Suicidio nell'antica Roma: differenze tra le versioni

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Il '''suicidio nell'antica Roma''' era considerato come la massima e legittima espressione della libertà personale.
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Il '''suicidio nell'antica Roma''' era considerato come la massima espressione della libertà personale.
==Il suicidio secondo il Diritto romano==
Mentre nella cultura [[Antica Grecia|antica greca]] il [[suicidio]] era legittimato solo nel caso riguardasse personaggi esemplari che si trovassero in situazioni particolari, nella tradizione [[Roma (città antica)|romana]] era considerato un diritto appartenente a ogni cittadino.<ref>[[Paul romano cheVeyne]], pur''La avendo numerosisocietà obblighi nei confronti dello Statoromana'', inLaterza.Roma-Bari caso1990</ref> fallisseFallire il proprio suicidio non dovevaimplicava di dover rispondere alla legge che non lo prevedeva affatto, poiché la vita era stimata come un bene supremo, ma legato al diritto privato della persona che poteva farnedisporne ciòa chepiacimento. volevaUnica senzaeccezione risponderneera aquella nessunrappresentata altroda chi, tentando il suicidio per evitare il servizio militare, veniva punito con il congedo con disonore.<ref>Ove''Lo nonstudio indicatodel diversamente,diritto romano ovvero Le Instituta e le informazioniPandette contenutemesse in questaconfronto vocecogli hannoarticoli comedi fonte:tutte [[Paulle Veyne]parti del codice nelle recitazioni di Eineccio. Versione italiana con note. Opera elaborata da una Società di giureconsulti per cura di Nicola Comerci. Volume 1. [-3.], ''La- societàNapoli : romanastabilimento letterario tipografico dell'Ateneo, 1830'', Laterzap.Roma-Bari 1990391</ref>.
 
[[File:Manuel Domínguez Sánchez - El suicidio de Séneca.jpg|300px|thumb|Manuel Domínguez Sánchez, ''Il suicidio di Seneca'', 1871, ''Museo Nacional del Prado'', Madrid]]
Il [[diritto romano]]<ref>Arrigo Diego Manfredini, ''Il suicidio: studi di diritto romano'', G. Giappichelli, 2008</ref> interveniva infatti quando sorgesse un conflitto di interessi tra individui, chei quali ricorrevano alla legge affinché fossero regolati secondo giustizia. Se, per un verso, il diritto romano non riconosceva particolari libertà ai cittadini, per un altro, non intervenivaagiva se non quando venisse danneggiato l'interesse di qualcuno. Il suicidio acquista alloraacquistava allora la fisionomiacaratteristica di una libertà del cittadino poiché la legge non intervieneinterveniva a proibirlo.

Quando infine i giuristi romani in [[Impero romano|età imperiale]] si interessanointeressarono del suicidio, si limitanolimitarono a definirlo una "libertà naturale" <ref>Antonio Parrino, ''I diritti umani nel processo della loro determinazione storico-politica'', GAIA srl - Edizioni Univ. Romane, 2007 p.25</ref> enumerando tutti i vari motivi che possonopotevano indurre al suicidio come per sofferenze fisiche o disgusto di vivere (''taedium vivere''), per follia o «ostentazione, come nel caso di certi filosofi» che vogliono mostrare il loro disprezzo per la morte»,<ref>Francesco Remotti, ''Forme di umanità'', Pearson Italia S.p.a., 2002 p.68</ref> per lutti familiari o per malattia, ma confermando sempre che si trattatrattava di un aspetto che non riguardariguardava la legge.
Su tutti i motivi che portanoportavano al suicidio vi è in evidenza per i Romani anche quello della "morte opportuna" per cui invece che attendere la morte passivamente, liberamente si decidedecideva di anticiparla suicidandosi:
{{quotecitazione|...tra tutti i beni che la natura offre agli uomini nessuno è migliore della morte tempestiva...||...ex omnibus bonis, quae homini tribuit natura, nullum melius esse tempestiva morte...<ref>[[Plinio il Vecchio]], ''Naturalis Historia'', XXVIII, 1-14</ref>|lingua=la}}
Quest'ultimo tipo di suicidio ricorreva nella società romana soprattutto nel caso di gravi ammalati in fine vita che volessero porre termine alle loro sofferenze.
 
[[Cicerone]] ribadisce le idee di [[Pitagora]], secondo il quale l'uomo appartiene alle divinità che decideranno del tempo della sua morte.
==Il suicidio degli schiavi==
{{Citazione|Perciò tu [...] e tutti i pii dovete trattenere ancor l’anima in prigionia del corpo, né potete emigrarvene dalla vita umana senza l’ordine di colui dal quale l’anima vi è stata data, per non sembrare d’aver disertato l’ufficio umano commessovi dal dio|| Quare et tibi, [...] et piis omnibus retinendus animus est in custodia corporis, nec iniussu eius, a quo ille est vobis datus, ex hominum vita migrandum est, ne munus humanum adsignatum a deo defugisse videamini.<ref>[http://online.scuola.zanichelli.it/candidisoles-files/testi/6393_Candidi-Soles_Cicerone_Testo-03.pdf Cicerone, ''De re publica: Somnium Scipionis'', 15]</ref> |lingua=la}}
Tutto questo valeva per gli uomini liberi. Diverso l'atteggiamento del diritto nei confronti del suicidio dello schiavo, atto che viene giudicato come causato «dalla sua stessa ''nequitia''» <ref>[[Giulio Paolo]], ''Dig. XXI, 1,43,4</ref> per cui viene definito un "cattivo schiavo", ossia "uno schiavo che non è uno schiavo", non moralmente ma nel senso che la "res" servile mostrava con il tentato suicidio un difetto nascosto che la rendeva un utensile mal funzionante tanto che il venditore era obbligato a denunciare, se non voleva incorrere nel risarcimento al compratore, anche il tentato suicidio tra gli eventuali "vitia" dell'oggetto della vendita. <ref>[[Francesco Remotti]], ''Forme di umanità'', Pearson Italia S.p.a., 2002 p.68</ref>
Tuttavia in alcune circostanze l'uomo può anticipare la fine della sua vita<ref>''De Senectute'', Milano, BUR Rizzoli, 1958, paragrafi 72-73.</ref> mettendo in atto quel metodo ottimale per evitare le sofferenze che è quello di darsi la morte «eterno rifugio per non sentire più nulla» (''aeternum nihil sentiendi receptaculum'')<ref>Cicerone, ''Tusculanae disputationes'', 5.40.117</ref>
[[File:Ponte Fabricio Rome Pierleoni.jpg|300px|thumb|Il [[ponte Fabricio]] (62 a.C.) in Roma]]
 
