Vittorio Dabormida: differenze tra le versioni

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{{P|toni enfatici|militari|luglio 2010}}
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{{militare
|Nome = Vittorio Emanuele Dabormida
|Immagine = VITTORIO E DABORMIDA.jpg
|Didascalia =
|Soprannome =
|Data_di_nascita = [[22 novembre]] [[1842]]
|Nato_a = [[Torino]]
|Data_di_morte = [[1º marzo]] [[1896]]
|Morto_a = [[Adua]]
|Cause_della_morte =
|Luogo_di_sepoltura =
|Etnia = <!-- solo se enciclopedica -->
|Religione = <!-- solo se enciclopedica -->
|Nazione_servita = {{Bandiera|ITA 1861-1946}} [[Regno d'Italia (1861-1946)|Regno d'Italia]]
|Forza_armata = [[Regio esercito]]
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|Guerre = [[Terza guerra d'indipendenza italiana]]<br />[[Guerra d'Abissinia]]
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|Battaglie = [[Battaglia di Adua]]
|Comandante_di =
|Decorazioni = [[Vittorio Dabormida#Onorificenze|vedi qui]]
|Studi_militari =[[Accademia Militare di Modena|Regia Accademia Militare]] di [[Torino]]
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}}
{{Bio
|Nome = Vittorio Emanuele
|Cognome = da BormidaDabormida
|PostCognomeVirgola =
|PreData =
|Sesso = M
|LuogoNascita = Torino
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|GiornoMeseMorte = 1º marzo
|AnnoMorte = 1896
|Attività = generale
|Epoca = 1800
|Attività = generale
|Attività2 =
|AttivitàAltre = &nbsp;di divisione del [[Regio Esercito]]
|Nazionalità = italiano
|PostNazionalità = , autore di una serie di pubblicazioni relative all'arte militare, edcaduto eroenella che[[battaglia di Adua]]. pagòDecorato con la vita[[Medaglia ild'oro suoal attaccamentovalor alla [[Patriamilitare]] edalla ilmemoria suoe supremola senso{{senza delfonte|[[Ordine doveremilitare nelladi [[battagliaSavoia|Croce di AduaCommendatore dell'Ordine militare di Savoia]]}}
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|Didascalia =
}}
 
== Carriera militareBiografia ==
=== Vittorio da BormidaDabormida ufficiale inferiore ===
Piemontese come quasi tutti gli [[ufficiale (forze armate)|ufficiali]] dello [[Stato]] sabaudo di fine Ottocento, nato dal conte [[Giuseppe Dabormida|Giuseppe]], allora [[tenente colonnello]] dell'[[artiglieria]], successivamente [[Ministri della guerra del Regno di Sardegna|Ministro della Guerra]] e poi degli [[Ministro degli esteri|Esteri]], e Angelica de Negry della Niella, Vittorio Emanuele Dabormida il 29 agosto del [[1859]] entrò come allievo nella [[Accademia Reale di Torino|Accademia militare di Torino]], uscendone il 15 dicembre [[1861]] col grado di [[sottotenente]] d'artiglieria.
 
Piemontese purosangue, come quasi tutti gli [[ufficiali]] dello [[Stato]] sabaudo di fine Ottocento, nato dal conte Giuseppe, allora [[tenente colonnello]] dell'[[artiglieria]], successivamente [[Ministro della Guerra]] e poi degli [[Esteri]], e Angelica de Negry della Niella, Vittorio Emanuele da Bormida il [[29 agosto]] del [[1859]] entrò come allievo nella [[Reale Accademia di Torino]], uscendone il [[15 dicembre]] [[1861]] col grado di [[sottotenente]] d'artiglieria. Il [[2 marzo]] [[1862]] entrò nello [[Stato Maggiore]] di quell'arma, per passare, il [[30 marzo]] [[1863]], nel 5°º [[Reggimento]] d'artiglieria, dove fu promosso [[luogotenente]] il [[31 dicembre]]. Da BormidaDabormida prese parte alla [[Terza guerra d'di indipendenza italiana|terza guerra di indipendenza]], al comando di una colonna di rifornimento di munizioni. Il [[24 ottobre]] [[1866]] passò al corpo di Stato Maggiore e nel novembre del [[1867]] entrò, con gli altri tenenti dello Stato Maggiore, nella [[scuola di guerra dell'esercito|Scuola di guerra]] appena inaugurata. Terminato il corso biennale, divenne, il [[28 ottobre]] [[1870]], insegnante di storia militare nella stessa scuola. Testimonianza di questa sua attività è il “''Sunto di lezioni sullo svolgimento storico dell'arte della guerra prima della rivoluzione francese''", che egli setsso scrisse di suo pugno. Nel frattempo, il [[26 marzo]] [[1868]], era stato promosso [[capitano]] nel corpo di Stato Maggiore. Furono anni fecondi per la sua attività di scrittore: nel [[1876]] a [[Torino]] stampava ''[[Vincenzo Gioberti]] e il [[generale]] da Bormida''. Fu spinto a quest'opera dal desiderio di scagionare suo padre dalle accuse che Gioberti gli aveva indirizzato.
 
