Lettera VII: differenze tra le versioni

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|immagine = Delphi_Platon_statue_1.jpg
|didascalia = Presunto ritratto di Platone rinvenuto a Delfi
|autore = [[Platone]] o [[Speusippo]]
|annoorig = IV secolo a.C.
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}}
[[File:Epistole VII beginning. Codex Parisinus graecus 1807.jpg|thumb|L'inizio della ''Lettera VII'' in un manoscritto medievale (IX secolo), il più antico che sia stato conservato (Parigi, [[Bibliothèque Nationale]], ''Codex Parisinus graecus'' 1807)]]
La '''''Lettera VII''''', insieme alla ''Lettera VIII'', è un'epistola che la tradizione attribuisce a [[Platone]]. Scritta in prima persona, è di gran lunga la più lunga delle epistole del pensatore ateniese e offre un resoconto autobiografico delle sue attività in Sicilia nell'ambito degli intrighi tra Dione e Dionigi di Siracusa per la tirannia di Siracusa. Contiene anche un lungo intermezzo filosofico riguardante la possibilità di scrivere vere opere filosofiche e la teoria delle forme. Supponendo che la lettera sia autentica, fu scritta dopo l'assassinio di Dione da parte di Calippo[[Callippo (tiranno)|Callippo]] nel 353 a.C. e prima che quest'ultimo venisse a sua volta rovesciato un anno dopo.
 
Oggi viene reputata dalla maggioranza degli studiosi l'unica delle [[Lettere (Platone)|tredici lettere]] attribuibile al filosofo ateniese.<ref>In epoca recente l'autenticità della lettera è stata negata da Ludwig Edelstein, ''Plato's Seventh Letter'', Leiden, Brill, 1966 e in seguito da {{cita|Burnyeat e Frede}}. Per una rassegna degli studi sulla questione, vedere l'edizione curata da Filippo Forcignanò (2019), pp. 9-16, che la ritiene autentica.</ref> Nella lettera, Platone narra le principali fasi della sua formazione filosofica e politica,<ref>Secondo [[Luc Brisson]], che la considera autentica, si tratta del primo racconto autobiografico (con l{{'}}''Antidosi'' di [[Isocrate]]) della letteratura greca ([[Luc Brisson]], ''Lecture de Platon'', Parigi, Vrin, 2000, p. 15).</ref> soffermandosi in particolare sul fallimento dei tre tentativi fatti a [[Siracusa (città antica)|Siracusa]] per cercare di riformare la città, ponendovi a capo un re filosofo. La lettera è infatti la più importante fonte sui [[viaggi di Platone in Sicilia]],<ref name=riginos70.1>{{cita|Riginos|p. 70, nota 1}}.</ref><ref>{{cita|Monoson|p. 145}}.</ref> poiché essa ha un impianto sostanzialmente [[Autobiografia|autobiografico]]<ref>{{cita|Melling|p. 26}}.</ref> e il suo nucleo narrativo è rappresentato proprio dai tre viaggi.<ref name=vegetti108>[[Mario Vegetti]], «Platone», in {{cita|Eco e Fedriga|p. 108}}.</ref>
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La VII (come l'VIII) era indirizzata "ai parenti e agli amici di Dione" (τοῖς Δίωνος οἰκείοις τε καὶ ἑταίροις) e menziona la morte di Dione, avvenuta per mano di [[Callippo (tiranno)|Callippo]] nel giugno 354 a.C. Inoltre, essa presuppone che Callippo fosse al potere, per cui deve essere stata redatta prima del luglio 353 a.C., quando fu spodestato da [[Ipparino (tiranno)|Ipparino]]. La ''Lettera VIII'' deve essere di poco successiva.<ref>{{cita|Muccioli|p. 49}}.</ref> Se non composta da Platone, è ragionevole pensare che l'autore sia stato comunque un suo familiare o una persona a lui molto vicina, tanto da poter conoscerne a fondo la personalità e la vita: in questo caso si è ipotizzato che a scrivere la ''Lettera VII'' possa essere stato [[Speusippo]].<ref>M.I. Finley, ''Plato and Pratical Politics'', in ''Aspects of Antiquity'', Harmondsworth 1977, pp. 78-87.</ref>
 