Sulla stessa linea, [[Lucio Anneo Seneca|Seneca]] ritiene opportuno suicidarsi quando il corpo non è più in grado di assolvere le sue normali funzioni poiché è diventato «un edificio putrido e decadente» (''ex aedificio putri ac ruenti'')<ref>Seneca, ''Epistulae'', 6.58.34-36</ref> o quando è stato colpito da una malattia incurabile.
==Le modalità del suicidio==
Le fonti storiche antiche ci hanno tramandato esempi di suicidi di personaggi famosi che si uccidono in vari modi ma per lo più trafiggendosi di propria mano o gettandosi sopra un pugnale tenuto da uno schiavo o tagliandosi le vene, mentre trascurano quello che avveniva ogni giorno tra la gente comune. Un'eccezione è rappresentata da Orazio che ci descrive come per un disastro finanziario abbia tentato il suicidio sventato dall'intervento del filosofo Stertinio:
 
Un altro tipo di suicidio è previsto dai testi giuridici dal I al III secolo d.C. conservati nel ''[[Digesto]]'' e da alcune [[costituzione imperiale|costituzioni imperiali]] del II e III secolo d.C. riportate nel ''[[Codice giustinianeo]]''. La legge romana prescriveva infatti che fossero nulle le disposizioni testamentarie lasciate da chi aveva commesso gravi crimini puniti con la morte. Per evitare però la confisca dei beni, dal I secolo a.C. l'imputato, prima della pronuncia della sentenza, poteva evitare la confisca dei beni destinati agli eredi anticipando l'esecuzione della condanna suicidandosi. Successivamente questa disposizione venne annullata salvo il caso che gli eredi del suicida non riuscissero a dimostrare che il suicidio era avvenuto per sottrarsi alle sofferenze di una grave malattia o per il ''taedium vitae'' ("[[noia]] di vivere"). Nel primo caso occorreva l'intervento di un medico che attestasse le gravi condizioni del malato mentre nel secondo caso era lo stesso medico che procurava il sollievo dalla noia di vivere al suo cliente.
{{Citazione|Ho trascritto di lui [del filosofo Stertinio] questi precetti mirabili, dal giorno in cui mi diede conforto e mi ordinò di farmi crescere la barba da filosofo e tornarmene via dal ponte Fabricio meno triste: andato ogni mio affare alla malora, mentre, coperto il capo, stavo lì per buttarmi nel fiume, egli comparve alla mia destra e disse:“Non farai cosa indegna di te. Falso pudore ti angustia: ti vergogni, temi d’essere considerato un pazzo in mezzo ai pazzi.||Unde ego mira descripsi docilis praecepta haec, tempore quo me, solatus iussit sapientem pascere barbam atque a Fabricio non tristem ponte reverti. Nam male re gesta cum vellem mittere operto me capite in flumen, dexter stetit et “cave faxis te quicquam indignum; pudor” inquit “te malus angit,
insanos qui inter vereare insanus haberi. <ref>Orazio, ''Satire'', II, 3, 35-40</ref>|lingua=la}}
[[File:Peter Paul Rubens 107.jpg|thumb|upright=1.4|La morte del console [[Publio Decio Mure (console 340 a.C.)|Publio Decio Mure]] per ''devotio'', opera di [[Peter Paul Rubens]], 1617-1618.]]
Il racconto di Orazio ci indica il ponte Fabricio quale luogo da dove forse comunemente ci si suicidava e il gesto di coprirsi la testa prima di uccidersi, che è confermato anche da Livio a proposito dei suicidi collettivi di plebei alla fine del V secolo a.C. per gli interventi per la carestia del prefetto dell'annona Lucio Minucio:
{{Citazione|si gettarono nel Tevere dopo essersi velati il capo. || capitibus obvolutis se in Tiberim praecipitaverunt. <ref>[[Tito Livio]], ''[[Ab Urbe condita libri]]'', IV, 12, Newton Compton, Roma, trad.: G.D. Mazzocato</ref>|lingua=la}}
 
Dal IV secolo, pur non mutando il quadro giuridico, cambia la considerazione del suicidio che passa dall'essere tollerato all'essere apertamente condannato, per la diffusione delle idee [[neoplatonismo|neoplatoniche]]<ref>Plotino, Porfirio e Microbio affermano decisamente la loro contrarietà al suicidio poiché lo scopo del vivere è quello di purificare l'anima e spezzare violentemente il legame di questa col corpo significa non tener conto della scadenza stabilita dagli dei.</ref> ereditate dal [[pitagorismo]] e per la predicazione dei [[Padri della Chiesa]] ([[Sant'Ambrogio]], [[Eusebio di Cesarea]], [[Agostino d'Ippona|S.Agostino]]).<ref>Aldo Petrucci, ''Lezioni di diritto privato romano'', G. Giappichelli Editore, 2015, p.66</ref><ref>[[Sant'Agostino]] di [[Ippona]] sostiene che il suicida pecca contro Dio e commette un'ingiustizia nei confronti della comunità. Egli scrive: «Noi, e non senza ragione, non troviamo mai nei libri canonici un punto in cui sia comandato o permesso da Dio di uccidersi né per la gloria immortale né per liberarsi da un male o per evitarlo. Anzi, dobbiamo intendere che ci sia stato proibito, dove la legge dice: "Il prossimo tuo [....] Non ucciderai": dunque né altri né te stesso: infatti chi uccide se stesso, non uccide altri se non un uomo.» (''De Civitate Dei'', Roma, Nuova Città Editrice, 1974, libro I, p.20.)</ref>
Mentre il ceto più alto trascurava questo modo di uccidersi come indegno della loro condizione sociale era invece frequente tra i plebei l'impiccagione, una forma semplice di uccidersi in privato che ci tramandano diverse commedie di Plauto. <ref>François Hinard, Marie-Françoise Lambert, ''La mort au quotidien dans le monde romain: actes du colloque organisé par l'Université de Paris IV (Paris-Sorbonne 7-9 octobre 1993), De Boccard, 1995 p.195</ref>
 
