Economia dell'Impero romano: differenze tra le versioni
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[[File:Europe 180ad roman trade map.png|upright=1.4|thumb|Le vie del commercio romano attorno alla fine del [[II secolo]].]]
Nei primi due secoli dell{{'}}'''Impero romano''' lo sviluppo dell{{'}}'''[[Economia romana|economia]]''' si era basato essenzialmente sulle conquiste militari, che avevano procurato terre da distribuire ai legionari
L'Impero romano, infatti, da un lato si dimostrò incapace di realizzare uno sviluppo economico endogeno (non dipendente dalle conquiste) e dall'altro di ovviare all'aumento dei costi della spesa pubblica (la vera radice della crisi fu l'incremento del costo dell'esercito e della burocrazia) con un sistema fiscale più efficiente che oppressivo. La grave crisi che ne conseguì ne provocò gradualmente la decadenza, fino ad arrivare nel [[V secolo d.C.]] alla caduta della parte occidentale ad opera di popolazioni germaniche<ref>Secondo A. Fusari il sistema economico dell'età imperiale era destinato alla stagnazione in quanto i due elementi che lo componevano, l'agricoltura ed il commercio, e la sua base energetica principale, gli schiavi, non erano integrati in un mercato unico come nell'economia capitalistica, e la sua alimentazione non derivava se non in minima parte dal surplus reinvestito nel mercato (accumulazione endogena promossa da fattori agenti all'interno del sistema), bensì dall'afflusso di risorse esterne (accumulazione esogena), frutto della rapina, delle guerre e dello sfruttamento delle province.
Inoltre l'ordine equestre, che avrebbe potuto contrapporsi all'aristocrazia terriera e guerriera come classe sociale che basasse il proprio potere, la propria ricchezza e la propria identità di classe proprio sullo sviluppo di un sistema imprenditoriale mercantilistico ed industriale, non aspirò mai a sostituirsi all'aristocrazia nell'acquisizione del potere (come avrebbe fatto un'autentica classe borghese), bensì a farne parte, reinvestendo il "surplus commerciale" nell'acquisizione di una rendita fondiaria (A. Fusari, ''L'avventura umana'', Seam, 2000).</ref>.
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Gran parte dell'economia dell'età imperiale era caratterizzata dall'afflusso di derrate alimentari e merci provenienti dalle varie province verso l'esercito permanente e la capitale Roma, che rimase sempre essenzialmente la città dei consumi (eccettuata qualche fabbrica di manufatti).
Nell'Urbe all'inizio dell'epoca imperiale abitavano, infatti, centinaia di migliaia di ex contadini e piccoli proprietari terrieri che avevano finito per abbandonare le proprie terre a causa del prolungato servizio nelle legioni, che aveva impedito loro di continuare a lavorare con profitto i piccoli appezzamenti di terreno che possedevano. Tale moltitudine di persone era diventata, ormai, una massa di manovra dei capi politici più ambiziosi, che cercavano di ottenerne il favore o di mitigarne il risentimento attraverso le pubbliche elargizioni di grano (''panem''). Al tempo del proprio splendore Roma, popolata da circa un milione di persone (di cui un terzo erano schiavi<ref>Giorgio Ruffolo, ''Quando l'Italia era una superpotenza'', Einaudi, 2004, p. 35.</ref>), giunse ad importare fino a 3,5 milioni di quintali di frumento ogni anno<ref>Si calcola un consumo di cereali l'anno pro capite di 200 chili (Geraci-Marcone, ''Storia romana'', Le Monnier, 2004, p. 215).</ref>, per l'epoca quantità astronomica: almeno tra le 200 e le 300 000 persone vivevano grazie alle distribuzioni gratuite di frumento (ed in un secondo tempo, di pane, olio di oliva, vino e carne di maiale), quindi, calcolando le famiglie degli aventi diritto, si può sostenere che tra un terzo e la metà della popolazione dell'Urbe vivesse a carico dello Stato (la chiamavano la "plebe ''frumentaria''").