==Autenticità della lettera==
Diogene Laerzio (III, 61-62) riporta che [[Aristofane di Bisanzio]], alla fine del [[III secolo a.C.]], inseriva le ''Lettere'' nella sua edizione delle opere platoniche insieme al ''[[Critone (dialogo)|Critone]]'' e al ''[[Fedone (dialogo)|Fedone]]'', e questa è la prima attestazione conosciuta dell'esistenza del ''corpus''. È probabile che Aristofane si sia rifatto ad una raccolta curata in ambiente accademico,<ref>Vedi {{cita|Muccioli|pp. 53-54}}, il quale, per spiegare il silenzio degli autori del IV e III secolo a.C. sul ''corpus'' delle epistole platoniche, ipotizza che per un lungo periodo le lettere fossero tenute segrete dall'Accademia.</ref> ma non è noto quante e quali lettere egli includesse nel proprio canone. La pubblicazione del papiro 1 Worp (v. oltre) da parte del papirologo Claudio Gallazzi,<ref>Brano corrispondente a 356a, 6-8. P.Mil.Vogl., inv. 1264 - Claudio Gallazzi, «Plato, Epistulae VIII 356A, 6-8», in ''[https://books.google.it/books?id=BEn60ZVLw0wC Sixty-five Papyrological Texts Presented to Klaas A. Worp on the Occasion of his 65th Birthday]'', Brill, Leiden 2008, pp. 1-4.</ref> tuttavia, ha rivelato che la ''Lettera VIII'' era riportata già in libri che circolavano nella prima età ellenistica (prima metà del III secolo a.C.); dato lo stretto e indubitabile legame tra la ''Lettera VII'' e la ''VIII'', è molto plausibile che le due lettere facessero parte del canone di cui parla Aristofane. Una silloge più ampia, che contiene lettere senz'altro spurie, è stata poi inclusa nella nona tetralogia dell'edizione degli scritti di Platone ad opera di [[Trasillo di Mende]] ([[I secolo d.C.]]). Sul canone di Trasillo Diogene offre maggiori informazioni, indicando numero e destinatari, che sono gli stessi del ''corpus'' conosciuto oggi.<ref name=morrow5-6/><ref>{{cita|Boas|p. 452}}, evidenzia che Diogene Laerzio non cita mai testualmente le tredici epistole, né le usa come fonte autorevole.</ref> È [[Cicerone]], alla metà del I secolo a.C., l'autore che per primo mostra di ritenere autentica la ''Lettera VII'', riportandone un passo fedelmente tradotto (326bc) e definendola «praeclara epistula Platonis ad Dionis propinquos» (''[[Tusculanae disputationes]]'', V, 35, 100).<ref>{{cita|Edelstein|p. 1, nota 4}}.</ref><ref name=morrow5>{{cita|Morrow|p. 5}}.</ref> Certamente, però, la preoccupazione per l'autenticità delle lettere non poté per gli antichi essere quella dei moderni. Esse dovettero essere ritenute autentiche in tutta l'antichità, ad eccezione della ''Lettera XII'', forse inclusa nel canone solo successivamente (cioè nel I secolo d.C.), ed ebbero immensa fortuna.<ref>{{cita|Muccioli|p. 46}}.</ref> I ''Prolegomena'' (XVI) riportano che l'intero ''corpus'' era ritenuto spurio da [[Proclo]] (V secolo d.C.), il quale del resto riteneva spurie anche la ''[[Repubblica (dialogo)|Repubblica]]'' e le ''[[Leggi (dialogo)|Leggi]]'': i dubbi sull'autenticità del ''corpus'' nascono con lui.<ref>{{cita|Morrow|p. 6}}.</ref> La posizione di Proclo resterà però inascoltata, almeno fino al Rinascimento, quando [[Marsilio Ficino]] sceglie di non tradurre in latino la ''Lettera XIII'', ritenendola spuria.<ref>{{cita|Cavarero|p. 7, nota 1}}.</ref>
 
