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SU BAILLY
La ''Fête de la Fédération'' si tenne il [[14 luglio]] [[1790]], ad un anno esatto dalla [[Presa della Bastiglia]], e vi parteciparono i rappresentanti di tutte le province della [[Francia]] per assistere al solenne giuramento di fedeltà che sarebbe stato pronunciato dal generale [[Gilbert du Motier de La Fayette|La Fayette]], da [[Luigi XVI di Francia|Luigi XVI]] e da [[Charles Maurice de Talleyrand-Périgord|Talleyrand]], [[Diocesi di Autun|vescovo di Autun]]. La cerimonia si svolse al [[Campo di Marte (Parigi)|Campo di Marte]], dove per l'occasione fu costruito un grande anfiteatro in grado di ospitare 400'000 persone.<ref>[http://www.filarmonicacapitanio.it/articolo%20N16P10.htm 14 luglio 1790: la Festa della Federazione] di [[Giovanni Ligasacchi]]</ref>
=== Contesto generale: il ''grand ordre'' ===
L'ottimismo naïve che portò alla [[rivoluzione francese]] era basato su una curiosa miscela di [[razionalismo]] e di [[illuminismo]]. È una leggenda ormai superata che i grandi ''philosophes'' - [[Montesquieu]], [[Voltaire]], [[Denis Diderot|Diderot]], e [[Rousseau]] - fecero la rivoluzione. Questi leader culturali, teorizzatori della [[libertà politica]], erano tutti morti da almeno dieci anni quando essa avvenne. La rivoluzione infatti fu fatta da una generazione successiva di uomini che, ovviamente, furono molto influenzati dalle idee di questi grandi filosofi, ma il cui pensiero era spesso molto meno chiaro, perché caratterizzato dai ripetuti tentativi di risolvere il dilemma essenziale del XVIII secolo, quello del [[Progresso (filosofia)|progresso]] e del [[primitivismo]], della pietà e del [[scetticismo filosofico|Pirronismo]]. L'umore filosofico di questa generazione trova espressione in quella che vari critici contemporanei chiamano ''grand ordre''. Il ''grand ordre'' denota una filosofia di riforma basata sulla convinzione nella[[perfettismo|perfettibilità dell'uomo]], nella virtù e nella felicità del mondo primitivo, nella corruzione e nella sofferenza del mondo moderno, e quindi nel bisogno pressante di una totale rivoluzione. La rivoluzione prevista dal ''grand ordre'' sarebbe servita per riportare letteralmente ''in auge'', ovvero per ripristinare, l'[[età dell'oro]] attraverso la dissipazione dei pregiudizi, degli errori, della superstizione e con lo sviluppo delle arti, delle scienze, del commercio e dell'agricoltura. Era una [[Eclettismo|filosofia eclettica]], che differiva dal pensiero di Voltaire principalmente per l'assenza di [[scetticismo]] e da quella di Rousseau per l'assenza di qualunque valore morale reale.
Numerosi critici moderni si sono occupati di uno o più aspetti del ''grand ordre''; tra questi [[Carl Becker]] in ''The Heavenly City of the Eighteenth Century Philosophers'', Auguste Viatte in ''Les Sources occultes du Romantisme'', Auguste Le Flamanc in ''Les Utopies prérévolutionnaires'' e Daniel Mornet in ''Les Origines intellectuelles de la Révolution française 1715-1787''.
Gli schemi utopistici della Francia prerivoluzionaria attraevano numerosi uomini illuminati, perché erano basati sulla scienza e sulla storia e perché indicavano di essere autentiche documentazioni delle grandi leggi cosmiche che, in qualche modo, legittimavano questa tensione a risalire all'origine stessa del mondo.
I progenitori del ''grand ordre'' furono in effetti, sul lato razionalista, [[Cartesio]], [[Newton]], [[Leibnitz]], [[Voltaire]], e [[Georges-Louis Leclerc de Buffon|Buffon]] - gli scienziati, gli archeologhi e gli storici. Ma il ''grand ordre'' è stato anche strettamente legato alle società mistiche, i [[Rosa Croce|Rosacroce]], i [[massoneria|massoni]], i seguaci di [[Emanuel Swedenborg|Swedenborg]], e i [[Quietismo|quietisti]], che predicavano la dottrina della chiesa interiore, del cripto-cattolicesimo e del [[millenarismo]].