La gestione del complesso dei servizi finalizzati al vettovagliamento di Roma era affidata a una magistratura apposita, la prefettura dell'[[Annona (economia)|annona]], riservata a una persona di rango [[Equites|equestre]], che era una delle cariche più importanti dell'amministrazione imperiale. L'immensa quantità di frumento importato da Roma proveniva da una pluralità di [[Provincia romana|province]]: [[Sicilia]], [[Sardegna]], province asiatiche e africane, ma il perno dell'approvvigionamento era costituito dall'[[Egitto (provincia romana)|Egitto]],<ref>Giuseppe Flavio, ''La guerra giudaica'', IV, 10.5.</ref> che soddisfaceva oltre metà del fabbisogno. L'olio veniva, invece, fatto affluire dalla [[Betica]] (l'attuale Andalusia), mentre il vino dalla [[Gallia]]. Passati i secoli di splendore, Roma diventerà un peso sempre più opprimente per l'economia dell'Impero. [[Svetonio]] racconta di un episodio curioso legato al vino ed al suo prezzo ai tempi dell'imperatore [[Augusto]]:
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===Agricoltura: latifondismo e decadenza della produttività===
{{vedi anche|Economia della Repubblica romana|Schiavitù nell'antica Roma|Villa romana}}
Con la scomparsa nella [[Repubblica romana|tarda età repubblicana]] della classe dei piccoli proprietari terrieri (i contadini-soldati che avevano contribuito all'espansione di Roma fino al [[II secolo a.C.]]), costretti ad abbandonare i propri poderi a causa da un lato delle esigenze del servizio militare prolungato, dall'altro dell'impossibilità di competere con i [[latifondismo|latifondi]] dei ricchi proprietari terrieri che potevano sfruttare la manodopera servile a costo zero, la produzione agricola nel corso dell'età imperiale si concentrò sempre di più nei latifondi (presenti soprattutto nell'Italia meridionale) e nelle ''villae rusticae'' (presenti in particolare nell'Italia centrale), in cui il lavoro degli schiavi<ref>Solo in Italia, all'età di Augusto, ce n'erano 3 milioni su una popolazione di 10</ref> era organizzato in modo altamente efficace proprio per realizzare prodotti in eccesso da vendere poi nei mercati urbani. Il futuro decadimento dell'economia imperiale fu conseguenza anche della graduale decadenza dell'agricoltura, che pian piano perse la capacità di rifornire i mercati cittadini.<ref>Le cause del dissolversi del tessuto agrario furono identificate, con straordinaria lungimiranza, dal maggiore agronomo latino del I secolo d.C.: [[Lucio Giunio Columella]] (Antonio Saltini, ''Storia delle scienze agrarie'', vol. I ''Dalle origini al Rinascimento'', Bologna 1984, pp. 47-59).</ref>
Le cure dello Stato, infatti, andavano più che alle campagne<ref>Nonostante nelle campagne vivesse l'80% della popolazione totale dell'Impero nel I secolo d.C. (Giorgio Ruffolo, ''Quando l'Italia era una superpotenza'', Einaudi, 2004, p. 28).</ref> alle città, dove risiedevano anche i proprietari terrieri, che usavano le ville di campagna solo per le vacanze. Del resto, poiché l'agricoltura consentiva minori guadagni del commercio e del prestito ad usura, i grandi [[latifondismo|latifondisti]] erano poco invogliati ad investire denaro per migliorare la produttività delle proprie terre<ref>Il merito storico dell'aristocrazia romana non si evidenziò tanto nello sviluppo di un'economia dinamica, imprenditoriale, quanto nel modo in cui seppe amministrare i paesi ed i popoli sottomessi con un minimo uso della forza (fanno eccezione gli ebrei, culturalmente refrattari al dominio romano)(Giorgio Ruffolo, ''Quando l'Italia era una superpotenza'', Einaudi, 2004, p. 69).</ref> Così, alla crisi in età repubblicana della piccola e media proprietà agricola schiacciata dai debiti e dalla concorrenza, si aggiunse in età imperiale anche il declino produttivo del latifondo.
Molte terre furono abbandonate anche per i crescenti costi degli [[schiavitù nell'antica Roma|schiavi]], ormai rari dopo la conclusione dell'espansionismo e delle grandi guerre di conquista.<ref>Traiano e Adriano cercarono di proteggere i proprietari rurali,
Il capitalismo ci riuscì trasformando in merce non i lavoratori schiavi, ma la loro forza lavoro, come aveva intuito Karl Marx. Trasformando soltanto la forza lavoro e non il lavoratore in merce si ottenevano tre grandi risultati: il capitalista non doveva più pagare il tempo improduttivo dello schiavo, né temere le sue rivolte; dopo una fase brutale della rivoluzione industriale che schiacciava i proletari su un salario di semplice sopravvivenza, questi, organizzandosi collettivamente, ottenevano aumenti salariali che spingevano i capitalisti ad aumentare la produttività attraverso le macchine; superata la prima fase dell'industrializzazione, i proletari diventavano consumatori e anche per tale via alimentavano il sistema. Gli schiavi delle ville e dei latifondi romani costituivano invece una merce passiva, che si consumava in un processo produttivo ripetitivo e privo di stimoli evolutivi (Giorgio Ruffolo, ''Quando l'Italia era una superpotenza'', Einaudi, 2004, p. 70).</ref>) aveva reso più competitiva la manodopera libera, ma le condizioni offerte dai padroni erano pur sempre assai dure, con il risultato che molti contadini liberi preferivano una vita parassitaria ed incerta ai margini delle città al lavoro nei campi sicuro, ma faticoso e mal remunerato.