Alla ''Lettera VII'' si rifà quasi certamente [[Plutarco]] (I-II secolo d.C.) per scrivere il suo ritratto di Dione nelle ''[[Vite parallele]]''. Di certo, ne cita testualmente alcuni passi e lo stesso fa con la IV e la XIII, mostrando di ritenerle autentiche.<ref>Riferimenti diretti di Plutarco alla ''Lettera VII'' sono in ''Dion'', 4, 11, 18, 20 e 54, anche se tali riferimenti sono generici e introdotti da espressione come "Platone ci dice". In ''Dion'', 8 e 52 troviamo riferimenti alla ''Lettera IV'', mentre in ''Dion'', 21, c'è un riferimento alla ''Lettera XIII''. Ci sono poi altri riferimenti di Plutarco alla ''Lettera VII'', meno espliciti, ma che ne riprendono abbastanza chiaramente dei passaggi: ad esempio, ''Dion'', 10, sembra riprendere i passi 321c, 331e e 332d della ''Lettera VII''; ''Dion'', 16, rinvia poi a 330a-b, a 333a-b e a 338a-b. ''Dion'', 22, sembra riprendere 350c. Cfr. {{cita|Morrow|pp. 19-20}}.</ref> [[Dionigi di Alicarnasso]]<ref>''De Admiranda Vi Dicendi in Demosthene'' (ed. [[Johann Jakob Reiske|Reiske]]), 1027.</ref> (I secolo a.C.) in più passi fa riferimento alle ''Lettere''.<ref name=morrow5/><ref>{{cita|Boas|pp. 439 e 446}}.</ref> Numerosissimi sono i riferimenti all'epistolario tra i retori, i grammatici e gli storici greci della tarda antichità: [[Publio Elio Aristide]], [[Stobeo]], [[Ateneo di Naucrati]], [[Galeno]], [[Luciano di Samosata|Luciano]], il ''De elocutione'' di Demetrio, [[Claudio Eliano]], [[Timeo Sofista]], [[Plotino]], [[Flavio Claudio Giuliano|Giuliano]].<ref>{{cita|Morrow|p. 5, nota 7}}.</ref>
 
Nel XIX secolo, le lettere sono state generalmente bollate come false, con l'eccezione di [[George Grote]],<ref>{{cita|Grote|p. 203, nota z}}.</ref> mentre [[Eduard Zeller]] rappresenta il capofila degli scettici. È a partire dalla prima metà del XX secolo che il dibattito si ravviva: con varie sfumature e distinguo, a favore dell'autenticità scrissero [[Hans Ræder]], [[Eduard Meyer]], [[Constantin Ritter]], [[Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff]], [[Otto Apelt]], [[Ernst Howald]], [[Levi Arnold Post]], [[Joseph Souilhé]], [[Richard Stanley Bluck]], [[Glenn R. Morrow]], [[Giorgio Pasquali]], [[Kurt von Fritz]] e [[Margherita Isnardi Parente]]; contro l'autenticità si espressero [[Gerhard Müller (filologo)|Gerhard Müller]], [[Paul Shorey]], [[George Boas]], [[Antonio Maddalena]], [[Peter Astbury Brunt]], [[Harold Cherniss]], [[Ludwig Edelstein]], [[Elizabeth Gwyn Caskey]], [[Norman Gulley]], [[Malcolm Schofield]], nonché [[Myles Burnyeat]] e [[Michael Frede]].<ref name=riginos70.1/><ref>{{cita|Friedländer|p. 236}}.</ref><ref>{{cita|Boas|p. 454}}.</ref><ref>{{cita|Muccioli|p. 47, nota 84}}.</ref><ref>{{en}} ''[https://books.google.it/books?id=SYV7DwAAQBAJ Virtues in the Public Sphere: Citizenship, Civic Friendship and Duty]'', a cura di James Arthur, Routledge, 2018, p. 168.</ref><ref>{{cita|Cavarero|p. 7, nota 2}}.</ref>
 
Chi obietta sull'autenticità della ''Lettera VII'' ipotizza che il falsario abbia attinto ai dialoghi platonici, riversando nel testo motivi polemici propri dell'ambiente dell'Accademia. Chi invece sostiene l'autenticità della lettera rimarca l'aderenza del testo al resto della produzione platonica, arguendo che, se non proprio di Platone si tratta, quanto meno l'autore deve essere stato persona a lui assai prossima, come ad esempio il nipote [[Speusippo]]. Se tale seconda ipotesi è valida, la lettera acquista un grande valore documentario.<ref name=vegetti108/>
 