Testimonianza di questa sua attività è il “''Sunto di lezioni sullo svolgimento storico dell'arte della guerra prima della rivoluzione francese''", che egli stesso scrisse di suo pugno. Nel frattempo, il 26 marzo [[1868]], era stato promosso [[capitano]] nel corpo di Stato Maggiore. Furono anni fecondi per la sua attività di scrittore: nel [[1876]] a [[Torino]] stampava ''[[Vincenzo Gioberti]] e il Dabormida''<ref>[http://books.google.it/books?id=9F0OAAAAYAAJ&dq=Vittorio+Dabormida&source=bl&ots=26rYMo1XQA&sig=HZCQcGlGUaip15JeIirbjEBF4_Q&hl=it&ei=txryTLWHD4uVswbTtJGMCw&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum=4&ved=0CC0Q6AEwAw Consultabile a questo indirizzo]</ref>. Fu spinto a quest'opera dal desiderio di scagionare suo padre dalle accuse che Gioberti gli aveva indirizzato.
===Importanti pubblicazioni===
 
=== Importanti pubblicazioni ===
Il [[30 maggio]] [[1878]], promosso [[maggiore]], da Bormida passava alla [[fanteria]]. Nello stesso anno pubblicava, a Torino, la prima sua opera di un certo rilievo: ''La difesa della nostra frontiera occidentale in relazione agli ordinamenti militari odierni''. La tradizionale alleanza con la [[Francia]] si era ormai sfaldata e si andavano profilando numerose ragioni di attrito, mentre la possibilità di un'alleanza con la [[Germania]] e l'[[Austria]] appariva lontana. Oggetto dello studio era la possibilità di una guerra contro la Francia, che l'[[Italia]] avrebbe corso il rischio di affrontare da sola.
Il 30 maggio [[1878]], promosso [[maggiore]], Dabormida passava alla [[fanteria]]. Nello stesso anno pubblicava, a Torino, la prima sua opera di un certo rilievo: ''La difesa della nostra frontiera occidentale in relazione agli ordinamenti militari odierni''. La tradizionale alleanza con la [[Francia]] si era ormai sfaldata e si andavano profilando numerose ragioni di attrito, mentre la possibilità di un'alleanza con la [[Germania]] e l'[[Austria]] appariva lontana. Oggetto dello studio era la possibilità di una guerra contro la Francia, che l'[[Italia]] avrebbe corso il rischio di affrontare da sola.
Il maggiore da Bormida si inseriva in un dibattito in corso nelle alte sfere politiche e militari. Sulla base dell'esperienza dell'epoca napoleonica era comune l'opinione che le [[Alpi]] fossero un terreno di difesa trascurabile e che, in caso di guerra, tutti gli sforzi dovessero concentrarsi esclusivamente nella pianura padana. Da Bormida sosteneva, invece, che l'arco alpino non era soltanto un ostacolo ritardatore contro un'eventuale aggressione che procedesse dai valichi della frontiera, ma anche un'importante base per impostare una lunga ed ostinata difesa ed una vigorosa controffensiva. Presupponendo un attacco da parte della Francia e considerando la reale superiorità delle forze nemiche rispetto a quelle italiane, sosteneva la necessità di concentrare le operazioni proprio nel massiccio alpino per impedire all'avversario di raggiungere la pianura, dove sarebbe prevalso senza difficoltà. In zona di montagna la lotta avrebbe potuto raggiungere un equilibrio tra le forze: le difficoltà del terreno avrebbero costretto l'[[esercito]] francese a marciare in piccole colonne separate e la difesa avrebbe potuto operare con la massa di tutte le sue forze riunite contro singoli contingenti nemici, prima che questi fossero riusciti a riunirsi nella pianura. La natura del terreno era favorevole a questa operazione, in quanto non permetteva ai francesi di attaccare su un numero eccessivo di punti. Da Bormida passava poi in rassegna i vari settori delle Alpi occidentali e considerava le varie probabilità d'invasione e le varie possibilità difensive ed offensive nei singoli punti.
 