===Commercio: espansione dei traffici ed importazione di prodotti di lusso===
[[File:Map of the Periplus of the Erythraean Sea.jpg|thumb|upright=1.8|Commercio romano con l'India secondo il ''[[Periplus maris erythraei]]'', [[I secolo]]]]▼
{{vedi anche|Commercio romano con l'India|Relazioni diplomatiche sino-romane}}
▲[[File:Map of the Periplus of the Erythraean Sea.jpg|thumb|upright=1.8|Commercio romano con l'India secondo il ''[[Periplus maris erythraei]]'', [[I secolo]]]]
Nella prima età imperiale l'impulso fornito dalla forte urbanizzazione<ref>La civiltà imperiale fu essenzialmente una civiltà urbana. Nelle popolose città dell'Impero risiedevano i ceti privilegiati. Specie in Occidente la città era prima di tutto un centro amministrativo, attraverso il quale veniva esercitato il controllo e lo sfruttamento della regione agricola circostante, ma era anche il luogo dove veniva distribuita e consumata la ricchezza prodotta ed il centro di diffusione dei modelli di comportamento della società imperiale (Luigi Bessone, ''Roma imperiale'', in (a cura di G. Solfaroli Camillocci) ''Civiltà Antiche'', Sei, 1987, p. 231).</ref> e la sicurezza delle linee di traffico favorirono l'espansione del commercio terrestre e marittimo<ref>Da Narbona a Cartagine si impiegavano in media cinque giorni di navigazione, da Marsiglia ad Alessandria, invece, trenta ({{cita|Ruffolo|p. 130)}}</ref>:<ref>Giorgio Ruffolo calcola in 4 miliardi di sesterzi (un quinto del Pil totale) il valore aggiunto complessivo del settore commerciale nel I secolo d.C. (Giorgio Ruffolo, ''Quando l'Italia era una superpotenza'', Einaudi, 2004, p. 28).</ref><ref>«Attraverso queste strade passava un traffico sempre crescente, non soltanto di truppe e funzionari, ma di commercianti, mercanzie e perfino di turisti. Lo scambio di merci fra le varie province si era sviluppato rapidamente, e presto raggiunse una scala senza precedenti nella storia». ▼
▲Nella prima età imperiale l'impulso fornito dalla forte urbanizzazione<ref>La civiltà imperiale fu essenzialmente una civiltà urbana. Nelle popolose città dell'Impero risiedevano i ceti privilegiati. Specie in Occidente la città era prima di tutto un centro amministrativo, attraverso il quale veniva esercitato il controllo e lo sfruttamento della regione agricola circostante, ma era anche il luogo dove veniva distribuita e consumata la ricchezza prodotta ed il centro di diffusione dei modelli di comportamento della società imperiale (Luigi Bessone, ''Roma imperiale'', in (a cura di G. Solfaroli Camillocci) ''Civiltà Antiche'', Sei, 1987, p. 231).</ref> e la sicurezza delle linee di traffico favorirono l'espansione del commercio terrestre e marittimo<ref>Da Narbona a Cartagine si impiegavano in media cinque giorni di navigazione, da Marsiglia ad Alessandria, invece, trenta ({{cita|Ruffolo|p. 130)}}.</ref>:<ref>Giorgio Ruffolo calcola in 4 miliardi di sesterzi (un quinto del Pil totale) il valore aggiunto complessivo del settore commerciale nel I secolo d.C. (Giorgio Ruffolo, ''Quando l'Italia era una superpotenza'', Einaudi, 2004, p. 28).</ref><ref>«Attraverso queste strade passava un traffico sempre crescente, non soltanto di truppe e funzionari, ma di commercianti, mercanzie e perfino di turisti. Lo scambio di merci fra le varie province si era sviluppato rapidamente, e presto raggiunse una scala senza precedenti nella storia».
Grazie a un sistema altamente organizzato di trasporto e vendita, si muovevano liberamente da un angolo all'altro dell'Impero migliaia di tonnellate di prodotti: metalli estratti nelle regioni montagnose dell'Europa occidentale: stagno dalla Britannia, ferro dalla Spagna, piombo dalla Sardegna; pelli, panni e bestiame dai distretti pastorali della Britannia, della Spagna e dai mercati del Mar Nero; vino dalla Provenza, dall'Aquitania, dall'Italia, da Creta, dalla Numidia; olio dall'Africa e dalla Spagna; lardo dalla Lucania; miele dall'Attica; formaggio dalla Dalmazia; frutta secca, datteri e prugne dalla Siria; cavalli dalla Sicilia e dalla Numidia; legname, pece e cera dalla Russia meridionale e dal nord dell'Anatolia; marmo dai litorali egei, dall'Asia Minore, dall'Egitto, dai Pirenei e anche dal Mar di Marmara; e - il più importante di tutti - grano dai distretti dell'Africa del nord, dell'Egitto, della Sicilia, della Tessaglia e della valle del Danubio per i bisogni delle grandi città (H. St. L. B. Moss, ''The Birth of the Middle Ages'', p.1).</ref> a Roma, per esempio, si moltiplicarono le botteghe, le aziende commerciali all'ingrosso e al dettaglio, i depositi, i magazzini, le corporazioni di artigiani e trasportatori. I traffici commerciali si spinsero fino alle coste del Baltico, in Arabia, India e Cina per importare prodotti di lusso e di prestigio a prezzi astronomici (al valore della merce andava infatti aggiunto il costo elevatissimo dei trasporti e una lunga serie di dazi e pedaggi). Per quanto non paragonabile con i concetti moderni, ci fu un costante legame di importazione tramite rotte carovaniere ed il commercio marittimo con le regioni orientali, in particolare l'India e la penisola Arabica, da dove arrivavano incenso, profumi, perle, gemme, spezie, sete, carni e pesci rari, frutta esotica, ebano, unguenti.