Non ci fu nessun grande leader del ''grand ordre'' e nessuno strumento per la sua propagazione. Il più curioso genio del ''grand ordre'' fu forse [[Antoine Court de Gébelin]], la cui dottrina è stata definita da Bernard Faÿ come una miscela di «razionalismo filosofico e sentimentalismo filantropico». Come razionalista egli fu anche amico e collega di [[Benjamin Franklin]] e [[Voltaire]]; come mistico collaborò con [[Louis Claude de Saint-Martin]], l'elegante e criptico teurgo di Lione.
[[Jean Sylvain Bailly]], più conosciuto come presidente dell'[[Assemblea nazionale costituente|Assemblea nazionale]] e primo [[sindaco di Parigi]], era un discepolo di Court de Gébelin. Scienziato ed illuminista, conservatore e rivoluzionario, Bailly combinava le forze contraddittorie della sua generazione. Nato in un ambiente essenzialmente artistico, egli abbandonò l'arte per studiare la Fisica Newtoniana. Sotto la guida di [[Alexis Clairaut]] e [[Nicolas-Louis de Lacaille]] divenne un astronomo rispettato ed ottenne un ampio riconoscimento in tutta [[Europa]] per le sue ricerche sui satelliti di [[Giove (astronomia)|Giove]]. Ma, attratto dal mistero dell'antica astronomia, egli abbandonò gradualmente i telescopi in favore della penna da storico. Tra il [[1775]] e il [[1787]] egli pubblicò cinque grandi volumi sulla storia dell'astronomia antica e moderna, e tre lavori più brevi in cui cercò di ritracciare il percorso di sviluppo dell'uomo nel quale egli sostenne la teoria di un'[[età dell'oro]] primitiva. I lavori accademici di Bailly gli permisero di ricevere numerosi onori pubblici, inclusa l'appartenenza all'[[Académie des sciences|Académie royale des sciences]], all'[[Académie française]] e all'[[Académie des inscriptions et belles-lettres|Académie des inscriptions]], così come accademie in [[Italia]], [[Olanda]], [[Germania]], e [[Svezia]]. Allo stesso tempo però, le sue "speculazioni selvagge" sull'antichità lo coinvolsero in una serie di dispute scientifiche e letterarie in cui frequentemente Bailly si ritrovava a difendere l'indifendibile visione di Court de Gébelin e per questo motivo fu tacciato di essere un ''frère illuminé'' da alcuni ''philosophes''; così ad esempio lo accusava il suo grande nemico all'accademia delle scienze [[Nicolas de Condorcet]]
L'investigazione sul [[magnetismo animale]], con cui si screditò [[Franz Anton Mesmer|Mesmer]], riportò Bailly di nuovo in contatto con la ricerca scientifica controllata, assieme a scienziati del calibro di [[Benjamin Franklin]], [[Antoine-Laurent de Lavoisier]] o [[Joseph-Ignace Guillotin]].
La partecipazione alla stesura dei rapporti sull'Hotel-Dieu consolidarono la reputazione di Bailly come un campione riformista, e quando la rivoluzione scoppiò, egli fu tra i primi a servire la causa pubblica.
Impregnato dalle nozioni dell'[[Illuminismo]], Bailly credeva che la Ragione potesse governare la rivoluzione, e fu sorpreso e mortificato nello scoprire sulla sua pelle che invece non era così. La sua ascesa dall'Assemblea elettorale di [[Parigi]] attraverso la presidenza prima del [[Terzo Stato]], poi dell'[[Assemblea nazionale]], per arrivare infine al [[municipio di Parigi]] terminarono improvvisamente quando, a [[Campo di Marte (Parigi)|Campo di Marte]], ordinò alle truppe di sparare sulla folla. Due anni più tardi, all'inizio del [[Regime del Terrore|Terrore]], Bailly pagò per i suoi «crimini» con la testa.