Il maggiore Dabormida si inseriva in un dibattito in corso nelle alte sfere politiche e militari. Sulla base dell'esperienza dell'epoca napoleonica era comune l'opinione che le [[Alpi]] fossero un terreno di difesa trascurabile e che, in caso di guerra, tutti gli sforzi dovessero concentrarsi esclusivamente nella pianura padana. Dabormida sosteneva, invece, che l'arco alpino non era soltanto un ostacolo ritardatore contro un'eventuale aggressione che procedesse dai valichi della frontiera, ma anche un'importante base per impostare una lunga ed ostinata difesa ed una vigorosa controffensiva. Presupponendo un attacco da parte della Francia e considerando la reale superiorità delle forze nemiche rispetto a quelle italiane, sosteneva la necessità di concentrare le operazioni proprio nel massiccio alpino per impedire all'avversario di raggiungere la pianura, dove sarebbe prevalso senza difficoltà.
===Da Bormida ufficiale superiore===
Il [[4 agosto]] [[1879]], come professore titolare, riprese l'attività didattica alla Scuola di guerra, fino al luglio [[1880]]. Intanto, nel novembre del [[1881]], diveniva [[segretario]] dell'[[ufficio]] del [[capo di Stato Maggiore]], carica che ricoprì sino al giugno del [[1887]]. Il [[19 luglio]] [[1883]] era promosso tenente colonnello, poi il [[6 giugno]] 1887 passava a un comando operativo, nel 3° Reggimento con gli assegni di [[colonnello]], grado a cui fu promosso l'[[8 aprile]] [[1888]]. Il 30 marzo [[1890]], infine, con lo stesso [[Grado (militare)|grado]], fu addetto al comando del Corpo di Stato Maggiore. Usciva nel [[1891]] a [[Roma]] il suo studio su "''La battaglia dell'Assietta''": la sua origine risaliva ad una conferenza commemorativa, affidatagli quando ancora insegnava alla Scuola di guerra, in occasione di un'escursione degli allievi ai luoghi della [[battaglia]]. Premessa una esposizione dell'organizzazione dell'esercito piemontese,Dabormida ne esaminava la situazione specifica nel [[1747]], poco prima cioè della battaglia. Dopo un esame delle condizioni politiche e militari che spinsero i Piemontesi a partecipare alla guerra di successione austriaca, alleati agli [[Asburgo]] contro i Franco-spagnoli, descriveva i movimenti di questi ultimi verso il [[Monginevro]] e le difficoltà di difesa dei Piemontesi. Esse erano aumentate anche dalla diffidenza nutrita dagli austriaci verso i loro alleati e dagli scarsi rinforzi da essi inviati al piccolo esercito sabaudo. Inoltre la sommossa popolare di [[Genova]] del 1747, che aveva costretto gli austriaci ad abbandonare la città perdendo un importante punto strategico, aveva reso ancor più vulnerabile la posizione di [[Carlo Emanuele III]]. Questi, infatti, si vide costretto a difendersi anche dalla parte della costa ligure, oltre che da quella delle Alpi. Il tono encomiastico nei confronti di Carlo Emanuele III e dell'esercito piemontese non sminuisce la serietà e lo spirito critico dell'opera. Promosso [[generale di divisione]] il [[4 luglio]] 1895, da bormida passò al comando della [[Brigata Cagliari]] ed il [[12 gennaio]] [[1896]] parti alla testa di una [[brigata]] di fanteria per l'[[Africa]], dove era in corso una campagna militare contro le truppe del [[Negus]] [[Menelik II]] per la conquista dell'[[Abissinia]].
 