==Il suicidio per il ''devotiotaedium vitae''==
{{Citazione|Affranto dalle angosce di uno spirito oppresso e dai molti dolori del corpo, che mi fecero provare disgusto per entrambi, mi sono dato la morte che desideravo. |Iscrizione funeraria di Marco Pomponio Bassulo (50-120 d.C.?)<ref>Berlage J., ''Ziekten en sterfgevallen in de brieven Van Plinius de Jongere'', ''Hermeneus'', 9, 1938, pp 66-73</ref> }}
Una originale forma di suicidio presso i Romani era la ''devotio'' per la quale un comandante dell'[[esercito romano|esercito]] nel corso della battaglia sacrificava la sua vita come offerta agli [[dei Mani]] per ottenere, in cambio della propria vita, la salvezza e la vittoria dei suoi uomini. Sebbene questo rito fosse praticabile da qualsiasi cittadino <ref>[[Tito Livio]], ''[[Ab Urbe condita libri]]'', VIII, 10.</ref> di solito doveva essere eseguito dal [[console romano|console]] o dal [[dittatore romano]] ma in effetti lo si ritrova esclusivamente nella gens dei Decii.
{{Doppia immagine|right|Seneca.JPG|160|Caracalla03 pushkin.jpg|120|Presunti busti di Lucrezio<ref>Non esistendo immagini dell'epoca che raffigurino con certezza Lucrezio, alcuni e diversi busti sono stati identificati talvolta con suoi ritratti, reali o di fantasia. Ad esempio: (a sinistra) uno dei busti noti come [[Pseudo-Seneca]], che in realtà erano forse ritratti immaginari di [[Esiodo]] (l'esemplare mostrato venne trovato nella [[villa dei papiri]] di [[Ercolano (città antica)|Ercolano]], noto centro della filosofia epicurea); e un busto dell'imperatore [[Caracalla]], con l'abbreviazione Luc. Car., cioè ''Lucio Caracalla'' (il suo vero nome di nascita era Lucio Settimio Bassiano) e non ''Lucrezio Caro''. (G. Lippold, Testo per Arndt-Bruckmann, Griech. u. röm. Porträts, tavv. 1211-1216, Monaco 1942 e [http://www.treccani.it/enciclopedia/pseudo-seneca_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Antica%29/ Enciclopedia dell'arte antica])</ref>}}
Antesignano del ''taedium vitae'' degli uomini illustri è [[Tito Lucrezio Caro|Lucrezio]] (98-55 a.C.) che si trova a vivere in un periodo difficile della storia di Roma del I secolo a.C. caratterizzata dalle guerre civili e dal declino dei valori tradizionali sopraffatti dalla dissolutezza portata dall'afflusso delle ricchezze orientali.
{{citazione|...uno scoramento senza limiti s'impadronì delle anime e delle menti più illuminate [...] E così che delusi e scoraggiati dagli orrori delle prime guerre civili e preoccupati dalla prospettiva di guerre ancora più terribili, alcuni cittadini in cerca di evasione, di oblio e di riposo senza risveglio amaro ... sprofondarono in una sorta di noia morbosa e ansiosa.<ref>Yolande Grisé, ''Le suicide dans la Rome antique'', ''Le Belles Lettres'', Parigi 1983, p.70</ref> }}
I Romani benestanti, scrive Lucrezio, cercano di sfuggire a questo stato ma non capiscono che in questo modo «si fugge soltanto se stessi, ma non ci si stacca da ciò che si vuole fuggire» <ref>Lucrezio, ''De rerum natura'', Libro III, Newton & Compton, Roma 2000, 1068-1069 p.191</ref>.
 