La storia di Bailly è la storia di un ''savant'' del [[XVIII secolo]], della sua erudizione, delle sue illusioni, del suo ottimismo e del suo fallimento; ed è la storia della realizzazione inconsapevole di una rivoluzione. Da uomo riflessivo, Bailly credeva nel concetto di progresso; la scienza lo ha portato ad accettare la sempre crescente egemonia dell'uomo sulla natura, e ad identificare questa egemonia con la felicità.
Era, però, troppo incline a ridurre le complessità della vita a semplici principi primi, sebbene accettasse l'impossibilità di dimostrare tutto come «verità matematica». Era infatti convinto che l'[[età dell'oro]] fosse esistita e sebbene sapesse che non poteva dimostrarlo rigorosamente, cercò in ogni modo di convincere e di convincersi della veridicità delle sue ipotesi. Era anche convinto, ugualmente, che essa sarebbe ritornata, e la rivoluzione fu per lui, come per molti altri contemporanei, il raggiungimento di questo sogno mistico/razionale, e fu la messa in atto, la creazione vera e proria, del ''grande ordre''. Anche Bailly, infatti, da uomo del suo tempo, visse in sé l'eclettismo riformistico del ''grand ordre'', e né subì la mistico-razionalistica contraddittorietà.
==Elogi==
Bailly godette di un moderato successo con i suoi ''éloges''. Dei quattro presentati nelle varie competizioni, uno solo vinse il ''prix d'eloquence'', mentre altri due hanno ricevuto una menzione d'onore. Anche se quelli di Carlo V, Molière e Lacaille non sembra fossero andati immediatamente in stampa, gli altri due, quello su Corneille e quello su Leibniz, furono invece pubblicati ognuno per due edizioni. Nel [[1770]] fu inoltre pubblicata a [[Berlino]] e a [[Parigi]] da Delalain un'ulteriore edizione che raccoglieva tutti e cinque gli éloges. Eppure, se Bailly era alla ricerca di fama e fortuna con questo tipo di scrittura, si deve comunque ammettere che non colse nel segno. Se il suo obiettivo era quello di ottenere la segreteria dell'[[Accademia francese delle scienze]], come gli era stato promesso da [[D'Alembert]] che poi però lo aveva tradito preferendogli [[Condorcet]], non ci riuscì. Alcuni aneddoti, riportati dal biografo di Bailly, [[Michel de Cubières]], sembrano infatti riflettere anche una certa disillusione da parte dell'insigne astronomo sia nei confronti degli ''éloges'' sia verso il mondo accademico più in generale.<ref name="recueil">[[Michel de Cubières]], ''Recueil des pièces intéressantes sur les arts, les sciences et la littérature, ouvrage posthume de Sylvain Bailly, précédé de la vie littéraire et politique de cet homme illustre'', 1810, XX-XXII.</ref> A quanto pare, infatti, Bailly arrivò a dire che «i premi accademici non provano nulla» e che la maggior parte degli ''éloges'' non erano altro che «''folies de jeuness''» ovvero "follie di gioventù".<ref name="recueil" />
===Bailly ''philosophe''===
===Elogio a Carlo V (dottrina politico-economica)===
da pag 453
Se Bailly ha intrapreso la carriera di biografa puramente per ambizione e con l'intento di diventare segretario dell'Accademia non è del tutto chiaro. Sappiamo che Bailly ebbe un flirt con le ''belles-lettres'' prima di scoprire la matematica; sappiamo anche che per tutta la vita continuò a scrivere poesie occasionali; abbiamo anche la testimonianza di [[Jerome Lalande|Lalande]] secondo cui «il suo guusto per la letteratura lo rilassava dal suo lavoro astronomico».<ref>Jerôme Lalande, ''Éloge à Bailly'', 323.</ref>