In zona di montagna la lotta avrebbe potuto raggiungere un equilibrio tra le forze: le difficoltà del terreno avrebbero costretto l'[[esercito]] francese a marciare in piccole colonne separate e la difesa avrebbe potuto operare con la massa di tutte le sue forze riunite contro singoli contingenti nemici, prima che questi fossero riusciti a riunirsi nella pianura. La natura del terreno era favorevole a questa operazione, in quanto non permetteva ai francesi di attaccare su un numero eccessivo di punti. Dabormida passava poi in rassegna i vari settori delle Alpi occidentali e considerava le varie probabilità d'invasione e le varie possibilità difensive ed offensive nei singoli punti.
== La [[battaglia di Adua]] ==
===Antefatti e strategia d'attacco===
Negli ultimi giorni di febbraio, l'esercito italiano, stretto d'assedio presso il forte di [[Macallè]] da parte delle truppe abissine che già avevano ottenuto un'importante vittoria nel dicembre precedente sull'[[Amba Alagi]] annientando la [[compagnia militare|compagnia]] del maggiore [[Pietro Toselli]], vedeva scarseggiare le vettovaglie. S'imponeva perciò la necessità di ritirarsi oppure di tentare, con un'avanzata su [[Adua]], di aprirsi la via più breve di rifornimento per i magazzini di [[Adi Ugri]] e di [[Asmara]]. Il [[governatore]] della [[Colonia (territorio)|colonia]] [[eritrea]], il generale [[Oreste Baratieri]] era più favorevole alla ritirata ma, sentito nella sera tra il 28 e [[29 febbraio]] il parere degli altri generali che all'unanimità propendevano per l'attacco, decise infine di affrontare il nemico coi suoi 15.000 uomini contro gli oltre 120.000 di Menelik II. Nella notte tra il 29 febbraio e il [[1º marzo]] il generale Baratieri decise di avanzare dalla ben difesa posizione di Saurià: l'idea era quella di attirare l'esercito di Menelik, o almeno la sua retroguardia, in uno strenuo combattimento che l'avrebbe visto inevitabilmente capitolare. Fu indotto a compiere questa manovra rischiosa, pur di ingaggiare battaglia, a seguito del telegramma che il Capo del Governo [[Crispi]] gli aveva inviato in data 25 febbraio: «Cotesta è una tisi militare, non una guerra». Alle ore 21.00 del 29 febbraio l'esercito si mosse su tre colonne: alla destra marciava la [[colonna]] guidata dal generale Vittorio Emanuele da Bormida (2.500 uomini), al centro quella del generale [[Giuseppe Arimondi]] (2.500 uomini anch'essa) e alla sinistra quella del generale [[Matteo Albertone]] (4.000 uomini).
 
=== Dabormida ufficiale superiore ===
===Fallimento del piano Baratieri===
Il 4 agosto [[1879]], come professore titolare, riprese l'attività didattica alla Scuola di guerra, fino al luglio [[1880]]. Intanto, nel novembre del [[1881]], diveniva segretario dell'ufficio del [[capo di Stato Maggiore]], carica che ricoprì sino al giugno del [[1887]].
Nelle intenzioni del [[comandante]], l'arrivo delle teste di colonna sulle posizioni prestabilite sarebbe dovuto avvenire in contemporanea alle ore 5.00 del primo marzo ma, a causa di molteplici disguidi e di erronei collegamenti, le cose andarono molto diversamente. Durante l'avvicinamento, la brigata di Albertone piegò verso centrale di Arimondi, che dovette arrestarsi per lasciarla passare. Successivamente la brigata di Albertone, seguendo le indicazioni di alcune guide locali e senza assicurarsi del collegamento le colonne alla sua destra, avanzò per raggiungere quello che a torto credeva costituisse il suo obiettivo, distanziandosi in tal modo enormemente dal resto dello schieramento. L'equivoco nasceva da un errore presente nello schizzo messo a punto da Baratieri, nel quale il colle Enda Chidane Meret, il punto dove dovevano convergere le truppe di Albertone, si trovava nella realtà molti chilometri più a sud-ovest del sito indicato con tale nome nella cartina. Finalmente alle ore 5.30 la colonna di Albertone raggiunse con il colle Enda Chidane Meret, ma venne immediatamente avvistata dagli abissini mettendone in allarme l'intero campo, situato a poca distanza.
 
