Guerra fredda: differenze tra le versioni

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Alla fine degli [[anni 1950]] ritornò di primo piano anche la questione di Berlino, il cui ''status'' ancora non era stato ben definito. Da tempo l'Unione Sovietica chiedeva per la Germania la fine dell'occupazione e la creazione di un paese unito e neutrale similmente a quanto era [[Trattato di Stato austriaco|stato fatto con l'Austria]] nel 1955. I sovietici erano in particolare preoccupati dalla fuga degli abitanti della Germania est, quasi due milioni tra il 1949 e il 1959, verso Berlino ovest e da qui verso l'occidente attratti dalle migliori condizioni di vita offerte dai paesi non comunisti.<ref>{{cita|Smith, 2000|pp. 59-61}}.</ref>
 
Nel novembre del 1958, Chruščëv lanciò agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna e alla Francia un ''ultimatum'' di sei mesi affinché ritirassero le loro truppe dai settori che occupavano ancora a Berlino Ovest, o avrebbe trasferito il controllo dei diritti di accesso occidentali alle autorità della Germania dell'est, autorità che le potenze occidentali non riconoscevano. Chruščëv giustificò tale iniziativa asserendo che Berlino fosse "un trampolino di lancio per intensive azioni di spionaggio, sabotaggio e altre attività sovversive". Eisenhower fu risoluto nel non cedere poiché riteneva "un obbligo solenne difendere i cittadini di Berlino Ovest" ma non era nemmeno sua intenzione scatenare una guerra dai probabili esiti catastrofici, così non lo erano i sovietici che proposero il ritiro dell{{'}}''ultimatum'' in cambio di un vertice tra le potenze sulla questione tedesca.<ref>{{cita|Gaddis, 2005|p. 71}}.</ref><ref>{{cita|Smith, 2000|pp. 61-62}}.</ref>
 
I primi colloqui tra i ministeri degli esteri si tennero a [[Ginevra]], seguiti da una visita di quasi due settimane di Chruščëv negli Stati Uniti. Infine, venne organizzato per il maggio 1960 il richiesto vertice a Parigi. Tuttavia, il ''summitt'' si rivelò fallimentare a causa della [[crisi degli U-2]] durante la quale venne dimostrato che Eisenhower avesse mentito circa l'intrusione di [[aereo spia|aerei spia]] statunitensi nel territorio sovietico. Chruščëv abbandonò i negoziati e la questione di Berlino rimase in sospeso.<ref name="Smith_A">{{cita|Smith, 2000|p. 62}}.</ref>
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[[File:Bruce Crandall's UH-1D.jpg|min|sinistra|Soldati statunitensi in combattimento nel Vietnam]]
 
A seguito della sconfitta nella [[guerra d'Indocina]], nel 1954 la [[Francia]] fu costretta ad abbandonare il [[Vietnam]] e il paese venne diviso in due: il [[Vietnam del Nord]] comunista e il [[Vietnam del Sud]] alleato degli Stati Uniti. Contestualmente entrò in attività il [[Fronte di liberazione nazionale del Vietnam|Fronte di Liberazione Nazionale]] (conosciuto in occidente come ''Viet Cong''), un gruppo armato di resistenza contro il regime filo-statunitense Sudsud. Preoccupato del possibile dilagare del comunismo in tutta la penisola già dal 1962 il presidente Kennedy mandò alcuni consiglieri militari sul posto. Ma fu sotto la presidenza [[Lyndon Johnson|Johnson]], e in seguito all'[[incidente del golfo del Tonchino]], che si ebbe una tale ''escalation'' da portare ad [[guerra del Vietnam|una guerra aperta]] con il diretto impegno di truppe statunitensi che arrivarono a contare fino a circa mezzo milione di uomini dispiegati.<ref>{{cita|Harper, 2020|p. 185}}.</ref><ref>{{cita|Sabbatucci e Vidotto, 2019|p. 430}}.</ref>
 