Boas, ad esempio, sottolinea che è assai strano che un autore come Platone, che ha scritto due trattati di politica (''La Repubblica'' e ''Le leggi''), non faccia la minima menzione dell'esperienza siciliana. E lo stesso curioso silenzio arriva da Aristotele (che pure ha scritto di politica). Considerando che tra la morte di Platone e l'edizione di Aristofane sono passati 125 anni o più, non è difficile ipotizzare che le tredici lettere siano state contraffatte.<ref>{{cita|Boas|p. 453}}.</ref> Analizzando i punti della ''Lettera VII'' che riecheggiano passaggi dai dialoghi, Boas osserva che in molti casi l'autore della lettera fraintende tali passaggi o ne rovescia il significato. Inoltre, a parere di Boas, è possibile intravedere alcuni "echi aristotelici" nel testo della lettera, in particolare nella nota "digressione filosofica" (341a-345c), come nel caso della parola ἐπιχείρησιν (in 341e, da ''[[Topici]]'', 111 b, 16; 139 b, 10) e l'espressione τὸ ποιόν τι (342e), una classica invenzione aristotelica.<ref>{{cita|Boas|pp. 455-456}}.</ref> A Boas ha risposto Bluck, cercando di confutare tutti i punti.<ref>«Plato's Biography: The Seventh Letter», in ''The Philosophical Review'', vol. 58, No. 5 (settembre 1949), pp. 503-509.</ref>
 
[[Luciano Canfora]] si dichiara convinto dell'autenticità della ''Lettera VII'' e riconosce in essa un ben definito indirizzo politico che Platone intendeva realizzare in Sicilia.<ref>''La crisi dell'utopia: Aristofane contro Platone'', Gius. Laterza & Figli Spa 2014, Capitolo IV. L’‘autobiografia’ di Platone.</ref> Canfora ritiene inoltre che il papiro 1 Worp sia una ulteriore e fortissima prova a favore dell'autenticità della lettera. A riguardo, scrive Filippo Forcignanò<ref>''Introduzione a Platone, Settima lettera'', Roma, Carocci, 2020, p. 48.</ref>:
 
{{citazione|La straordinarietà del papiro P. Mil. Vogl. 1264 [1 Worp] pubblicato da Gallazzi consiste nel fatto che ci permette di considerare la Settima lettera (in virtù del suo legame con l'Ottava) ben più antica dell’età di Cicerone. Questa informazione è coerente con quanto già sottolineato da Wilamowitz, vale a dire che Aristofane di Bisanzio (tra il 257 e il 180 a.C.) leggeva, nella raccolta che aveva a disposizione ad Alessandria, alcune lettere platoniche. C’è un’unica spiegazione possibile alla circolazione in Egitto nel III secolo a.C. pochi anni dopo la fondazione della Biblioteca, ed è stata evidenziata con grande cura da Luciano Canfora: il testo di Platone che era giunto da Atene comprendeva quelle lettere. Platone era morto da poco più di mezzo secolo, dunque è nel contesto dell'{{sic|Academia}} che le due lettere hanno visto l’elaborazione e la diffusione. Lettere che l'{{sic|Academia}} ha voluto circolassero attribuite a Platone. Questo non implica, a rigore, che Platone le abbia anche scritte - e, ovviamente, non lo esclude: conferma, però, che non possono essere di molto successive alla sua morte. Non c’è dunque motivo di dubitare aprioristicamente dell’autenticità della Settima lettera.}}
 
== Gli intenti politici di Platone in Sicilia ==
{{vedi anche|Viaggi di Platone in Sicilia}}
[[File:Dionysius_I_of_Syracuse.jpg|thumb|[[Dionisio I di Siracusa]]]]
I parenti del defunto Dione scrivono a Platone per avere da lui qualche consiglio. Nel rispondere, il filosofo approfitta dell'occasione per ricordare la sua gioventù, il suo iniziale interesse per la [[politica]] e il suo distacco da essa a seguito del fallimento del regime dei [[Trenta Tiranni]] e della [[morte]] di [[Socrate]], da cui la decisione di dedicarsi alla filosofia. Platone ricorda infatti di essere stato invitato dai parenti ad entrare a far parte del governo di [[Atene]] durante la tirannide dei Trenta, verso cui nutriva grandi speranze per il risanamento della ''polis''. Grande però fu la delusione quando il loro governo si dimostrò di gran lunga peggiore dei precedenti, e la delusione si accrebbe ancor di più quando la rinata democrazia, più moderata, finì col condannare a morte Socrate, l'uomo più savio di Atene, che in più di un'occasione si era rifiutato di compiere le nefandezze ordinategli dai Trenta.<ref>''Lettera VII'' 324c-325d.</ref> Amareggiato da tanta corruzione morale, Platone decise allora di dedicarsi alla filosofia (326b). Non per questo però si dimenticò della politica, ma anzi cercò a più riprese di dare concretezza ai suoi progetti, così da non essere ricordato come un semplice «facitore di parole» (328c).
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== La critica della scrittura e le «dottrine non scritte» ==
{{vedi anche|Dottrine non scritte di Platone}}
Oltre ai temi biografici e politici, la ''Lettera VII'' ha attirato l'interesse degli interpreti contemporanei anche per la critica della scrittura in essa contenuta, che può senz'altro essere messa in relazione con ''[[Fedro (dialogo)|Fedro]]'' 274b-276a. In particolare, a destare attenzione è il passo 341c, in cui Platone dice:
 