Il suo ''De rerum natura'' è ricchissimo di connotazioni tipici del ''taedium vitae'' tanto che alcuni studiosi hanno sottolineato il pessimismo di fondo che si opporrebbe alla volontà di rinnovare il mondo a partire dalla filosofia epicurea; in altre parole, in Lucrezio ci sarebbero due spinte contrapposte; l'una dominata dalla razionalità e fiduciosa nel riscatto dell'uomo, l'altra ossessionata dalla fragilità intrinseca degli esseri viventi e dal loro destino di dolore e morte. Altri studiosi, però ritengono che l'insistenza di Lucrezio sugli aspetti dolorosi della condizione umana non sia altro che una strategia di propaganda, per fare emergere più fortemente la funzione salvifica della ratio epicurea.<ref>[http://www2.classics.unibo.it/Didattica/LatBC/IntroLucr.pdf Lucrezio, introduzione]</ref>
Il primo fu nel [[340 a.C.]] il [[console romano]] [[Publio Decio Mure (console 340 a.C.)|Publio Decio Mure]], [[Guerra latina|combattendo contro i Latini]], dopo aver consultato gli [[auspicium|auspicia]] prima della [[Battaglia del Vesuvio (340 a.C.)|battaglia del Vesuvio]] e riscontrando che erano poco favorevoli, <ref>[[Tito Livio]], ''[[Ab Urbe condita libri]]'', VIII, 9.</ref> chiese al [[pontefice massimo (storia romana)|pontefice]] come avrebbe potuto sacrificarsi per salvare il suo esercito, attirando sopra di sé la collera degli dei. Il pontefice gli mostrò un rito sacro, secondo il quale, indossata una ''[[toga praetexta]]'', velatosi il capo, doveva così invocare gli dei:
Questo aspetto della filosofia di Lucrezio ha investito la questione della sua pazzia e del suo presunto suicidio<ref>{{Cita web |url=http://www.lafrontieraalta.com/?p=847 |titolo=Aldo Oliviero, ''Il suicidio di Lucrezio'' |accesso=13 ottobre 2016 |urlarchivio=https://web.archive.org/web/20161013224850/http://www.lafrontieraalta.com/?p=847 |dataarchivio=13 ottobre 2016 |urlmorto=sì }}</ref> che secondo il pedagogista, medico e scrittore Giulio Della Valle<ref>G. Della Valle, ''Tito Lucrezio Caro e l'epicureismo campano'', Tipografia dell'Ospedale psichiatrico provinciale "L. Bianchi", 1933.</ref>, va risolto nel senso più probabile che il poeta si sarebbe tolto la vita come gesto di protesta verso la classe politica in ascesa, o perché condannato a suicidarsi con morte "onorevole".
{{citazione|Oh Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari, Divi Novensili, Dèi Indigeti, dèi che avete potestà su noi e i nemici, Dèi Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli dèi Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l'esercito per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici.||Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, Divi Novensiles, Di Indigetes, Divi, quorum est potestas nostrorum hostiumque, Dique Manes, vos precor veneror, veniam peto feroque, uti populo Romano Quiritium vim victoriam prosperetis hostesque populi Romani Quiritium terrore formidine morteque adficiatis. Sicut verbis nuncupaui, ita pro re publica [populi Romani] Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis populi Romani Quiritium, legiones auxiliaque hostium mecum Deis Manibus Tellurique devoveo. <ref>[[Tito Livio]], ''[[Ab Urbe condita libri]]'', VIII, 9.</ref>|lingua=la}}
[[File:Seneca-berlinantikensammlung-1.jpg|thumb|Busto di Seneca (''[[Antikensammlung (Berlino)|Antikensammlung]]'' di [[Berlino]], da un'[[Erma (scultura)|erma]] di Seneca e [[Socrate]]]]
Espletate queste formalità religiose, il console si lanciò a cavallo tra le file nemiche. Dopo aver ucciso molti nemici, cadde a terra in modo eroico, abbattuto dai dardi e dalle schiere [[latini|latine]]. Questo gesto diede ai suoi una tale fiducia e un tale vigore che i Romani si gettarono con grande impeto nella battaglia, mentre i nemici, confusi, cominciarono ad arretrare sotto la foga dell'armata romana, rincuorata dal sacrificio del proprio comandante. La [[Battaglia del Vesuvio (340 a.C.)|vittoria]], alla fine, arrise ai Romani.<ref>[[Sesto Aurelio Vittore|Aurelio Vittore]], ''De Viris Illustribus Romae'', 28.</ref>
[[Lucio Anneo Seneca|Seneca]] (4 a.C.-65 d.C.) avverte anche che sarebbe errato pensare che questa malattia mortale del disgusto di vivere sia propria soltanto dei grandi personaggi della storia:
{{Citazione|Non pensare che solo i grandi uomini abbiano avuto la forza di spezzare le catene della schiavitù umana:...uomini di infima condizione sociale si sono messi in salvo con straordinario impeto e, non potendo morire a loro agio e nemmeno scegliersi il mezzo che volevano per darsi la morte hanno afferrato quello che capitava sotto mano e con la loro violenza hanno tramutato in armi oggetti per sé innocui<ref>Seneca, ''Lettere a Lucilio'', UTET, Torino 1969,''Libro VIII, lettera 70''</ref>}}
E ad esempio di ciò che afferma porta il caso del gladiatore che si soffocò servendosi della spugna che collettivamente veniva usata nei bagni pubblici per asciugarsi le parti intime:
{{Citazione|Ognuno giudichi come crede l'azione di quest'uomo indomito, ma sia chiaro: alla schiavitù più pulita è preferibile la morte più sozza.<ref>Seneca, ''Op.cit. ibidem''</ref>}}
Tuttavia, aggiunge di non cadere negli eccessi:
{{Citazione|L'uomo coraggioso e saggio non deve fuggire dalla vita ma uscirne. Si eviti anzitutto quel sentimento che si è impadronito di molti: il desiderio anelante di morire<ref>Seneca, ''Lettere morali a Lucilio''. Vol. I, libro III, lettera 24</ref>.}}
 
Uno strumento per continuare a vivere potrebbe essere quello di trovarsi un'occupazione per giovare all'umanità ma accade che il ''taedium vitae'' si estenda anche al prossimo facendoci cadere nella [[misantropia]] che ci fa pensare che quelle virtù che noi non abbiamo neppure gli altri le possiedano:
[[File:Marc'aurelio da probalinthos, 161 dc. circa.JPG|thumb|Busto dell'imperatore Marco Aurelio di epoca romana]]
{{citazione|Non basta allontanare le cause personali di tristezza: a volte siamo avvolti dalla misantropia...<ref>Seneca, ''La serenità dello spirito'', II, 6-15</ref>}}
La nostra vita è un paradosso: ne proviamo disgusto ma temiamo di perderla e la vecchiaia ci rinnova continuamente questa paura facendoci coscienti del tempo che passa sempre più velocemente: un'altra caratteristica questa del ''taediumm vitae'':
{{citazione|Prima il tempo non mi pareva così veloce: ora mi sembra che esso passi con straordinaria velocità, sia perché sento avvicinarsi la fine, sia perché comincio a porre attenzione e a fare il calcolo degli anni perduti.<ref>Seneca, ''op.cit.'', Lettera 49</ref>}}
 