L'emorragia di monete in metallo prezioso per l'acquisto dei prodotti di lusso finirà, però, per provocare nei secoli successivi gravi conseguenze a livello di bilancio commerciale.<ref>Plinio il Vecchio calcolava in 100 milioni di sesterzi la somma che ogni anno usciva dall'Impero per pagare le merci pregiate: era una cifra davvero enorme, corrispondente al gettito annuale di tutte le imposte indirette ed era pari
Tra i prodotti industriali più diffusi tra la popolazione dell'Impero romano c'erano invece le ceramiche fini da mensa ([[ceramica sigillata]]), realizzate inizialmente in Italia (in particolare ad [[Arezzo]]). La produzione toscana verrà poi soppiantata nel corso del I secolo d.C. da quella gallica e, infine, africana.
===Squilibri fra le province===
Nella prima età imperiale continuò il primato dell'Italia sulle province, favorito da [[Augusto]], che più di ogni altro fu prodigo di privilegi e attenzioni per la penisola. Ma sotto i suoi successori la situazione si modificò profondamente: la progressiva emancipazione delle province portò a un regime di libera concorrenza, che favorì i paesi ricchi di materie prime, mettendo in crisi le regioni più povere di risorse, costrette a importare merci pagate a caro prezzo a causa del costo elevato dei trasporti e delle serie di dazi e pedaggi che si pagavano ovunque. L'[[Italia romana|Italia]] e la [[Acaia (provincia romana)|Grecia]] decaddero, questa in quanto povera di risorse, la prima perché abituata da secoli a vivere di rendita sul tributo delle province e quindi poco stimolata alla competitività.<ref>Nell'epoca repubblicana l'Italia era una forte esportatrice di vino, olio e ceramiche (Giorgio Ruffolo, ''Quando l'Italia era una superpotenza'', Einaudi, 2004, p. 27).</ref> Ad avvantaggiarsi furono la [[Gallia]], che poteva contare su un'abbondante produzione agricola (vino, grano, olio, frutta, ortaggi) e numerose manifatture (vasellame, statue, gioielli, tessuti), e le province orientali, ricche di materie prime e di manodopera a basso costo, che consentirono loro un notevole sviluppo commerciale ed industriale.
===Incremento della spesa pubblica e svalutazione della moneta===
{{vedi anche|Aerarium|Aerarium militare|Congiaria|Fisco|Institutio Alimentaria|Monetazione imperiale romana}}
Il gigantesco apparato imperiale comportava costi crescenti. [[Augusto]] aveva diviso l'Impero in province senatorie i cui tributi finivano nell'[[aerarium|erario]] (l'antica cassa dello Stato), a sostenere le spese correnti di quell'istituzione, ed in province imperiali, le cui
In compenso erano enormi le ricchezze che grazie alle sue conquiste affluivano allo Stato e soprattutto ai privati: oro, tesori, terre, opere d'arte. Per molti anni il ''tributum'' del 5 per cento del reddito imponibile istituito da Augusto per finanziare la difesa dell'Impero poté essere abbuonato ai cittadini romani (G. Ruffolo, ''Quando l'Italia era una superpotenza,'' Einaudi, 2004, p. 51).</ref> fu aggravato inoltre dall'uso invalso da [[Claudio]] in poi di gratificare i soldati con un donativo per assicurarsene la fedeltà al momento dell'ascesa al trono e in situazioni delicate. Se aggiungiamo alle spese necessarie e inevitabili gli sprechi nella gestione della corte, si capisce come lo stato delle finanze fosse in genere alquanto precario. La decisione di Augusto di consolidare l'Impero, assicurandogli confini naturalmente sicuri e compattezza interna, invece che di estendere le frontiere, dipese anche dal fatto che l'imperatore si era reso conto che le risorse erano limitate e non in grado di sostenere eccessivi sforzi espansionistici.<ref>Luigi Bessone, ''Roma imperiale'', in (a cura di G. Solfaroli Camillocci) ''Civiltà Antiche'', Sei, 1987, p. 235.</ref>. I successori, infatti, non si discostarono molto dalla linea augustea, a parte [[Traiano]] che portò l'Impero alla sua massima estensione anche per assicurarsi le miniere d'oro della Dacia ed il controllo delle vie carovaniere dell'Oriente: il beneficio fu comunque solo momentaneo. Alla lunga, la conclusione della politica espansionistica che fece mancare le usuali risorse del bottino di guerra, la diminuzione della moneta circolante (la produzione delle miniere era inferiore alla richiesta di metalli preziosi), la scarsità e quindi l'aumento del prezzo di mercato degli schiavi, resero le spese sempre più insostenibili, mentre la pressione fiscale si rivelava inefficace. Lo Stato conosceva un solo mezzo di intervento che non aumentava ulteriormente la pressione fiscale: la svalutazione della moneta, tramite la riduzione di peso delle monete (il primo ad operare in tal senso fu [[Nerone]], al fine di poter meglio sostenere la sua personale politica di prestigio e di grandi spese). La conseguenza, evidente in tutta la sua drammaticità nel corso del Tardo Impero, sarà un'inflazione galoppante. L'impatto dei costi di un [[esercito romano|esercito]] tanto vasto come quello romano (da [[Augusto]] ai [[dinastia dei Severi|Severi]]) sull'economia imperiale può misurarsi, seppure in modo approssimativo, come segue:
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|'''4.1%'''
|}
<small>'''
(a) Valori costanti al 14 d.C. espressi in ''denarii'', slegati da aumenti della paga militare per compensare la svalutazione monetaria<br />
(b) nell'ipotesi di una crescita trascurabile del PIL pro capite (normale per un'economia agricola)<br />
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{{Coin image box 1 double
| header = [[Traiano]]: [[Æ (numismatica)|Æ]] [[Sesterzio]]<ref>[[Roman Imperial Coinage|RIC]] ''Traianus'', II 461; Banti 12.</ref>
| hbkg = #abcdef
| image = File:TRAIANUS RIC II 461-84001016.jpg
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}}
Il costo dell'intero esercito crebbe moderatamente come % del PIL tra il 14 ed il 150 d.C., malgrado un incremento degli effettivi di circa il 50%: da 255.000 armati circa<ref>Sottinteso da [[Tacito]], ''Annales''.</ref> del [[23]] a 383.000<ref>CAH XI 320 estimates 380,000.</ref> sotto [[Adriano]], fino ad arrivare alla morte di [[Settimio Severo]] nel [[211]] a 442.000 soldati circa<ref>R. MacMullen, ''How Big was the Roman imperial Army?'', in ''KLIO'' (1980), p. 454, stimati 438.000.</ref>, questo perché la popolazione dell'impero, e quindi il PIL totale, aumentò sensibilmente (+35% ca.). Successivamente la percentuale del PIL dovuta alle spese per l'esercito crebbe di quasi la metà, sebbene l'aumento degli effettivi dell'esercito fu solo del 15% ca. (dal [[150]] al [[215]]). Ciò fu dovuto principalmente alla peste antonina, che gli storici epidemiologici hanno stimato aver ridotto la popolazione dell'impero tra il 15% ed il 30%. Tuttavia, anche nel 215 i Romani spendevano una percentuale sul PIL simile a quella che oggi spende la difesa dell'unica superpotenza globale, gli [[Stati Uniti d'America]], (pari al 3,5% del PIL nel 2003). Ma l'effettivo onere dei contribuenti, in un'
Le spese militari costituivano quindi il 75% ca. del bilancio totale statale, in quanto poca era la spesa "sociale", mentre tutto il resto era utilizzato in progetti di prestigiose costruzioni a [[Roma (città antica)|Roma]] e nelle [[province romane|province]]; a ciò si aggiungeva un sussidio in grano per coloro che risultavano disoccupati, oltre ad aiuti al proletariato di Roma (''[[congiaria]]'') e sussidi alle famiglie italiche (simile ai moderni [[assegni familiari]]) per incoraggiarle a generare più figli. Augusto istituì questa politica, distribuendo 250 ''denari'' per ogni bambino nato.<ref>[[Svetonio]], ''Augusto'', 46.</ref> Altri sussidi ulteriori furono poi introdotti per le famiglie italiche (''[[Institutio Alimentaria]]'') dall'imperatore [[Traiano]].<ref name="Duncan-Jones 1994 35">Duncan-Jones (1994), p. 35.</ref>
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===Agricoltura: crisi della produzione, spopolamento delle campagne e colonato===
{{vedi anche|Crisi del III secolo|Iugatio-capitatio|Colonato}}
La crisi produttiva, i cui sintomi si erano già evidenziati durante l'Alto Impero, si manifestò in tutta la sua virulenza dal III secolo d.C. in poi con l'accentuarsi dell'instabilità politica. Le guerre civili e le scorrerie barbariche finirono per devastare anche le regioni più fertili e le campagne cominciarono a spopolarsi (fenomeno degli ''agri deserti''),<ref>Gli imperatori furono costretti, specialmente nelle province danubiane, a chiamare popolazioni barbariche per ripopolare le campagne</ref> anche perché i piccoli proprietari terrieri, che già non se la passavano bene, dovevano affrontare da una parte i costi dovuti al mantenimento di interi eserciti che transitavano sui loro territori, dall'altra un peso fiscale diventato sempre più intollerabile (basti pensare all'introduzione da parte di [[Diocleziano]] della [[iugatio-capitatio|''iugatio''-''capitatio'']]<ref>Ogni proprietario fu tassato sulla base di ciascuna persona che impiegava nel lavoro dei campi (''caput'') e per ogni pezzo di terra (''iugum'') sufficiente a produrre quanto necessario in un anno al mantenimento di una persona.</ref>).