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{{citazione|Perciò, chi è serio, si guarda bene dallo scrivere di cose serie, per non esporle all'odio e all'ignoranza degli uomini. Da tutto questo si deve concludere, in una parola, che, quando si legge lo scritto di qualcuno, siano leggi di legislatore o scritti d'altro genere, se l'autore è davvero un uomo, le cose scritte non erano per lui le cose più serie, perché queste egli le serba riposte nella parte più bella che ha.|Trad.: A. Maddalena, Roma-Bari 1966}}
 
Platone sembra dire che vi sarebbero delle dottrine della massima importanza, che però non possono essere comunicate per iscritto per via della debolezza intrinseca di questo mezzo, e che devono essere tenute nascoste ai più, perché incapaci di comprenderle. Alla ricostruzione di queste «dottrine non scritte» (''agrapha dogmata'') si sono dedicati, a partire dagli [[anni 19801950|anni ottantacinquanta del XX secolo]], gli studiosi facenti parte della cosiddetta Scuolascuola di Tubinga (o scuola di Tubinga-Milano). Secondo questi interpreti, professori nelle [[università di Tubinga]] ([[Hans Krämer|Krämer]], [[Konrad Gaiser|Gaiser]], [[Thomas A. Szlezák|Szlezák]]) e [[Università Cattolica del Sacro Cuore|Cattolica di Milano]] ([[Giovanni Reale]], [[Maurizio Migliori]] e [[Giuseppe Girgenti]]), vi sarebbe una dottrina segreta che Platone ha preferito comunicare solo oralmente e solo ai propri allievi, alla quale avrebbe fatto riferimento di tanto in tanto nei dialoghi e che è possibile ricostruire attraverso le testimonianze di [[Aristotele]] e pochi altri ([[Sesto Empirico]], [[Alessandro di Afrodisia]], [[Aristosseno]]).<ref>G. Reale, ''Platone. Alla ricerca della sapienza segreta'', Milano 1998, pp. 115-120. Nell'interpretazione della Scuola di Tubinga-Milano, i testi scritti fungono solo da supporto («soccorso») alla memoria, mentre le «cose di maggior valore» sono trattate oralmente.</ref> Fare luce su queste dottrine significa pervenire al cuore stesso della filosofia platonica, allontanandosi dall'interpretazione tradizionale per fornirne una nuova e rivoluzionaria (quello che questi studiosi chiamano «nuovo paradigma ermeneutico»), in grado di risolvere molti dei problemi interpretativi più dibattuti.<ref>G. Reale, ''Platone'', cit., pp. 321-325.</ref> La nuova immagine di Platone che ne risulta supera il dualismo oggetti sensibili/realtà ideale, mostrando come la stessa dottrina delle idee sia solo una parte di una più ampia e complessa dottrina dei princìpi.<ref>Oltre al mondo sensibile e al mondo delle idee esisterebbe, al di là di quest'ultimo, un superiore piano ontologico (primario) occupato dai princìpi primi (Uno e Diade), da cui discendono le idee; inoltre, particolare risalto viene dato ai concetti matematici e alla loro particolare posizione. Vedi il paragrafo: [[Platone#Le dottrine non scritte: l'Uno e la Diade|Le dottrine non scritte]].</ref>
 