L' ''Éloge de Charles V'' di Bailly, che aveva come soggetto il re [[Regno di Francia|francese]] [[Carlo V di Francia|Carlo V]], è in realtà un catalogo di tutte le cose buone che un suddito obbediente dovrebbe dire di un monarca saggio e buono, e come tale meritò, se non il premio, almeno una menzione d'onore dell'[[Académie française]] nelle sessione pubblica del [[25 agosto]] [[1767]]. La pietà attribuita a [[Carlo V di Francia]] non era stata calcolata per antagonizzare i quattro dottori di teologia il cui compito era quello di censurare tali opere. [[François Arago]] constata, probabilmente in modo sbagliato che «nessun tratto rivela né fa prevedere nello scrittore il futuro presedente di un'assemblea nazionale riformatrice e soprattutto il futuro sindaco di Parigi al tempo di una effervescenza rivoluzionaria». Questa osservazione è senza dubbio ispirata da come Bailly tratta nell'opera la rivolta borghese guidata da Marcel, che viene bollato come «un sindaco insolente» mentre il suo assassino è definito «un cittadino fedele». Arago sembra dispiacersi del fatto che Bailly che non anticipa il proprio ruolo nella rivoluzione. In realtà il fatto in questione è che l'apprezzamento di Bailly verso Carlo non è particolarmente profondo e spesso è solo banali. Ed infatti, egli non si preoccupa principalmente del regno di Carlo in quanto tale.
Sotto la patina di storicità troviamo un trattato settecentesco sulla monarchia e sul governo, che può non essere originale, ma è sicuramente al passo del movimento filosofico. Bailly descrive in dettaglio la cattiva amministrazione e la corruzione del regno precedente, gli interessi della nobiltà e la devastazione economica operata dai sussidi. È più come riformatore che come re che Carlo V diventa degno di un elogio.
E soprattutto egli è l'incarnazione della legge e il simbolo della volontà popolare. «Un re... è la legge resa vivente». Bailly, nella sua ora più rivoluzionaria, non perse mai il suo rispetto per la legge, che egli considerava come un'estensione di principi naturali. Il sistema monarchico era, secondo Bailly, il compromesso che la saggezza umana aveva ideato tra gli eccessi dell'anarchia e quelli del dispotismo. Il monarca era il principale agente della legge. Se il re poteva comandare tutto, era perché avrebbe dovuto rappresentare la somma totale della volontà popolare.
Se tutti erano obbligati ad obbedire, era perché «loro se l'erano proposto». Questa cessione dei diritti della popolazione alla volontà di un singolo individuo era dunque un patto sacro che imponeva al monarca l'obbligo di essere giusto, buono e illuminato. Qui abbiamo una dottrina politica che riecheggia con forza quella di [[Montesquieu]] e [[Rousseau]].
Altrove Bailly spiega cosa intende per [[Illuminismo]]. Egli è particolarmente preoccupato per gli aspetti economici del regno di Carlo e analizza in dettaglio le sue politiche fiscali. Carlo è lodato per aver recuperato i doni eccessivi, dati in forma di terra e sussidi, con cui i suoi predecessori avevano acquistato l'appoggio della nobiltà. Allo stesso tempo Bailly fa risferimento alla raccolta equa ed efficiente delle tasse, che era stata a lungo una fonte di corruzione e di spoliazioni del tesoro nazionale.
Inoltre, praticò l'economia di stato in tempi prosperi e la spesa pubblica in tempi di sventura. Bailly è ansioso di vedere il governo che economizzi, senza però seccare le sorgenti di un re generoso: «la saggezza decide il momento in cui l'economia diventa una virtù».
Bailly si rende conto che una spesa pubblica intelligente può creare capitali di ricchezza e appianare i punti di massima causate da alternanza tra periodi di scarsità e abbondanza. «L'imposta non è mai pesante quando è destinata alle spese della nazione, rifluisce la nazione stessa e va ad alimentare la fonte da dove è venuta».