[[Marco Aurelio]] (121-180 d.C.) vedrà allora la soluzione del ''taedium vitae'' solo nel suicidio:
{{Citazione|Dobbiamo convincerci che non dipende dai luoghi il male di cui soffriamo, ma da noi; non abbiamo la forza di sopportare niente, né fatiche né piaceri, neppure noi stessi. Ecco perché alcuni si sono spinti al suicidio, perché le mete che si prefiggevano di raggiungere, a furia di cambiarle, riproponevano sempre le stesse cose, non lasciando spazio alle novità: la vita e il mondo stesso cominciarono a nausearli e alla loro mente si presentò l'interrogativo proprio di chi marcisce tra i propri piaceri: "Sempre le stesse cose! Fino a quando durerà tutto questo?"»<ref>M. Aurelio, ''Colloqui con se stesso'' In Ubaldo Nicola, ''Antologia di filosofia. Atlante illustrato del pensiero'', Giunti Editore, p.115</ref><ref>L'interrogazione finale è una citazione ripresa da Seneca, «...cominciò a disgustarli la vita e persino il mondo, ed ecco affacciarsi la tipica domanda, frutto del piacere deluso: "Sempre le stesse cose e fino a quando?"» (Seneca,''La serenità dello spirito'', II, 6-15, pp.17-21)</ref> }}
 
==Il suicidio paradossale di Petronio Arbitro==
Il suicidio di [[Petronio Arbitro]] (27-66) sembrerebbe rientrare nei casi di chi si dà la morte per il ''taedium vitae'', disgustato dalla ricerca dei piaceri e deluso dai suoi godimenti: il ritratto, invece, che ci ha tramandato Tacito, unica fonte della sua vita, è ben diverso da quello del classico gaudente deluso dai piaceri dell'esistenza:
{{citazione|A proposito di Gaio Petronio, poche cose vanno dette. Soleva trascorrere il giorno dormendo, la notte negli affari ufficiali o negli svaghi; la vita sfaccendata gli aveva dato fama, come ad altri l'acquista un'operosità solerte; e lo si giudicava non un gaudente e uno scialacquatore, come la maggior parte di coloro che dilapidano il loro patrimonio, ma un uomo di lusso raffinato. Comunque, come proconsole in Bitinia, e poi come console, egli seppe mostrarsi energico e all'altezza dei suoi compiti.<ref>Tacito, ''Annales'', XVI, 18-19</ref>}}
Petronio infatti, non esalta ma usa con signorile distacco i piaceri che la vita gli offre: il suo è un "lusso raffinato" che copre i suoi veri sentimenti così come appaiono nel ''Satyricon'', il suo romanzo dove trapela: «...una sotterranea tristezza, dell'autore, della sua classe sconfitta, di ideali tramontati, di energie senza altra applicazione che la servitù al dispotismo imperiale...»<ref>Luca Canali, ''Ritratti dei padri antichi: sedici scrittori latini e cristiani'', Edizioni Studio Tesi, 1993 p.121</ref> al quale Petronio si oppone "esteticamente", con toni apparentemente semplici («Le sue parole e le sue azioni, quanto più erano libere da convenzioni e ostentavano una certa sprezzatura, tanto maggior simpatia acquistavano con la loro parvenza di semplicità.»<ref>Tacito, ''op.cit. ibidem''</ref>) che nascondono la sua sprezzante ribellione in vita<ref>Scrive Tacito: «Tornato poi alle sue viziose abitudini (''o erano forse simulazione di vizi?'') venne accolto tra i pochi intimi di Nerone» (in Tacito, ''op.cit.ibidem'')</ref> e la sua rivincita, in morte, nel segno dell'arte con il suo suicidio che, fuori da ogni schema, è l'antitesi di quello filosofico di Seneca.
 
Petronio mentre cercava di raggiungere Nerone a Cuma venne fatto arrestare ed allora, aspettandosi di essere condannato a morte,
{{citazione|a quel punto non sopportò altri indugi del timore e della speranza. Tuttavia, non licenziò precipitosamente la vita: si tagliò le vene e poi tornò a legarle a suo piacimento, parlando con gli amici, ma non di argomenti seri, né cercando la fama di uomo coraggioso. Non diceva né ascoltava niente sull’immortalità dell’anima, né altre sentenze filosofiche, ma solo canti leggeri e versi facili.<ref>''op.cit. ibidem''</ref>}}
Progettò dunque la sua morte non come avrebbe voluto Nerone, ma come se fosse un sonno naturale e nello stesso tempo non lasciò, da cortigiano, un elogio al suo signore ma un duro giudizio:
{{citazione|Andò a pranzo e si assopì, volendo che la sua morte, pur imposta, avesse l'apparenza di un fortuito trapasso. Al testamento non aggiunse, come la maggior parte dei condannati, codicilli adulatori per Nerone o Tigellino e alcun altro potente; fece invece una particolareggiata narrazione delle scandalose nefandezze del principe, citando i nomi dei suoi amanti, delle sue prostitute e la singolarità delle sue perversioni: poi, dopo averlo sigillato, lo inviò a Nerone. Spezzò quindi il sigillo, per evitare che servisse a rovinare altre persone.»<ref>Tacito, ''op.cit.ibidem''</ref>}}
 
==Il suicidio degli schiavi==
TuttoLa questoconsiderazione del suicidio come un diritto privato valeva per gli uomini liberi. Diverso l'atteggiamento deldella dirittolegge nei confronti del suicidio dello schiavo, atto che vieneveniva giudicato come causato «dalla sua stessa ''nequitia''» <ref>[[Giulio Paolo]], ''Dig.'' XXI, 1,43,4</ref> per cui vieneil servo veniva definito un "cattivo schiavo", ossia "uno schiavo che non è uno schiavo",: "cattivo" non moralmente ma nel senso che la "res" servile mostrava con il tentato suicidio un difetto nascosto, un ''vitium'', che la rendeva un utensile mal funzionante tanto, che il venditore era obbligato a denunciare, se non voleva incorrere nel risarcimento al compratore, ancheper illa tentatovendita suicidio tra gli eventuali "vitia" dell'oggetto della venditafraudolenta. <ref>[[Francesco Remotti]], ''Forme di umanità'', Pearson Italia S.p.a., 2002 p.68</ref>
 
