sospesa per il ricorso di un concorrente. Infatti l'imprenditore [[Francesco Di Stefano]], titolare di Centro Europa 7 (proprietaria dei marchi Europa 7 e 7 Plus) che aveva chiesto due concessioni, per [[Europa 7]] e 7 Plus, vincendone una per Europa 7, presentò ricorso al [[Consiglio di Stato]], il quale, accogliendo la sua istanza, ordinò al ministero di assegnargli una seconda concessione. La sentenza però non poté essere immediatamente applicata: al contrario dei vincitori di concessione che già trasmettevano (come Canale 5 e Italia 1)<!--, e che in base alle norme potevano continuare a impiegare le loro attuali frequenze e considerare quelle come assegnate dalla concessione-->, Europa 7 era un soggetto nuovo, e quindi doveva attendere il Piano di assegnazione delle frequenze per poter iniziare le trasmissioni sulle bande che gli sarebbero state assegnate. Il ministero stesso, in una nota del 22 dicembre [[1999]], si impegnò con Centro Europa 7 affinché in breve tempo si arrivasse "''di concerto con l'Autorità, alla definizione del programma di adeguamento al piano d'assegnazione delle frequenze''". In ogni caso Europa 7 non riuscì a trasmettere e il Ministero, contravvenendo al risultato della gara pubblica, non concesse le frequenze. Anzi, con un'autorizzazione ministeriale del 1999, consentì la prosecuzione delle trasmissioni analogiche a Rete 4 che, in base alla gara pubblica, non ne aveva diritto. Cominciò da parte della società Europa 7 una serie di ricorsi al [[Tribunale Amministrativo Regionale]] (TAR) del [[Lazio]] e al [[Consiglio di Stato]]. Con la sentenza del 12 giugno [[2001]], il Consiglio di Stato assegnò definitivamente l'ottava concessione a 7 Plus<ref>{{Cita web|url=http://archivio.agi.it/articolo/2b52b4c2b82924e8450b0ff1f7df3415_20010629_tv-europa-7-da-consiglio-di-stato-via-a-2-concessione/|titolo=Tv: europa 7, da consiglio Di stato via a 2* concessione|sito=[[Agenzia Giornalistica Italia|AGI]]|data=29 giugno 2001|accesso=18 marzo 2022|urlarchivio=https://archive.todayis/20160504210403/http://archivio.agi.it/articolo/2b52b4c2b82924e8450b0ff1f7df3415_20010629_tv-europa-7-da-consiglio-di-stato-via-a-2-concessione/|dataarchivio=4 maggio 2016}}</ref>.
 
Nel novembre [[2002]] fu investita della questione la [[Corte costituzionale]], cui fu chiesto di valutare la costituzionalità dell'articolo 3, comma 6 e 7, della legge 31 luglio 1997, n. 249 (cioè la legge Maccanico)<ref name="legge1997" />, che permette a chi ha un numero di reti superiore alle due massime previste dalla norma di prorogare le trasmissioni in analogico, a patto che a queste si inizino ad affiancare le trasmissioni in digitale, fino ad un termine che doveva essere deciso dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM). La Corte, con la sentenza [[Sentenza della Corte costituzionale della Repubblica Italiana del 20 novembre 2002, n. 466|466/2002]]<ref name="ReferenceB">{{cita pronuncia costituzionale|tipo=sentenza|numero=466|anno=2002}}</ref>, confermò - come già affermato nel [[1994]]<ref name="ReferenceA" /> - che nessun privato può possedere più di due frequenze televisive e che le reti eccedenti (in questo caso Rete 4 e TELE+ Nero), avrebbero dovuto cessare la trasmissione in via analogica terrestre. La Corte specificò anche che un accentramento di reti nel 2002 era anche ben più grave che nel 1994, essendoci state allora 12 frequenze nazionali disponibili in chiaro, mentre nel 2002 (quando fu emessa la sentenza) ve n'erano solo 11 disponibili, alcune delle quali peraltro assegnate a emittenti che trasmettono in forma criptata. La Corte, tuttavia, ritenne non incostituzionale l'art. 3 comma 6 (che ammette le proroghe), ma incostituzionale l'art. 3 comma 7 (per cui la fissazione della proroga al poter usare le frequenze terrestri prima del trasferimento obbligatorio alle trasmissioni digitali non era fissato dalla legge e la sua decisione era demandata all'Autorità per le comunicazioni) e fissò un limite improrogabile entro il 31 dicembre [[2003]] per il passaggio esclusivo al satellite e/o al cavo (basandosi su una valutazione dell'AGCOM che riteneva quella data sufficiente per trasferire tutte le trasmissioni di Rete 4 e TELE+ Nero su altre piattaforme tecnologiche), senza ovviamente entrare nello specifico del caso della ricorrente Europa 7 (che aveva chiesto di considerare incostituzionali entrambi i commi, in quanto "''l'attuale normativa di settore''", ovvero le proroghe per le reti eccedenti regolate dai due commi, "''le impedirebbe di utilizzare concretamente le frequenze che le sono state assegnate nella fase di pianificazione''"), che per le precedenti decisioni (il decreto ministeriale del luglio 1999) rimaneva comunque l'assegnataria delle frequenze che così si fossero liberate.<br />