Per quanto riguarda il valore monetario, Bailly mostra degli istinti conservatori, difendendo le ampie fortune contro le incursioni dell'inflazione. Carlo, a differenza dei suoi predecessori, evitò l'imprudenza di emettere denaro a basso valore che Bailly definisce una «risorsa vergognosa e momentanea». L'[[inflazione]], calcolata per consentire allo Stato di far fronte ai propri impegni, serve solo per rovinare i creditori a beneficio dei debitori; i poveri diventano potenti, e il tesoro dei ricchi diventa il loro oro; il commercio entra in crisi, e la fede delle persone è scossa.
Bailly elogia Carlo per la sua soppressione del vizio nella capitale e per la sua condotta esemplare davanti al popolo (qui, anzi, ci può essere una previsione a quelle politiche che Bailly porterà avanti come sindaco); per il suo incoraggiamento dell'agricoltura, dell'industria e del commercio; per il suo interesse per l'educazione e l'apprendimento.
Bailly sottolinea che, nella reggenza che Carlo fornì per il suo successore, c'era un Consiglio di Stato in rappresentanza di tutti gli ordini, «dai grandi che circondano il trono, dai ministri custodi della volontà del principe, fino al semplice cittadino che non ha altro che il suo zelo e le sue luci».
Ma Carlo V era anche un re guerriero, e Bailly non era esattamente un militarista: «Il ferro è malauguratamente l'arbitro delle nazioni».
Così giustificò le guerre di Carlo come difensive, condannando al tempo stesso le guerre di aggressione e gli ingrandimenti territoriali.
Gran parte della retorica di Bailly è la convenzionale verbosità del [[XVIII secolo]], ed è difficile determinare in che misura è stato influenzato dagli scrittori contemporanei. Ma in questo caso sicuramente si può rilevare la fine mano di Voltaire nel modo in cui viene trattata la storia, come complesso delle attività umane, nella richiesta di una monarchia illuminata, nella forte vena umanitaria e, soprattutto, nella diatriba contro la guerra.
''L'Histoire de Charles XII'' si propone come modello per l'attacco di Bailly sul concetto del re-conquistatore.
I passaggi di economia sono forse riconducibili a due opere di filosofi che erano apparsi nel 1763: il libro dell'abate Nicolas Baudeau ''Idées d'un citoyen sur l'administration des finances du roi'' (Amsterdam, 1763) e il libro di Roussel de la Tour ''La Richesse de l'état''.
Questi due autori proponevano modi e mezzi di tagliare le spese ed aumentare le entrate e chiedevano specificatamente per l'abolizione dei ''fermiers généraux'', ''subsides'' (sussidi), ''taille'', ''capitation'', ''vingtièmes'', ''gabelles'', ''aides'', ''octrois'', ''trait-foraines'', ''droits d'entrée'', ''de sortie'', etc...
Bailly non era rivoluzionario nel 1767, né era un Necker nel regno del denaro e delle banche, ma l'insinuazione di tali idee in un Éloge per un re francese è la prova gevidente che lui era informato in materia economica che aveva delle idee relative ai mali fondamentali dell'ancien régime.
===Elogio a Leibniz===
Che Bailly fosse un amico dei ''philosophes'' lo ha dimostrato definitivamente l'anno successivo nel suo ''Éloge de Leibnitz'', che vinse il premio offerto dall'[[Accademia di Berlino]].
Un biografo di Bailly, il celebre matematico [[François Arago]] riporta che quest'opera è del [[1767]]. Questa è probabilmente la data in cui tale soggetto fu proposto. Berville è invece ovviamente in errore quando ascrive l'opera al [[1769]], che è invece la data della seconda edizione. Il premio dell'accademia fu concesso nel [[giugno]] [[1768]] e la prima edizione apparve quell'anno. Può anche darsi che la composizione risalga dunque al 1767, anche se tutt'ora non vi è evidenza assoluta.