==Il suicidio della gente comune==
Le fonti storiche antiche ci hanno tramandato esempi di suicidi di personaggi famosi che si uccidono in vari modi ma, per lo più trafiggendosi di propria mano o gettandosi sopra un pugnale tenuto da uno schiavo o tagliandosi le vene, mentre trascurano quello che avveniva ogni giorno tra la gente comune. Un'eccezione è rappresentata da [[Quinto Orazio Flacco|Orazio]] che ci descrive come per un disastro finanziario abbia tentato il suicidio, sventato dall'intervento del filosofo StertinioStertinius:
[[File:Ponte Fabricio Rome Pierleoni.jpg|300pxupright=1.4|thumb|Il [[ponte Fabricio]] (62 a.C.) in Roma]]
{{Citazione|Ho trascritto di lui [del filosofo Stertinio] questi precetti mirabili, dal giorno in cui mi diede conforto e mi ordinò di farmi crescere la barba da filosofo e tornarmene via dal ponte Fabricio meno triste: andato ogni mio affare alla malora, mentre, coperto il capo, stavo lì per buttarmi nel fiume, egli comparve alla mia destra e disse:“Non "Non farai cosa indegna di te. Falso pudore ti angustia: ti vergogni, temi d’essere considerato un pazzo in mezzo ai pazzi".||Unde ego mira descripsi docilis praecepta haec, tempore quo me, solatus iussit sapientem pascere barbam atque a Fabricio non tristem ponte reverti. Nam male re gesta cum vellem mittere operto me capite in flumen, dexter stetit et “cave faxis te quicquam indignum; pudor” inquit “te malus angit,
insanos qui inter vereare insanus haberi. <ref>Orazio, ''Satire'', II, 3, 35-40</ref>|lingua=la}}
 
Il racconto di Orazio ci indica il [[ponte Fabricio]] quale luogo da dove forse comunemente ci si suicidava e il gesto di coprirsi la testa prima di uccidersi, che è confermato anche da [[Livio]] a proposito dei suicidi collettivi di plebei alla fine del V secolo a.C. per gli interventi per la carestia del [[prefetto dell'annona]] Lucio Minucio:
{{Citazione|si gettarono nel Tevere dopo essersi velati il capo. || capitibus obvolutis se in Tiberim praecipitaverunt. <ref>[[Tito Livio]], ''[[Ab Urbe condita libri]]'', IV, 12, Newton Compton, Roma, trad.: G.D. Mazzocato</ref>|lingua=la}}
 
Mentre il ceto più alto trascurava questo modo di uccidersi, comeritenuto indegno della loro condizione sociale, era invece frequente tra i plebei l'impiccagione, una forma semplice di uccidersi in privato che ci tramandano diverse commedie di [[Plauto]]. <ref>François Hinard, Marie-Françoise Lambert, ''La mort au quotidien dans le monde romain: actes du colloque organisé par l'Université de Paris IV (Paris-Sorbonne 7-9 octobre 1993)'', De Boccard, 1995 p.195</ref>
 
==Il suicidio per ''devotio''==
Una originale forma di suicidio presso i Romani era la ''[[devotio]]'' per la quale un comandante dell'[[esercito romano|esercito]] nel corso della battaglia sacrificava la sua vita come offerta agli [[dei Mani]] per ottenere, in cambio della propria vita, la salvezza e la vittoria dei suoi uomini. Sebbene questo rito fosse praticabile da qualsiasi cittadino <ref>[[Tito Livio]], ''[[Ab Urbe condita libri]]'', VIII, 10.</ref> di solito doveva essere eseguito dal [[console romano|console]] o dal [[dittatore romano]] ma in effetti lo si ritrova esclusivamente nella gens dei [[Decii]].
 
Il primo caso di ''devotio'' fu nel [[340 a.C.]] ilquello del [[console romano|console]] [[Publio Decio Mure (console 340 a.C.)|Publio Decio Mure]], [[Guerra latina|combattendo contro i Latini]],: dopoDopo aver consultato gli [[auspicium|auspicia]] prima della [[Battaglia del Vesuvio (340 a.C.)|battaglia del Vesuvio]] e riscontrando che erano poco favorevoli, <ref name=ReferenceA>[[Tito Livio]], ''[[Ab Urbe condita libri]]'', VIII, 9.</ref> Publio chiese al [[pontefice massimo (storia romana)|pontefice]] come avrebbe potuto sacrificarsi per salvare il suo esercito, attirando sopra di sé la collera degli dei. Il pontefice gli mostrò un rito sacro, secondo il quale, indossata una ''[[toga praetexta]]'', velatosi il capo, doveva così invocare gli dei:
[[File:Peter Paul Rubens 107.jpg|thumb|upright=1.46|LaIl mortesuicidio per ''devotio'' del console [[Publio Decio Mure (console 340 a.C.)|Publio Decio Mure]] per ''devotio'', opera di [[Peter Paul Rubens]], 1617-1618.]]
{{citazione|Oh Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari, Divi Novensili, Dèi Indigeti, dèi che avete potestà su noi e i nemici, Dèi Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli dèi Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l'esercito per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici.||Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, Divi Novensiles, Di Indigetes, Divi, quorum est potestas nostrorum hostiumque, Dique Manes, vos precor veneror, veniam peto feroque, uti populo Romano Quiritium vim victoriam prosperetis hostesque populi Romani Quiritium terrore formidine morteque adficiatis. Sicut verbis nuncupaui, ita pro re publica [populi Romani] Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis populi Romani Quiritium, legiones auxiliaque hostium mecum Deis Manibus Tellurique devoveo. <ref>[[Tito Livio]],name=ReferenceA ''[[Ab Urbe condita libri]]'', VIII, 9.</ref>|lingua=la}}
Espletate queste formalità religiose, il console si lanciò a cavallo tra le file nemiche. Dopo aver ucciso molti nemici, cadde a terra in modo eroico, abbattutocolpito dai dardi e dalledai schieresoldati [[latini|latine]]. Questo gesto diede ai suoi una tale fiducia e ununa tale vigoreforza che i Romani si gettarono con grande impeto nella battaglia, mentre i nemici, confusi, cominciarono ad arretrare sotto la foga dell'armata romana, rincuorata dal sacrificio del proprio comandante. La [[Battaglia del Vesuvio (340 a.C.)|vittoria]], alla fine, arrise ai Romani.<ref>[[Sesto Aurelio Vittore|Aurelio Vittore]], ''De Viris Illustribus Romae'', 28.</ref>
 