Tuttavia, va detto che questa interpretazione così rivoluzionaria non è accettata da tutti gli studiosi, ma, anzi, la sua comparsa è stata accompagnata da vivaci polemiche. Questo perché le critiche alla scrittura di cui si è detto non rimandano necessariamente all'esistenza di una sapienza segreta. In particolare, molti studiosi fanno notare che nei passi citati Platone avrebbe più semplicemente voluto dire che la verità non si apprende banalmente dai libri o dai testi scritti in generale, bensì dall'indagine interiore e dal dialogo continuo; ed essendo una conquista dell'anima, «essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma si accende da fuoco che balza» (341c-d). In questo senso, i dialoghi non avrebbero valore ultimativo, poiché la ricerca filosofica deve essere continuata al di là dello scritto, nell'anima, e la sua acquisizione è un evento immediato e improvviso, non comunicabile.<ref>F. Trabattoni, ''Scrivere nell'anima'', Firenze 1994, pp. 200-245.</ref> D'altra parte, la stessa incomunicabilità di queste dottrine porterebbe a pensare che non solo la scrittura, ma anche l'oralità non sia in grado di trasmetterle.<ref>M. Isnardi Parente, ''Filosofia e politica nelle Lettere di Platone'', Napoli 1970, pp. 152-154.</ref> Infine, per quanto riguarda la ricostruzione di queste dottrine orali, in molti hanno messo in dubbio la validità delle testimonianze di Aristotele e Sesto Empirico – il primo perché scrisse quei passi animato da spirito teoretico e non storiografico, interessato cioè a confrontarsi con le teorie dei predecessori reinterpretandole alla luce della sua filosofia,<ref>Si vedano al riguardo i contributi di [[Margherita Isnardi Parente]] a: E. Zeller, R. Mondolfo, ''La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico'', vol. III/1, Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp. 108-131, vol. III/2, pp. 907-14, 938-963.</ref> e il secondo, nonostante un diverso approccio alle dottrine precedenti, perché vissuto molti secoli dopo Platone.
 
== Autenticità della lettera ==
[[Diogene Laerzio]] (III, 61-62) riporta che [[Aristofane di Bisanzio]], alla fine del [[III secolo a.C.]], inseriva le ''Lettere'' nella sua edizione delle opere platoniche insieme al ''[[Critone (dialogo)|Critone]]'' e al ''[[Fedone (dialogo)|Fedone]]'', e questa è la prima attestazione conosciuta dell'esistenza del ''corpus''. È probabile che Aristofane si sia rifatto ad una raccolta curata in ambiente accademico,<ref>Vedi {{cita|Muccioli|pp. 53-54}}, il quale, per spiegare il silenzio degli autori del IV e III secolo a.C. sul ''corpus'' delle epistole platoniche, ipotizza che per un lungo periodo le lettere fossero tenute segrete dall'Accademia.</ref> ma non è noto quante e quali lettere egli includesse nel proprio canone. La pubblicazione del papiro 1 Worp (v. oltre) da parte del papirologo Claudio Gallazzi,<ref>Brano corrispondente a 356a, 6-8. P.Mil.Vogl., inv. 1264 - Claudio Gallazzi, «Plato, Epistulae VIII 356A, 6-8», in ''[https://books.google.it/books?id=BEn60ZVLw0wC Sixty-five Papyrological Texts Presented to Klaas A. Worp on the Occasion of his 65th Birthday]'', Brill, Leiden 2008, pp. 1-4.</ref> tuttavia, ha rivelato che la ''Lettera VIII'' era riportata già in libri che circolavano nella prima età ellenistica (prima metà del III secolo a.C.); dato lo stretto e indubitabile legame tra la ''Lettera VII'' e la ''VIII'', è molto plausibile che le due lettere facessero parte del canone di cui parla Aristofane. Una silloge più ampia, che contiene lettere senz'altro spurie, è stata poi inclusa nella nona tetralogia dell'edizione degli scritti di Platone ad opera di [[Trasillo di Mende]] ([[I secolo d.C.]]). Sul canone di Trasillo, Diogene offre maggiori informazioni, indicando numero e destinatari, che sono gli stessi del ''corpus'' conosciuto oggi.<ref name=morrow5-6/><ref>{{cita|Boas|p. 452}}, evidenzia che Diogene Laerzio non cita mai testualmente le tredici epistole, né le usa come fonte autorevole.</ref> È [[Cicerone]], alla metà del I secolo a.C., l'autore che per primo mostra di ritenere autentica la ''Lettera VII'', riportandone un passo fedelmente tradotto (326bc) e definendola «praeclara epistula Platonis ad Dionis propinquos» (''[[Tusculanae disputationes]]'', V, 35, 100).<ref>{{cita|Edelstein|p. 1, nota 4}}.</ref><ref name=morrow5>{{cita|Morrow|p. 5}}.</ref> Certamente, però, la preoccupazione per l'autenticità delle lettere non poté per gli antichi essere quella dei moderni. Esse dovettero essere ritenute autentiche in tutta l'antichità, ad eccezione della ''Lettera XII'', forse inclusa nel canone solo successivamente (cioè nel I secolo d.C.), ed ebbero immensa fortuna.<ref>{{cita|Muccioli|p. 46}}.</ref> I ''Prolegomena'' (XVI) riportano che l'intero ''corpus'' era ritenuto spurio da [[Proclo]] (V secolo d.C.), il quale del resto riteneva spurie anche la ''[[Repubblica (dialogo)|Repubblica]]'' e le ''[[Leggi (dialogo)|Leggi]]'': i dubbi sull'autenticità del ''corpus'' nascono con lui.<ref>{{cita|Morrow|p. 6}}.</ref> La posizione di Proclo resterà però inascoltata, almeno fino al Rinascimento, quando [[Marsilio Ficino]] sceglie di non tradurre in latino la ''Lettera XIII'', ritenendola spuria.<ref>{{cita|Cavarero|p. 7, nota 1}}.</ref>
 