L'introduzione del ''[[colonato]]'' (i latifondi furono suddivisi in piccoli lotti, affidati a coltivatori o ''coloni'' provenienti dalla categoria degli schiavi o dei braccianti salariati, che si impegnavano a cedere una quota del prodotto al padrone e a non abbandonare il fondo) permise di recuperare alla produzione terreni prima trascurati: lo schiavo era incentivato ad accettare questa condizione giuridica perché aveva qualcosa in proprio per nutrire sé e la famiglia (evitando anche il rischio dello smembramento del nucleo familiare per vendite separate), il lavoratore libero invece ebbe di che vivere, anche se dovette rinunciare a gran parte della propria autonomia perché obbligato a prestare i propri servizi secondo le esigenze del latifondista che gli aveva affidato in affitto la propria terra. Tuttavia, nemmeno il ''colonato'' risolse la crisi dell'agricoltura.<ref>Del resto, legare il colono alla terra mediante la coercizione non era certo un modo per aumentare la produttività o per migliorare la sorte dei lavoratori({{cita|Ruffolo|p. 102}}).</ref> Molta gente, infatti, disperata ed esasperata dalle guerre e dagli eccessi della tassazione, si diede al brigantaggio (in Gallia i contadini ribelli furono detti [[bagaudi]], in Africa nacque il movimento dei [[circoncellioni]]), taglieggiando viandanti e possidenti ed intercettando i rifornimenti, con grave aumento del danno per l'economia. Come se non bastasse, ricomparvero malaria e peste (tenute sotto controllo nell'Alto Impero), che infierirono su popolazioni ormai indebolite dalle guerre e dalle endemiche carestie. Il risultato fu una grave crisi demografica, che colpì non solo le campagne, ma anche le città, dove erano confluiti i contadini fuggiti dai campi. ===Commercio: disavanzo commerciale, crisi dei traffici ed inflazione===
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===Crisi delle città===
La forte instabilità politica, i saccheggi delle soldataglie romane (nel corso delle guerre civili) o barbariche, la stasi produttiva e l'insicurezza dei traffici impoverirono nel corso del Tardo Impero i ceti medi cittadini (artigiani e commercianti), i quali dovevano far fronte anche alla necessità di sfamare le moltitudini di contadini immigrati in città dalle campagne in seguito alla crisi dell'agricoltura. Nei primi secoli l'Impero era riuscito a sopperire in parte a questa esigenza grazie all'[[evergetismo]]<ref>Comprendeva non solo le distribuzioni gratuite di denaro o generi alimentari, ma anche l'allestimento di giochi, feste e gare, oppure la realizzazione di templi, circhi, terme e teatri.</ref> dei notabili, ma di fronte alla crisi furono proprio le distribuzioni gratuite di denaro o generi alimentari ad essere tagliate. Da [[Costantino]] in poi si preferì fare beneficenza alla [[Chiesa latina|Chiesa]], che nel V secolo d.C. ormai si era sostituita alle istituzioni statali nelle opere di carità, se non nell'amministrazione di gran parte delle città dell'[[Impero romano d'Occidente]].
I senatori latifondisti ed i ricchi imprenditori (banchieri, armatori, alti funzionari), che avevano privilegi esorbitanti e vivevano di rendita in un lusso sfarzoso, cominciarono a preferire la vita in campagna a quella in città. Nei loro stessi latifondi cominciarono a concentrarsi attività industriali ed artigianali, capaci di renderli autosufficienti (la conseguenza fu un'ulteriore riduzione delle opportunità di lavoro per i ceti medi cittadini, già in difficoltà per la crisi dei traffici commerciali) e, nel caos generale che anticipò la [[caduta dell'Impero romano d'Occidente]], cominciarono a provvedere da sé alla tutela delle loro proprietà, assoldando eserciti privati (i cosiddetti ''buccellarii''). Lo Stato finì per affidare loro quei compiti che non era più in grado di assolvere, come la riscossione delle tasse dei coloni e dei contadini rimasti liberi nei villaggi, che si affidavano ormai a loro per la protezione delle proprie famiglie (fenomeno del ''patronato''): su queste basi si svilupperà la [[signoria feudale]] nel [[ ===Economia e società: fiscalità oppressiva, professioni coatte e disuguaglianza giuridica===
Il costo crescente dell'esercito nel Tardo Impero (erano necessari continui aumenti di stipendio ed elargizioni per tenerlo quieto)<ref>Il bilancio militare all'inizio del III secolo era salito a 3 miliardi di sesterzi, pari al 75% della spesa pubblica, che a sua volta contava per il 20% del Pil. ({{Cita|Ruffolo|p. 85}}).</ref> e le spese della corte e della burocrazia (aumentata anch'essa in quanto al governo servivano sempre più controllori che combattessero l'evasione fiscale ed applicassero le leggi nella vastità dell'Impero), non potendo più ricorrere troppo alla svalutazione monetaria che aveva causato tassi d'inflazione incredibili, si riversarono, soprattutto tra il III ed il IV secolo (quando le dimensioni dell'esercito furono vicine ai 500.000 uomini in armi, se non di più), sulle imposte con un intollerabile peso fiscale<ref>Ai tempi di Augusto la spesa pubblica (pari a circa il 5% del Pil era finanziata per un terzo dalle imposte dirette (fondiaria e personale) e per il resto da imposte indirette, dazi commerciali e redditi dei patrimoni imperiali: dunque la pressione fiscale si riduceva al 4% del Pil. Ai tempi di Diocleziano e [[Costantino]], invece, la pressione fiscale quadruplicò, fino ad arrivare a circa la metà del Pil intorno alla metà del IV secolo. Un indice quantitativo indiretto del fenomeno è costituito dal progressivo aumento dei ''reliquia'', ovvero gli arretrati delle tasse, che documentano una impossibilità di pagare o incapacità di incassare le tasse ({{cita|Ruffolo|p. 109}}).</ref> (riforma fiscale di [[Diocleziano]] attraverso l'introduzione della [[iugatio-capitatio|''iugatio''-''capitatio'']] nelle campagne e altre imposizioni fiscali per i centri urbani).