Il 19 luglio [[1883]] era promosso tenente colonnello, poi il 6 giugno 1887 passava a un comando operativo, nel 3º Reggimento con gli assegni di [[colonnello]], grado a cui fu promosso l'8 aprile [[1888]]. Il 30 marzo [[1890]], infine, con lo stesso [[Grado (militare)|grado]], fu addetto al comando del Corpo di Stato Maggiore.
===Sconfitta del generale Albertone===
Usciva nel [[1891]] a [[Roma]] il suo studio su "''La battaglia dell'Assietta''": la sua origine risaliva ad una conferenza commemorativa, affidatagli quando ancora insegnava alla Scuola di guerra, in occasione di un'escursione degli allievi ai luoghi della [[battaglia]].
Subito gli abissini investirono Albertone: dopo oltre un'ora di valoroso combattimento il [[battaglione]] Turitto, avanguardia di Albertone, decimato, fu costretto a ripiegare sul grosso dell'esercito che a sua volta si vide attaccato frontalmente e sul fianco sinistro da 30.000 uomini che cercavano di impedirgli la ritirata. Poco prima delle ore 7.00 Albertone, preoccupato, stilò un messaggio per il generale Baratieri, chiedendogli di intervenire. Questi, intuendo l'accaduto, ordinò alla brigata guidata da Vittorio da Bormida di procedere verso sud-ovest per andare a sostenere quella di Albertone ed alla brigata di Arimondi di piegare anch'essa verso sinistra in direzione del [[Monte Rajo]]. Il generale da Bormida, nel tentativo di alleggerire la pressione su Albertone, spinse la sua brigata nel profondo vallone di Mariam Sciauitù, dove però andò a urtare contro forze nemiche molto superiori. Alle 10.30 la brigata da Bormida, che aveva cercato vanamente di soccorrere Albertone, era a sua volta tagliata fuori dall'esercito abissino. Di fatto la battaglia si era ormai scissa in tre scontri separati e indipendenti l'uno dall'altro: al colle Enda Chidane Meret combattevano gli uomini di Albertone, sul Monte Rajo quelli di Arimondi, e infine nel vallone di Mariam Sciauitù quelli guidati da Vittorio da Bormida, che tentavano una eroica resistenza. In tutte e tre le posizioni il nemico godeva di una schiacciante superiorità numerica e le colonne italiane, troppo lontane tra loro, non erano in grado di prestarsi reciprocamente alcun aiuto.
Alle 10.00, caduti tutti gli ufficiali e perduta l'artiglieria, i pochi superstiti della brigata Albertone, erano costretti a ritirarsi in disordine finché alle 11.00, la brigata fu completamente annientata.
 
Premessa un'esposizione dell'organizzazione dell'esercito piemontese, Dabormida ne esaminava la situazione specifica nel [[1747]], poco prima cioè della battaglia. Dopo un esame delle condizioni politiche e militari che spinsero i Piemontesi a partecipare alla guerra di successione austriaca, alleati agli [[Asburgo]] contro i Franco-spagnoli, descriveva i movimenti di questi ultimi verso il [[Monginevro]] e le difficoltà di difesa dei Piemontesi. Esse erano aumentate anche dalla diffidenza nutrita dagli austriaci verso i loro alleati e dagli scarsi rinforzi da essi inviati al piccolo esercito sabaudo.
=== Fine della brigata di da Bormida===
Il contingente che aveva sconfitto la brigata Albertone si rivolse, a questo punto, contro quella di Arimondi, che si trovò a dover sopportare un duplice sforzo. Una parte delle truppe abissine riusciva a incunearsi tra le truppe di Arimondi e quelle di da Bormida, che ancora combattevano con efficienza. I soldati di Arimondi, arroccati sul Monte Rajo, erano in una postazione precaria. Pur consapevoli di questo, attesero sulle loro posizioni l'arrivo di nemici immensamente superiori in numero e che vedevano scomparire allo sguardo per poi riapparire sempre più vicini ogni volta che ascendevano gli avvallamenti della zona. Le orde abissine investirono la brigata da ogni parte, spezzandone la resistenza che fu strenua e tenace, finché in un paio di ore lo stesso Arimondi trovò la morte. L'intera artiglieria fu perduta e i pochi superstiti cercarono disordinatamente una via di fuga.
La brigata da Bormida, ultima a resistere, nel vallone di Mariam Sciauitù, era, nel frattempo, riuscita eroicamente a respingere un primo assalto nemico. Ma appena da Bormida inviava notizia di questo iniziale successo al comandante Baratieri, irrompevano alle sue spalle gli abissini che avevano appena prima dissolto la colonna di Arimondi sul Monte Rajo. I [[soldati]] di da Bormida resistettero per più di un'ora con estremo coraggio, profondo senso del dovere e spirito di sacrificio, finché il generale, essendo senza notizia di quanto avveniva nel resto del campo di battaglia e vistosi minacciato di accerchiamento, ordinò la ritirata. Era però troppo tardi perché lo sganciamento dal nemico potesse compiersi con ordine, tanto più che Baratieri non aveva dato alcuna disposizione per le linee di ripiegamento. La cavalleria abissina massacrò con tremenda e disumana ferocia la brigata di da Bormida ed il generale stesso al grido di «Ebalgume! Ebalgume!» ("Falcia! Falcia!"). Le sue spoglie non furono mai trovate, sebbene suo fratello avesse saputo da un'anziana donna che viveva nell'area che ella aveva offerto acqua a un ufficiale italiano ferito a morte: "un capo, un uomo grosso con occhiali e orologio e stellette dorate".
 