Alla ''Lettera VII'' si rifà quasi certamente [[Plutarco]] (I-II secolo d.C.) per scrivere il suo ritratto di Dione nelle ''[[Vite parallele]]''. Di certo, ne cita testualmente alcuni passi e lo stesso fa con la IV e la XIII, mostrando di ritenerle autentiche.<ref>Riferimenti diretti di Plutarco alla ''Lettera VII'' sono in ''Dion'', 4, 11, 18, 20 e 54, anche se tali riferimenti sono generici e introdotti da espressione come "Platone ci dice". In ''Dion'', 8 e 52 troviamo riferimenti alla ''Lettera IV'', mentre in ''Dion'', 21, c'è un riferimento alla ''Lettera XIII''. Ci sono poi altri riferimenti di Plutarco alla ''Lettera VII'', meno espliciti, ma che ne riprendono abbastanza chiaramente dei passaggi: ad esempio, ''Dion'', 10, sembra riprendere i passi 321c, 331e e 332d della ''Lettera VII''; ''Dion'', 16, rinvia poi a 330a-b, a 333a-b e a 338a-b. ''Dion'', 22, sembra riprendere 350c. Cfr. {{cita|Morrow|pp. 19-20}}.</ref> [[Dionigi di Alicarnasso]]<ref>''De Admiranda Vi Dicendi in Demosthene'' (ed. [[Johann Jakob Reiske|Reiske]]), 1027.</ref> (I secolo a.C.) in più passi fa riferimento alle ''Lettere''.<ref name=morrow5/><ref>{{cita|Boas|pp. 439 e 446}}.</ref> Numerosissimi sono i riferimenti all'epistolario tra i retori, i grammatici e gli storici greci della tarda antichità: [[Publio Elio Aristide]], [[Stobeo]], [[Ateneo di Naucrati]], [[Galeno]], [[Luciano di Samosata|Luciano]], il ''De elocutione'' di Demetrio, [[Claudio Eliano]], [[Timeo Sofista]], [[Plotino]], [[Flavio Claudio Giuliano|Giuliano]].<ref>{{cita|Morrow|p. 5, nota 7}}.</ref>
 
Nel XIX secolo, le lettere sono state generalmente bollate come false, con l'eccezione di [[George Grote]],<ref>{{cita|Grote|p. 203, nota z}}.</ref> mentre [[Eduard Zeller]] rappresenta il capofila degli scettici. È a partire dalla prima metà del XX secolo che il dibattito si ravviva: con varie sfumature e distinguo, a favore dell'autenticità scrissero [[Hans Ræder]], [[Eduard Meyer]], [[Constantin Ritter]], [[Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff]], [[Otto Apelt]], [[Ernst Howald]], [[Levi Arnold Post]], [[Joseph Souilhé]], [[Richard Stanley Bluck]], [[Glenn R. Morrow]], [[Giorgio Pasquali]], [[Kurt von Fritz]] e [[Margherita Isnardi Parente]]; contro l'autenticità si espressero [[Gerhard Müller (filologo)|Gerhard Müller]], [[Paul Shorey]], [[George Boas]], [[Antonio Maddalena]], [[Peter Astbury Brunt]], [[Harold Cherniss]], [[Ludwig Edelstein]], [[Elizabeth Gwyn Caskey]], [[Norman Gulley]], [[Malcolm Schofield]], nonché [[Myles Burnyeat]] e [[Michael Frede]].<ref name=riginos70.1/><ref>{{cita|Friedländer|p. 236}}.</ref><ref>{{cita|Boas|p. 454}}.</ref><ref>{{cita|Muccioli|p. 47, nota 84}}.</ref><ref>{{en}} ''[https://books.google.it/books?id=SYV7DwAAQBAJ Virtues in the Public Sphere: Citizenship, Civic Friendship and Duty]'', a cura di James Arthur, Routledge, 2018, p. 168.</ref><ref>{{cita|Cavarero|p. 7, nota 2}}.</ref>
 