Sebbene alcuni anni prima già [[Bernard le Bovier de Fontenelle|Fontenelle]] avesse scritto un elogio a Leibniz, Arago considera questo lavoro come un contributo originale alla filosofia leibniziana:
{{citazione|Si supponeva in generale che Leibniz fosse stato mirabilmente lodato da Fontenelle, e che l'argomento era stato esaurito. Ma dal momento in cui il saggio di Bailly, coronato in Prussia, è stato pubblicato, le vecchie impressioni sono molto cambiate. Ognuno era ansioso di affermare che l'elogio di Bailly poteva essere letto con piacere e beneficio anche dopo quello di Fontenelle. L'elogio composto dallo storico dell'astronomia non ci farà, certamente, dimenticare lo scritto del primo segretario dell'Accademia delle Scienze. Lo stile è, forse, troppo rigido; forse è anche piuttosto declamatorio; ma la biografia, e l'analisi delle sue opere, sono più complete, soprattutto se si considerano le note; Leibnitz, l'''universel'', viene esposto sotto i punti di vista più vari.|[[François Arago]] nella ''Biographie de Jean Sylvain Bailly''.|On croyait généralement que Leibniz avait été admirablement loué par Fontenelle, et que le sujet était épuisé. Dès que la pièce de Bailly, couronnée en Prusse, vit le jour, on revint complétement de ces premières impressions. Chacun s’empressa de reconnaître que les appréciations de Bailly pouvaient être lues avec profit et plaisir, même après celles de Fontenelle. L’Éloge composé par l’historien de l’Astronomie ne fera sans doute pas oublier celui du premier secrétaire de l’Académie des sciences. Le style en est peut-être trop tendu ; peut-être aussi a-t-il une légère teinte déclamatoire ; mais la biographie et l’analyse des travaux sont plus complètes, surtout en tenant compte des notes ; Leibnitz, l'''universel'', s’y trouve envisagé sous des points de vue plus variés.|lingua=fr}}
Ma l'elogio è più interessante in quello che ci dice di Bailly piuttosto che in ciò che aggiunge su [[Gottfried Wilhelm von Leibniz|Leibniz]]. Qui per la prima volta possono essere trovati i metodi di composizione che Bailly usò nelle sue opere maggiori; qui si trova la sua ''profession de foi'' come uomo dell'[[Illuminismo]]; qui si trova l'intero tessuto, sotto forme abbozzate, del lavoro della sua vita - il nucleo delle idee, le fonti da esplorare, il metodo comparativo, la fiducia nell'unicità della verità,
the nucleus of ideas, the sources to be explored, the comparative method, the belief in the oneness of truth, l'inclinazione umanitaria, e la certezza del progresso umano. «La filosofia — dice Bailly — è l'uso della ragione esteso a tutto ciò che ci circonda e riportato su noi stessi...»
Nel testo, Bailly traccia il logico sviluppo del [[Pensiero di Leibniz|pensiero di Leibniz]]: i suoi studi di [[giurisprudenza]], il suo successivo interesse per la storia, le istituzioni politiche, l'uomo come creatura sociale, l'uomo come parte della natura, la scienza come spiegazione della natura, e la sua finale spiegazione metafisica dell'uomo, della natura, e di Dio. Qui Bailly è libero di divagare, come fa spesso in passaggi lunghi ed eloquenti.
I dettagli biografici, le fonti edotte e gli argomenti astrusi sono relegati alle note che seguono il testo. Il risultato è un pezzo molto leggibile con prove a sostegno dove chi lo desidera le può trovare.<ref>Edwin Burrows Smith, ''Jean-Sylvain Bailly: Astronomer, Mystic, Revolutionary (1736-1789)'' - Literary beginnings; p. 441</ref>
Bailly, nelle note, riconosce il suo debito nei confronti di vari testi: l′''Histoire de la vie, et des Ouvrages de Mr. Leibnitz'' di [[Louis de Jaucourt]]; l′''Éloge de Leibnitz'' di [[Bernard le Bovier de Fontenelle|Fontenelle]]; alcuni articoli dell'[[Encyclopédie]]; l′''Histoire des mathématiques'' di [[Jean-Étienne Montucla]]; il ''Recueil de diverses pièces sur la philosophie, par [[Leibnitz]], [[Samuel Clarke|Clarke]] et [[Newton]]'' di Pierre Des Maizeaux; e, ovviamente, tutti gli scritti di [[Leibniz]] reperibili all'epoca.