Inoltre la sommossa popolare di [[Genova]] del 1747, che aveva costretto gli austriaci ad abbandonare la città perdendo un importante punto strategico, aveva reso ancor più vulnerabile la posizione di [[Carlo Emanuele III]]. Questi, infatti, si vide costretto a difendersi anche dalla parte della costa ligure, oltre che da quella delle Alpi. Il tono encomiastico nei confronti di Carlo Emanuele III e dell'esercito piemontese non sminuisce la serietà e lo spirito critico dell'opera.
==Onorificenze==
 
{{Onorificenze
Promosso [[maggiore generale]] il 4 luglio 1895, Dabormida passò al comando della [[Brigata Cagliari]] ed il 12 gennaio [[1896]] partì alla testa di una [[brigata]] di fanteria per l'[[Africa]], dove era in corso una campagna militare contro le truppe del [[Negus]] [[Menelik II]] per la conquista dell'[[Abissinia]].
|immagine=Commendatore OCI Kingdom BAR.svg
 
|nome_onorificenza=Commendatore dell'Ordine della Corona d'Italia
== La battaglia di Adua ==
|collegamento_onorificenza=Ordine della Corona d'Italia
{{Vedi anche|Battaglia di Adua}}
|motivazione=
 
|luogo=
=== Antefatti e strategia d'attacco ===
}}
Negli ultimi giorni di febbraio, l'esercito italiano, stretto d'assedio presso il forte di [[Macallè]] da parte delle truppe abissine che già avevano ottenuto un'importante vittoria nel dicembre precedente sull'[[Amba Alagi]] annientando la [[compagnia militare|compagnia]] del maggiore [[Pietro Toselli]], vedeva scarseggiare le vettovaglie. S'imponeva perciò la necessità di ritirarsi oppure di tentare, con un'avanzata su [[Adua]], di aprirsi la via più breve di rifornimento per i magazzini di [[Adi Ugri]] e di [[Asmara]]. Il [[governatore]] della [[Colonia (territorio)|colonia]] [[eritrea]], il generale [[Oreste Baratieri]] era più favorevole alla ritirata ma, sentito nella sera tra il 28 e 29 febbraio il parere degli altri generali che erano divisi tra scegliere l'attacco o la ritirata, decise infine di affrontare il nemico coi suoi 15.000 uomini contro gli oltre 120.000 di Menelik II.
 