Seguendo lo stesso rituale di Publio Decio Mure si suicidarono i suoi due figli: uno, che aveva lo [[Publio Decio Mure (console 312 a.C.)|stesso nome]] del padre, durante la [[terza guerra sannitica]] nella [[battaglia di Sentino]] nel 295 a.C.<ref>Livio ''op.cit.'', X, 28</ref>; e l’altro [[Publio Decio Mure (console 279 a.C.)|anche lui console nel 279 a.C. e omonimo del padre]], durante la [[battaglia di Ascoli (279 a.C.)]] di quello stesso anno, contro le armate di [[Pirro]], la quale, nonostante il suo sacrificio fu perduta dai Romani, anche se vinta sul piano [[strategia|strategico]] ("[[vittoria di Pirro]]").
 
==Il suicidio onorevole del filosofo==
[[File:Manuel Domínguez Sánchez - El suicidio de Séneca.jpg|300pxupright=1.4|thumb|Manuel Domínguez Sánchez, ''Il suicidio di Seneca'', 1871, ''Museo Nacional del Prado'', Madrid]]
Quando Seneca, per la sua sospetta partecipazione<ref>Seneca venne costretto al suicidio da Nerone ma non esistono prove che egli fosse un congiurato: negli ''Annales'' di Tacito, al capitolo XV, dove viene descritto il contesto del suicidio e la congiura, Seneca non viene associato al braccio armato dei congiurati.</ref> alla [[congiura di Pisone]]<ref name=trombetti>Anna Laura Trombetti Budriesi, ''Un gallo ad Asclepio. Morte, morti e società tra antichità e prima età moderna'', pp. 393-397</ref>, riceve l'ordine di [[Nerone]] di togliersi la vita onorevolmente secondo il ''[[mos maiorum]]'', altrimenti sarebbe stato giustiziato come un uomo comune, non esita a scegliere il suicidio in osservanza del suo pensiero stoico che proclama che i mali sono tali solo in apparenza. In opposizione alla dottrina platonica che condannava il suicidio non motivato da gravissime circostanze:
{{Citazione|Ma chi uccide la cosa che gli è più propria, la cosa che, si dice comunemente, gli è più cara? Che cosa dovrà patire? E intendo chi se stesso uccide, sottraendosi con violenza al destino che gli è assegnato; chi compie tale delitto, senza che la Città lo abbia condannato a morire, senz'esser costretto da qualche caso inevitabile e angoscioso; senz'esser stato colpito da qualche ignominia che non ha rimedio e tale che renda impossibile la vita; chi per inerzia e viltà e debolezza impone a se stesso ingiusta sentenza.[...] In quanto alla sepoltura di chi si è in tal modo distrutto, sarà, intanto, isolata e non ci sarà nessuna altra tomba vicina; in secondo luogo (...), in quei posti che non sono lavorati; senza nome e senza pompa si dovrà seppellir lo sciagurato, senza lapidi e senza iscrizioni che ne distinguano la fossa.<ref>Platone, Leggi, IX, 873, C -D</ref>}}
lo stoicismo può anche accettare il [[suicidio]] come atto conclusivo del compito riservatogli dal destino, purché sia appunto una scelta deliberata e non dettata da un impulso momentaneo. Dev'essere cioè un atto razionalmente giustificato:
{{Citazione|La ragione stessa ci esorta a morire in un modo, se è possibile, che ci piace.||Eadem illa ratio monet, ut, si licet, moriaris quemadmodum placet.<ref>Seneca, ''Lettere a Lucilio'', libro VIII, 70, 28</ref>|lingua=la}}
Anche se il saggio deve giovare allo Stato, il suo servigio non può arrivare fino a compromettere la propria integrità morale, per salvare la quale egli dev'essere pronto all<nowiki>'</nowiki>''extrema ratio'' del suicidio. Solo la virtù e la saggezza, infatti, hanno valore, mentre la vita, sebbene preferibile alla morte, è un bene indifferente come la ricchezza, gli onori, e gli affetti.<ref>[http://www.treccani.it/scuola/tesine/morte_e_filosofi/1.html Seneca e il suicidio] {{webarchive|url=https://web.archive.org/web/20131216183505/http://www.treccani.it/scuola/tesine/morte_e_filosofi/1.html |data=16 dicembre 2013 }}.</ref> Se quindi la vita non consente più un sereno esercizio della ragione, il saggio è pronto a rinunciarvi, convinto che
{{citazione|Morire bene significa sfuggire al pericolo di vivere male.||Bene autem mori est effugere male vivendi periculum<ref>Seneca, ''Lettere a Lucilio'', libro VIII, 70, 6</ref>|lingua=la}}
[[File:David - The Death of Socrates.jpg|upright=1.4|thumb|''La morte di Socrate'', dipinto di [[Jacques-Louis David]]]]
 