Chi obietta sull'autenticità della ''Lettera VII'' ipotizza che il falsario abbia attinto ai dialoghi platonici, riversando nel testo motivi polemici propri dell'ambiente dell'Accademia. Chi invece sostiene l'autenticità della lettera rimarca l'aderenza del testo al resto della produzione platonica, arguendo che, se non proprio di Platone si tratta, quanto meno l'autore deve essere stato persona a lui assai prossima, come ad esempio il nipote [[Speusippo]]. Se tale seconda ipotesi è valida, la lettera acquista un grande valore documentario.<ref name=vegetti108/>
 
Boas, ad esempio, sottolinea che è assai strano che un autore come Platone, che ha scritto due trattati di politica (''La Repubblica'' e ''Le leggi''), non faccia la minima menzione dell'esperienza siciliana. E lo stesso curioso silenzio arriva da Aristotele (che pure ha scritto di politica). Considerando che tra la morte di Platone e l'edizione di Aristofane sono passati 125 anni o più, non è difficile ipotizzare che le tredici lettere siano state contraffatte.<ref>{{cita|Boas|p. 453}}.</ref> Analizzando i punti della ''Lettera VII'' che riecheggiano passaggi dai dialoghi, Boas osserva che in molti casi l'autore della lettera fraintende tali passaggi o ne rovescia il significato. Inoltre, a parere di Boas, è possibile intravedere alcuni "echi aristotelici" nel testo della lettera, in particolare nella nota "digressione filosofica" (341a-345c), come nel caso della parola ἐπιχείρησιν (in 341e, da ''[[Topici]]'', 111 b, 16; 139 b, 10) e l'espressione τὸ ποιόν τι (342e), una classica invenzione aristotelica.<ref>{{cita|Boas|pp. 455-456}}.</ref> A Boas ha risposto Bluck, cercando di confutare tutti i punti.<ref>«Plato's Biography: The Seventh Letter», in ''The Philosophical Review'', vol. 58, No. 5 (settembre 1949), pp. 503-509.</ref>
 
[[Luciano Canfora]] si dichiara convinto dell'autenticità della ''Lettera VII'' e riconosce in essa un ben definito indirizzo politico che Platone intendeva realizzare in Sicilia.<ref>''La crisi dell'utopia: Aristofane contro Platone'', Gius. Laterza & Figli Spa 2014, Capitolo IV. L’‘autobiografia’ di Platone.</ref> Canfora ritiene inoltre che il papiro 1 Worp sia una ulteriore e fortissima prova a favore dell'autenticità della lettera. AAl riguardo, scrive Filippo Forcignanò<ref>''Introduzione a Platone, Settima lettera'', Roma, Carocci, 2020, p. 48.</ref>:
 
{{citazione|La straordinarietà del papiro P. Mil. Vogl. 1264 [1 Worp] pubblicato da Gallazzi consiste nel fatto che ci permette di considerare la Settima lettera (in virtù del suo legame con l'Ottava) ben più antica dell’età di Cicerone. Questa informazione è coerente con quanto già sottolineato da Wilamowitz, vale a dire che Aristofane di Bisanzio (tra il 257 e il 180 a.C.) leggeva, nella raccolta che aveva a disposizione ad Alessandria, alcune lettere platoniche. C’è un’unica spiegazione possibile alla circolazione in Egitto nel III secolo a.C. pochi anni dopo la fondazione della Biblioteca, ed è stata evidenziata con grande cura da Luciano Canfora: il testo di Platone che era giunto da Atene comprendeva quelle lettere. Platone era morto da poco più di mezzo secolo, dunque è nel contesto dell'{{sic|Academia}} che le due lettere hanno visto l’elaborazione e la diffusione. Lettere che l'{{sic|Academia}} ha voluto circolassero attribuite a Platone. Questo non implica, a rigore, che Platone le abbia anche scritte - e, ovviamente, non lo esclude: conferma, però, che non possono essere di molto successive alla sua morte. Non c’è dunque motivo di dubitare aprioristicamente dell’autenticità della Settima lettera.}}
 
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