Nella notte tra il 29 febbraio e il 1º marzo il generale Baratieri decise di avanzare dalla ben difesa posizione di Saurià: l'idea era quella di attirare l'esercito di Menelik, o almeno la sua retroguardia, in uno strenuo combattimento che l'avrebbe visto inevitabilmente capitolare. Fu indotto a compiere questa manovra rischiosa, pur di ingaggiare battaglia, a seguito del telegramma che il Capo del Governo [[Francesco Crispi|Crispi]] gli aveva inviato in data 25 febbraio: «Cotesta è una tisi militare, non una guerra». Alle ore 21.00 del 29 febbraio l'esercito si mosse su tre colonne: alla destra marciava la [[colonna]] guidata dal generale Vittorio Emanuele Dabormida (2.500 uomini), al centro quella del generale [[Giuseppe Arimondi]] (2.500 uomini anch'essa) e alla sinistra quella del generale [[Matteo Albertone]] (4.000 uomini).
 
=== Fallimento del piano Baratieri ===
Nelle intenzioni del [[comandante (grado militare)|comandante]], l'arrivo delle teste di colonna sulle posizioni prestabilite sarebbe dovuto avvenire in contemporanea alle ore 5.00 del primo marzo ma, a causa di molteplici disguidi e di erronei collegamenti, le cose andarono molto diversamente. Durante l'avvicinamento, la brigata di Albertone piegò verso quella di Arimondi, che dovette arrestarsi per lasciarla passare. Successivamente la brigata di Albertone, seguendo le indicazioni di alcune guide locali e senza assicurarsi del collegamento con le colonne alla sua destra, avanzò per raggiungere quello che a torto credeva costituisse il suo obiettivo, distanziandosi in tal modo enormemente dal resto dello schieramento. L'equivoco nasceva da un errore presente nello schizzo messo a punto da Baratieri, nel quale il colle Enda Chidane Meret, il punto dove dovevano convergere le truppe di Albertone, si trovava nella realtà molti chilometri più a sud-ovest del sito indicato con tale nome nella cartina. Finalmente alle ore 5.30 la colonna di Albertone raggiunse il colle Enda Chidane Meret, ma venne immediatamente avvistata dagli abissini mettendone in allarme l'intero campo, situato a poca distanza.
 
=== Sconfitta del generale Albertone ===
Subito gli abissini investirono Albertone: dopo oltre un'ora di valoroso combattimento il [[battaglione]] Turitto, avanguardia di Albertone, decimato, fu costretto a ripiegare sul grosso dell'esercito che a sua volta si vide attaccato frontalmente e sul fianco sinistro da 30.000 uomini che cercavano di impedirgli la ritirata. Poco prima delle ore 7.00 Albertone, preoccupato, stilò un messaggio per il generale Baratieri, chiedendogli di intervenire. Questi, intuendo l'accaduto, ordinò alla brigata guidata da Vittorio Dabormida di procedere verso sud-ovest per andare a sostenere quella di Albertone ed alla brigata di Arimondi di piegare anch'essa verso sinistra in direzione del [[Monte Rajo]]. Il generale Dabormida, nel tentativo di alleggerire la pressione su Albertone, spinse la sua brigata nel profondo vallone di Mariam Sciauitù, dove però andò a urtare contro forze nemiche molto superiori. Alle 10.30 la brigata Dabormida, che aveva cercato vanamente di soccorrere Albertone, era a sua volta tagliata fuori dall'esercito abissino.
 
Di fatto la battaglia si era ormai scissa in tre scontri separati e indipendenti l'uno dall'altro: al colle Enda Chidane Meret combattevano gli uomini di Albertone, sul Monte Rajo quelli di Arimondi, e infine nel vallone di Mariam Sciauitù quelli guidati da Vittorio Dabormida, che tentavano una eroica resistenza. In tutte e tre le posizioni il nemico godeva di una schiacciante superiorità numerica e le colonne italiane, troppo lontane tra loro, non erano in grado di prestarsi reciprocamente alcun aiuto. Alle 10.00, caduti tutti gli ufficiali e perduta l'artiglieria, i pochi superstiti della brigata Albertone, erano costretti a ritirarsi in disordine finché alle 11.00, la brigata fu completamente annientata.
 