Dato che i nullatenenti non avevano niente ed i ricchi contavano su appoggi e corruzione<ref>La corruzione nel Tardo Impero, a differenza che nell'Alto Impero, non era più semplicemente tollerata o dissimulata, ma ostentata ed acclamata. I poteri di fatto erano gestiti da una vera e propria categoria sociale (a Roma li chiamavano ''maiores'' o ''priores''), che comprava e vendeva tutto. C'era un vero mercato dei favori e dei delitti. Un verdetto di esilio costava 300 000 sesterzi, uno strangolamento in carcere 700 000. La rete dei poteri di fatto riusciva spesso a neutralizzare l'intervento correttivo dei funzionari e dello stesso imperatore. Agenti principali della corruzione erano gli esattori: quelli pubblici (''publicani'') e quelli semiprivati: «Richiedevano barche, cibo, cavalli; molestavano le spose». Arruolavano abusivamente contadini inermi, d'autorità, o intascavano dai latifondisti il prezzo del mancato arruolamento (R. MacMullen, ''La corruzione e il declino di Roma'', Il Mulino, 1991).</ref> chi ne pagò il costo furono il ceto medio (piccoli proprietari terrieri, artigiani, trasportatori, mercanti) e gli amministratori locali ([[decurione|decurioni]]), tenuti a rispondere in proprio della quota di tasse fissata dallo Stato (''indizione''<ref> L'indizione era una specie di finanziaria annuale, sulla base della quale erano calcolate le spese che l'Impero avrebbe dovuto sostenere l'anno seguente e quindi le entrate delle quali aveva bisogno.</ref>) a carico della comunità per evitare l'evasione fiscale. L'[[evergetismo]], che era un munifico e magnifico vanto, diventò sempre più una obbligazione imposta dal governo centrale. Le cariche pubbliche, che in precedenza erano ambite, significavano nel Tardo Impero gravami e rovina. Per arrestare la fuga dal decurionato, dalle professioni e dalle campagne, che divenne generale proprio con l'inasprimento della pressione fiscale tra il III ed il IV secolo d.C., lo Stato vincolò ciascun lavoratore e i suoi discendenti al lavoro svolto fino ad allora<ref>Stazionaria era l'economia, stazionaria divenne anche la società.</ref>, vietando l'abbandono del posto occupato (fenomeno delle "professioni coatte", che nelle campagne finirà per dare avvio, attraverso il ''[[colonato]]'', a quella che nel [[Medioevo]] verrà chiamata "[[servitù della gleba]]"). L'avanzamento sociale (possibile solo con la carriera militare, burocratica o ecclesiale) non derivava dalla competizione sui mercati, bensì dai favori provenienti dall'alto. È comprensibile, a questo punto, che molti considerassero l'arrivo dei barbari non tanto una minaccia, quanto una liberazione. Ormai si era scavato un solco profondo tra uno Stato sempre più invadente e prepotente (soprusi dell'esercito e della burocrazia) e la società. Lo Stato che nel V secolo crollò sotto l'urto dei barbari era uno Stato ormai privo di consenso<ref>{{cita|Ruffolo|p. 113 Quando le popolazioni germaniche occuparono i territori dell'Impero d'Occidente, si trovarono di fronte una società profondamente divisa tra una minoranza di privilegiati e una massa di povera gente. La distanza sociale prima esistente tra lavoratori liberi e schiavi si era, infatti, ridotta notevolmente con l'istituzione del ''[[colonato]]'': entrambi erano dipendenti nella stessa misura dal ricco proprietario del fondo agricolo. Anche questo fenomeno, quindi, contribuì alla biforcazione della società nelle due principali categorie sociali del Tardo Impero, profondamente differenti non solo per il censo (poveri e ricchi), ma anche per le condizioni giuridiche (con il fenomeno delle professioni coatte, infatti, la distanza economica tra classi ricche e classi povere divenne anche una distinzione di diritto, fissata dalla legge): gli "inferiori" (''humiliores''), cui appartenevano la massa dei ''coloni'' e dei proletari urbani, e i "rispettabili" (''honestiores''), cui appartenevano i grandi proprietari terrieri ed i vertici della burocrazia militare e civile. Solo agli ''humiliores'' erano riservate le punizioni più dure ed infamanti, come la fustigazione e la pena di morte.
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===Maggiore ricchezza dell'Impero romano d'Oriente===
{{vedi anche|Impero bizantino|Impero romano d'Occidente}}
Quando nel IV secolo d.C. (324) [[Costantino]] trasformò [[Bisanzio]] in una nuova capitale, Roma cessò di essere il centro economico dell'impero. La nuova Roma, chiamata [[Costantinopoli]], fu dal punto di vista economico molto più vivace della prima. Non solo luogo del consumo, ma autentica capitale dei traffici e delle produzioni, mantenne questo ruolo, sia pure tra infinite vicissitudini, per un periodo di più di mille anni, fino alla caduta per mano turca nel 1453. Più in generale, nell'[[Impero bizantino|Impero romano d'Oriente]] il sistema produttivo era ancora efficiente, gli scambi commerciali più vivaci, ed il declino delle città molto meno accentuato che in Occidente (l'eccezione era rappresentata dalle città della Grecia, ormai impoverite da lunghi secoli di decadenza ed incapaci di riprendersi del tutto dopo i saccheggi dei Goti e dei Sarmati nel III secolo d.C.). L'economia urbana si reggeva sulla prosperità delle campagne, dove opportune misure garantirono la sopravvivenza della piccola proprietà (soprattutto in [[Anatolia]], [[Siria]], [[Palestina]] ed [[Egitto]]) contro l'estendersi dei latifondi<ref>Sia l'Asia minore che l'Egitto non avevano conosciuto lo sviluppo dell'economia schiavile di massa, con l'estensione del latifondo, e non furono quindi troppo toccate dal declino della schiavitù ({{cita|Ruffolo|p. 153|}}).</ref>, con notevoli vantaggi per la produzione e la demografia (oltre a Costantinopoli, vale la pena citare fra le città più popolose [[Antiochia di Siria|Antiochia]], [[Alessandria d'Egitto]] e [[Nicomedia]]).