Nonostante le ingenti forze dispiegate da statunitensi e esercito del Sud, agli [[Operazione Rolling Thunder|intensi bombardamenti]] e alle gravi perdite subite, la resistenza vietnamita non venne mai piegata. Diversi furono i fattori che contribuirono all'insuccesso americano: certamente gli aiuti da parte di Cina e Unione Sovietica furono determinanti per l'esercito del Nord, ma anche il sostegno da parte della massa di contadini, il sentimento nazionalistinazionalista e l'incapacità statunitense di stabilire una chiara strategia e di fronteggiare la [[guerriglia]] giocarono un ruolo fondamentale.<ref>{{cita|Harper, 2020|p. 180}}.</ref><ref name="SabbatucciVidotto_B">{{cita|Sabbatucci e Vidotto, 2019|pp. 430-431}}.</ref>
 
[[File:FSU protest Tallahassee rc01458.jpg|min|Protesta di studenti americani contro la guerra]]
 
Gli insuccessi sul campo, le gravi perdite tra le proprie file e i massacri di cui l'esercito statunitense si macchiò scatenarono in patria, dove giungevano in televisione le immagini della tragedia, fortissime critiche verso l'intervento militare. Un vasto movimento pacifista [[Opposizione alla guerra del Vietnam|si mobilitò contro]] la "sporca" guerra con grandi manifestazioni. L'[[Offensiva del Têt]] del 1968 compiuta dai nord-vietnamiti smentì le previsioni dei vertici militari statunitensi circa la possibilità di un'imminente vittoria nel conflitto. Gli eventi costrinsero il presidente Johnson ad interrompere i bombardamenti e a dichiarare che non si sarebbe più ricandidato alla presidenza. Il suo successore, [[Richard Nixon]], iniziò una "[[vietnamizzazione]]" del conflitto con un progressivo disimpegno statunitense.<ref>{{cita|Sabbatucci e Vidotto, 2019|p. 431}}.</ref><ref>{{cita|Smith, 2000|p. 95}}.</ref><ref>{{cita|Harper, 2020|pp. 190-191}}.</ref>
 
Nel 1973 si raggiunsero degli [[Accordi di pace di Parigi (1973)|accordi di pace a Parigi]] ma il conflitto proseguì per altri due anni quando [[Caduta di Saigon|Saigon cadde]] costringendo gli statunitensi ad una ingloriosa fuga dalla loro ambasciata. Negli stessi giorni, in [[Cambogia]] i [[Khmer rossi]] avevano scalzato il governo filo-occidentale e anche il [[Laos]] era caduto. Tutta l'[[Indocina]] era divenuta comunista.<ref>{{cita|Smith, 2000|p. 98}}.</ref><ref>{{cita|Sabbatucci e Vidotto, 2019|pp. 431-432}}.</ref> Gli oltre dieci anni di guerra costarono agli Stati Uniti oltre {{M|50000}} morti e un vero e proprio ''shock''. La sua economia, la struttura militare e la sua immagine di potenza democratica ne uscirono profondamente compromesse.<ref name="SabbatucciVidotto_B" /><ref>{{cita|Harper, 2020|p. 190}}.</ref>
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Nel 1968 il segretario del partito comunista della [[Cecoslovacchia]], [[Alexander Dubček]], inaugurò un periodo, noto come [[Primavera di Praga]], di liberalizzazioni che comprendeva un aumento delle libertà personali, l'adozione di un sistema multipartitico, la limitazione al potere della polizia segreta e un'economia basata anche sui beni di consumo. In proposito si parlò di "[[Socialismo democratico|socialismo dal volto umano]]".<ref>{{cita|Sabbatucci e Vidotto, 2019|p. 433}}.</ref>
 