===Il suicidio socratico di Seneca===
La morte di Seneca è descritta da Tacito con toni molto simili a quella di [[Socrate]] riportata nel ''[[Fedone]]'' e nel ''[[Critone]]'' di [[Platone]] riproponendo nel racconto la stessa atmosfera del filosofo circondato da parenti e amici. Come il filosofo greco è lui che consola i presenti invece che essere da questi consolato:
{{citazione|Frenava, intanto, le lacrime dei presenti, ora col semplice ragionamento, ora parlando con maggiore energia e, richiamando gli amici alla fortezza dell'animo, chiedeva loro dove fossero i precetti della saggezza, e dove quelle meditazioni che la ragione aveva dettato per tanti anni contro le fatalità della sorte. A chi mai, infatti, era stata ignota la ferocia di Nerone? Non gli rimaneva ormai più, dopo aver ucciso madre e fratello, che aggiungere l'assassinio del suo educatore e maestro.|| Simul lacrimas eorum modo sermone, modo intentior in modum coercentis ad firmitudinem reuocat, rogitans ubi praecepta sapientiae, ubi tot per annos meditata ratio aduersum imminentia? Cui enim ignaram fuisse saeuitiam Neronis? Neque aliud superesse post matrem fratremque interfectos quam ut educatoris praeceptorisque necem adiceret.<ref>Tacito, ''Annales'', 62</ref>|lingua=la}}
Dopo aver parlato ai discepoli, Seneca compie l'atto estremo:
{{citazione|Dopo queste parole, tagliano le vene del braccio in un solo colpo. Seneca, poiché il suo corpo vecchio ed indebolito dal vitto frugale procurava una lenta fuoriuscita al sangue, si recise anche le vene delle gambe e delle ginocchia.||Post quae eodem ictu brachia ferro exsolvunt. Seneca, quoniam senile corpus et parco victu tenuatum lenta effugia sanguini praebebat, crurum quoque et poplitum venas abrumpi.<ref>[[Publio Cornelio Tacito]], ''Annales'', XV, 63</ref>|lingua=la}}
{{citazione|Seneca intanto, protraendosi la vita in un lento avvicinarsi della morte, prega Anneo Stazio, da tempo suo amico provato e competente nell'arte medica, di somministrargli quel veleno, già pronto da molto, con cui si facevano morire ad Atene le persone condannate da sentenza popolare. Avutolo, lo bevve, ma senza effetto, per essere già fredde le membra e insensibile il corpo all'azione del veleno. Da ultimo, entrò in una vasca d'acqua calda, ne asperse gli schiavi più vicini e aggiunse che, con quel liquido, libava a Giove liberatore. Portato poi in un bagno caldissimo, spirò a causa del vapore e venne cremato senza cerimonia alcuna. Così aveva già indicato nel suo testamento, quando, nel pieno della ricchezza e del potere, volgeva il pensiero al momento della fine.||Seneca interim, durante tractu et lentitudine mortis, Statium Annaeum, diu sibi amicitiae fide et arte medicinae probatum, orat provisum pridem venenum quo damnati publico Atheniensium iudicio extinguerentur promeret; adlatumque hausit frustra, frigidus iam artus et cluso corpore adversum vim veneni. postremo stagnum calidae aquae introiit, respergens proximos servorum addita voce libare se liquorem illum Iovi liberatori. exim balneo inlatus et vapore eius exanimatus sine ullo funeris sollemni crematur. ita codicillis praescripserat, cum etiam tum praedives et praepotens supremis suis consuleret.<ref>Tacito, ''Annales'', XV, 64</ref>|lingua=la}}
[[File:Marcus Porcius Cato.jpg|thumb|''[[Catone Uticense]] legge il [[Fedone]] prima di togliersi la vita''.Jean-Baptiste Romand e François Rude, 1832-1835, Museo del Louvre]]
 
La somiglianza evidente con certi particolari (il discorso, la cicuta, poi la libagione alla divinità) della morte di Socrate, ha fatto ipotizzare<ref>Arturo De Vivo, Elio Lo Cascio (a cura di), ''Seneca uomo politico e l'età di Claudio e di Nerone: atti del Convegno internazionale: Capri 25-27 marzo 1999'', pp. 201 e segg.</ref> che Tacito abbia costruito il racconto ad imitazione del testo platonico. In effetti Tacito descrive con termini affini quasi tutti i suicidii dei filosofi e dei sapienti: quello di [[Trasea Peto]], di [[Catone Uticense]], per contrasto anche quello di [[Petronio Arbitro]]) e quello di [[Marco Anneo Lucano]], nipote di Seneca il quale sembra fosse anche lui coinvolto nella congiura<ref>Anna Laura Trombetti Budriesi, ''op.cit.'', ibidem</ref>:
{{Citazione|Comanda, poi, la morte di Anneo Lucano. E allorché costui, mentre il sangue usciva dalle vene, sentì che i piedi e le mani si facevano freddi e lo spirito vitale se ne andava poco a poco dalle estremità, ma la mente restava ancora lucida e pulsava vitale il cuore, si rammentò dei versi che aveva composto, nei quali aveva descritto un soldato ferito che moriva nello stesso modo; li volle recitare e furono le sue ultime parole. Perirono poi Senecione e Quinziano e Scevino, smentendo le precedenti mollezze della loro vita; in seguito morirono gli altri congiurati, senza fare o dire nulla che meriti ricordo.||Exim Annaei Lucani caedem imperat. is profluente sanguine ubi frigescere pedes manusque et paulatim ab extremis cedere spiritum fervido adhuc et compote mentis pectore intellegit, recordatus carmen a se compositum quo vulneratum militem per eius modi mortis imaginem obisse tradiderat, versus ipsos rettulit eaque illi suprema vox fuit. Senecio posthac et Quintianus et Scaevinus non ex priore vitae mollitia, mox reliqui coniuratorum periere, nullo facto dictove memorando.<ref>Tacito, ''Annales'', Liber XV, 70</ref>|lingua=la}}
 
==Note==
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==Bibliografia==
*Arrigo Diego Manfredini, ''Il suicidio: studi di diritto romano'', G. Giappichelli, 2008
*Paul Veyne, ''La società romana'', Laterza, Roma-Bari 1990
*Yves Grisé, ''Le suicide dans la Rome antique'', Montréal, Bellarmin / Paris, Les Belles Lettres, 1982
*Gabriel Matzneff, ''Le Suicide chez les Romains'' in ''Le défi'', Table ronde, 1977 p. &nbsp;144
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