=== Fine della brigata di Dabormida ===
Il contingente che aveva sconfitto la brigata Albertone si rivolse, a questo punto, contro quella di Arimondi, che si trovò a dover sopportare un duplice sforzo. Una parte delle truppe abissine riusciva a incunearsi tra le truppe di Arimondi e quelle di Dabormida, che ancora combattevano con efficienza. I soldati di Arimondi, arroccati sul Monte Rajo, erano in una postazione precaria. Pur consapevoli di questo, attesero sulle loro posizioni l'arrivo di nemici immensamente superiori in numero e che vedevano scomparire allo sguardo per poi riapparire sempre più vicini ogni volta che ascendevano gli avvallamenti della zona. Le forze abissine investirono la brigata da ogni parte, spezzandone la strenua e tenace resistenza, finché in un paio di ore lo stesso Arimondi trovò la morte. L'intera artiglieria fu perduta e i pochi superstiti cercarono disordinatamente una via di fuga.
 
La brigata Dabormida, ultima a resistere, nel vallone di Mariam Sciauitù, era, nel frattempo, riuscita con molte difficoltà a respingere un primo assalto nemico. Dabormida aveva appena inviato la notizia di questo iniziale successo al comandante Baratieri, quando irruppero alle sue spalle gli abissini che avevano appena prima dissolto la colonna di Arimondi sul Monte Rajo. I soldati di Dabormida resistettero per più di un'ora, mantenendo per quanto possibile la disciplina, mossi anche da coraggio, senso del dovere e spirito di sacrificio, finché il generale, essendo senza notizia di quanto avveniva nel resto del campo di battaglia e vistosi minacciato di accerchiamento, ordinò la ritirata. Il troppo tardivo sganciamento non poté compiersi con ordine, tanto più che Baratieri non aveva dato alcuna disposizione per le linee di ripiegamento. La cavalleria abissina massacrò con tremenda violenza la brigata di Dabormida ed il generale stesso al grido di «Ebalgume! Ebalgume!» ("Falcia! Falcia!"). Le sue spoglie non furono mai trovate, sebbene suo fratello avesse saputo da un'anziana donna che viveva nell'area che ella aveva offerto acqua a un ufficiale italiano ferito a morte: "un capo, un uomo grosso con occhiali e orologio e stellette dorate".
 
Il Comune di [[Padova]] gli ha dedicato una via.<br/>
Nella città di [[Torino]] è presente una caserma intitolata a Vittorio Dabormida, ubicata in corso Unione Sovietica 100.
 
== Onorificenze ==
{{Onorificenze
|immagine=Commendatore OMS BAR.svg
Riga 62 ⟶ 113:
|collegamento_onorificenza=Ordine Militare di Savoia
|motivazione=
|luogo=
}}
{{Onorificenze
|immagine=Valor militare gold medal - old style BAR.svg
|nome_onorificenza=Medaglia d'Oro al Valor Militare
|collegamento_onorificenza=Valor Militare
|motivazione=Condusse la sua brigata al fuoco, e ripetutamente all'assalto con slancio ardimentoso, dando a tutti esempio di alto valore personale. Cadde eroicamente. Adua (Eritrea), 1º marzo 1896<ref>[http://www.quirinale.it/elementi/DettaglioOnorificenze.aspx?decorato=14558 Quirinale scheda]</ref>.
|data=marzo 1898
}}
{{Onorificenze
|immagine=Cavaliere SSML BAR.svg
|nome_onorificenza=Cavaliere dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro
|collegamento_onorificenza=Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro
|motivazione=
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}}
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== Note ==
<references/>
 
==Bibliografia==
*{{cita libro|cognome=Goglia|nome=Luigi|coautori=Fabio Grassi|titolo=Il Colonialismo italiano da Adua all'Impero|editore=Editori Laterza|città=Bari|anno=1981|cid=Goglia,Grassi1981}}
 
==Voci correlate==
*[[Oreste Baratieri]]
*[[Matteo Albertone]]
*[[Giuseppe Arimondi]]
*[[Giuseppe Ellena]]
==Altri progetti==
{{Interprogetto}}
 
== Collegamenti esterni ==
* {{Collegamenti esterni}}
 
{{colonialismo italiano}}
{{Controllo di autorità}}
{{Portale|biografie|guerra|risorgimento}}
 
[[Categoria:Persone legate al colonialismo italiano]]
[[Categoria:Medaglie d'oro al valor militare]]
[[Categoria:Commendatori dell'Ordine militare di Savoia]]
[[Categoria:Commendatori dell'Ordine della Corona d'Italia]]
[[Categoria:Ufficiali dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro]]
[[Categoria:Decorati di Medaglia commemorativa delle campagne delle guerre d'indipendenza]]