La disponibilità di moneta era poi garantita dalle esportazioni e sorresse l'artigianato e la piccola industria, gestiti o controllati dallo Stato. Furono così superate le difficoltà derivanti dall'alto costo dei trasporti e dalla stasi dei commerci durante i frequenti conflitti. Lo Stato non riuscì invece a risolvere il male tipico del Tardo Impero: l'eccessivo fiscalismo per le spese dell'esercito e della burocrazia. In ogni caso, l'Impero romano d'Oriente o Impero bizantino riuscì a resistere meglio agli assalti dei barbari, perché più ricco di uomini e di risorse, meglio difendibile e meglio organizzato sul piano politico (autocrazia e centralismo bizantini: l'imperatore d'Oriente si considerava il [[vicario di Dio]] in terra, il che lo poneva al vertice non solo della gerarchia civile, ma anche di quella ecclesiastica<ref>Si trattava di un dispotismo accettato senza problemi dalle popolazioni mediorientali ed egiziane, abituate da secoli all'adorazione sacrale del potere supremo. Il consenso all'imperatore era favorito, inoltre, anche dall'atteggiamento devoto della Chiesa orientale, che identificava le proprie fortune con la tenuta del governo centrale. Nella parte occidentale dell'Impero, invece, la Chiesa si sganciò presto dall'abbraccio di Costantino e, pur mantenendosi leale ai suoi successori cristiani, badò soprattutto a rafforzare la propria autonomia dal governo centrale, fino a diventare punto di riferimento istituzionale per le nuove nazioni barbare({{cita|Ruffolo|pp. 153 e 159-160|}}).</ref>). Nella parte occidentale dell'Impero, invece, la situazione economica durante il Tardo Impero era molto peggiore. L'Occidente era più lontano dalle grandi correnti commerciali del resto del mondo, il ceto medio contadino era stato distrutto e la struttura sociale si era polarizzata tra ricchissimi e poverissimi, i ceti medi urbani erano meno fitti e meno influenti. Nella [[Gallia]] e nella [[Rezia]], soggette a frequenti scorrerie barbariche, lo spopolamento e le devastazioni delle campagne furono molto più accentuate che in altre province. In Spagna la produzione di olio andò sempre più diminuendo, mentre le grandi miniere chiusero del tutto già verso la fine del IV secolo. La [[Pannonia]] da un lato poteva contare su vivaci mercati dovuti alla presenza dei soldati-consumatori delle legioni sul ''limes'' danubiano, dall'altra era spesso devastata dalle incursioni germano-sarmatiche, che precedettero l'invasione degli [[Unni]]. La [[Britannia (provincia romana)|Britannia]] non fu sfiorata dalla crisi del III secolo (nelle campagne attorno a [[Londra|Londinium]] sorsero ricche residenze rurali in quel periodo), ma tra IV e V secolo crollò del tutto sotto l'urto delle invasioni degli [[Angli]] e dei [[Sassoni]]. Tra le province della sezione occidentale quella più prospera fu sicuramente l'[[Africa (provincia romana)|Africa]] proconsolare, la cui maggiore ricchezza derivava dalla ingente produzione d'olio nei latifondi (la metà delle terre apparteneva a una decina di grandi latifondisti): [[Cartagine]] rimase a lungo la terza città dell'Impero, dopo Roma e Costantinopoli.
==Note==
==Bibliografia==
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* G. Cascarino & C. Sansilvestri, ''L'esercito romano. Armamento e organizzazione'', Vol. III - Dal III secolo alla fine.
* Francesco De Martino, ''Storia economica di Roma antica'', La Nuova Italia, Firenze, 1980.
* {{cita libro |
* Geraci e Marcone, ''Storia romana'', Le Monnier, 2004.
* E. Lo Cascio, ''Roma imperiale. Una metropoli antica'', Carocci, 2011.
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* Walter Scheidel & Steven Friesen, ''The Size of the Economy and the Distribution of Income in the Roman Empire'', in ''[[The Journal of Roman Studies]]'' (Nov. 2009), Vol. 99, pp. 61–91.
* D.Ch. Stathakopoulos, ''Famine and Pestilence in the late Roman and early Byzantine Empire'', (2007).
*Alessio Succa, ''Economia e Finanza dell'Impero Romano'', Trento, 2017.
{{Economia e finanza nell'Antica Roma}}
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