In risposta, il 20 agosto 1968, l'esercito sovietico, insieme alla maggior parte dei loro alleati del Patto di Varsavia, [[Invasione della Cecoslovacchia da parte del Patto di Varsavia|invase la Cecoslovacchia]]. Inizialmente la reazione dei cecoslovacchi fu efficace, grazie a scioperi e resistenza passiva, ma successivamente i sovietici riuscirono a emarginare i dissidenti e a sostituire la dirigenza locale con una maggiormente affine a Mosca: Dubček fu sostituito con [[Gustáv Husák]] che iniziò un periodo di "[[Normalizzazione (Cecoslovacchia)|normalizzazione]]" che «tolse ogni residuo di libertà».<ref name="SabbatucciVidotto" /> tale evento seguì un'ondata di [[emigrazione]] che coinvolse alla fine circa {{formatnum:300000}} cechi e slovacchi che dovettero abbandonare il paese. L'invasione scatenò intense proteste da parte della [[Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia|Jugoslavia]], della [[Repubblica Socialista di Romania|Romania]], della [[Cina]] e dei partiti comunisti dell'Europa occidentale.<ref name="Gaddis 2005, p. 154">{{cita|Gaddis, 2005|p. 154}}.</ref>
 
===Dottrina Brežnev===
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[[File:Carter Brezhnev sign SALT II.jpg|sinistra|min|[[Leonid Il'ič Brežnev]] e [[Jimmy Carter]] firmano il trattato [[SALT II]]]]
 
Le trattative per un nuovo accordo sulle [[armi nucleari]] vennero riprese dal nuovo presidente statunitense [[Jimmy Carter]]. Tuttavia, volendo distaccarsi dalla bozza di Ford che aveva pesantemente criticato in campagna elettorale, Carter suscitò la disapprovazione dei sovietici rallentando l'iter diplomatico. Carter inoltre accusò i sovietici di non rispettare i [[diritti umani]] richiamandoli ad ottemperare agiliagli [[accordi di Helsinki]]; Mosca rispose diffidando il [[governo statunitense]] nell'intromettersi nella loro politica interna.<ref>{{cita|Smith, 2000|pp. 152-154}}.</ref>
 
Nel 1977 i servizi segreti occidentali scoprirono che l'[[URSS]] aveva messo a punto una nuova categoria di sistema missilistico [[RSD-10]] (che al tempo divenne noto come [[SS-20]]) e ne aveva in corso il suo dispiegamento, questo sistema alterava fortemente l'equilibrio di forze fra [[NATO]] e [[Patto di Varsavia]], ponendo quest'ultimo in decisa posizione di vantaggio, avendo una gittata in grado di coprire tutta l'[[blocco occidentale|Europa occidentale]], con maggior precisione sull'obiettivo rispetto ai precedenti missili sovietici, trasportando inoltre multiple testate atomiche indipendenti; inoltre la sua elevata mobilità lo rendeva meno vulnerabile in caso di conflitto. I piani sovietici prevedevano il dispiegamento di 300 lanciatori SS-20 in 18 basi, di queste 12 risultavano già operative. Inoltre era in corso il dispiegamento di un nuovo modello del bombardiere [[Tupolev Tu-22M]], in grado di volare ad alta velocità, ma a bassa quota sfuggendo ai radar. Questo salto qualitativo degli armamenti da teatro trovava la NATO completamente impreparata e priva di armamenti in grado di controbilanciare lo squilibrio e di fornire, in caso di attacco una risposta simile, per cui l'unica reazione in caso d'attacco avrebbe dovuto manifestarsi tramite il lancio di [[Missile balistico intercontinentale|missili intercontinentali]]<ref>{{Cita pubblicazione|titolo=Rapporti est-ovest 1977-79 La vicenda degli euromissili|autore=Antonio Ciarrapico|rivista=Rivista di Studi Politici Internazionali|volume=Vol. 69|numero=No. 3 (275)|anno=2002|mese=Luglio-Settembre|editore=|pp=363-380|url=https://www.jstor.org/stable/42741307|cid=Ciarrapico}}</ref>.