È ovvio, comuqnue, che Bailly avesse una chiara comprensione dei lavori della maggior parte dei pensatori post-[[rinascimento|rinascimentali]], inclusi [[Cartesio]], [[Pierre Bayle]], [[John Locke]], [[Giovanni Cassini]], [[Christiaan Huygens]], [[Blaise Pascal]], [[Isaac Barrow]], Robert Boyle, i [[Bernoulli]], e gli altri.
Leibniz colpì Bailly come esempio potente della complusione dell'apprendimento, della necessità e della soddisfazione di collegare i fatti ai fatti. Emancipatosi dai suoi studi di legge, fu obbligato a rivolgersi alla spiegazione filosofica del diritto e delle sue radici storiche. Leibniz si rese conto che la legge era il risultato di una catena storica di eventi e che questi eventi formarono l'immagine degli usi e dei costumi dell'uomo.
Leibniz aveva osservato, prima di [[Montesquieu]], che la società era il risultato sia dell'ambiente sia del talento e delle qualità degli uomini che la costituivano. In questo caso Bailly fa riferimento al [[determinismo geografico]], da lui apprezzato e successivamente adoperato nelle successive opere: secondo tale teoria le strutture politiche e sociali di un popolo dipendono dall'ambiente in cui esso vive. Leibniz aveva infatti notato, «giustamente» secondo Bailly, la relazione tra libertà, schiavitù, tirannia e democrazia da un lato e clima, terreni, e condizioni fisiche associate dall'altro.
Bailly era impressionato dalla qualità universale dei precetti di Leibniz e dalla forza delle sue conclusioni, e aveva imparato da Leibniz a mettere insieme le prove più disparate e trovare un denominatore comune. Scrive Bailly: «Questi fatti dimostrano fin troppo bene che l'uomo modifica per cause fisiche e morali; e tendono tutte verso un centro, che è l'uomo di natura... quanti usi, così diversi tra loro oggi, denaturati dal da tempo, hanno in realtà la stessa origine!»
Nell'elogio, Bailly, per la prima volta, concepisce la civiltà come un grande fiume che scorre attraverso la storia, costantemente aggiunto ad essa, mai diminuito. E diventa sua propria ambizione prioritaria ritrovarne la fonte all'inizio dei tempi. Come Leibniz, Bailly guardava con stupore e meraviglia l'immenso quadro della conoscenza umana: paleontologia, geologia, botanica, anatomia, medicina, chimica e addirittura l'alchimia. Ma soprattutto Bailly era affascinato dal [[Filosofia del linguaggio|fenomeno del linguaggio]], che definisce «la chiave di tutte le scienze». Da Leibniz aveva imparato che il linguaggio degli antichi avrebbe rivelato «la loro origine e i loro legami fraterni» e che «la lingua universale» della scienza avrebbe reso di nuovo gli uomini tutti fratelli.
Gli studi in [[astronomia]] e [[matematica]] avevano insegnato a Bailly la meravigliosa semplicità delle leggi fisiche naturali. L'unicità della verità era diventata un culto. La riduzione di tutto lo scibile alla formula matematica, l' ''omnia ad unum'', il sogno di Leibinz, affascinava Bailly.
Se, ad esempio, i movimenti dei satelliti di [[Giove (astronomia)|Giove]], come quelli di tutte le stelle e i pianeti e dell'universo stesso possono essere espressi in una semplice equazione scritta dall'uomo, perché allora l'uomo stesso non può essere anch'egli spiegato in termini scientifici? Bailly vedeva ovunque nella filosofia di Leibniz indizi alla verità semplice, alla unica fonte, la formula. «Egli aveva riconosciuto che le verità di tutte le scienze derivano da alcune verità originarie, tradotte e presentate, come nella geometria, in mille forme differenti... Leibnitz estese alle altre scienze la certezza delle scienze esatte». In generale, Bailly aveva solo apprezzamenti per l'erudizione di Leibniz, per le sue scoperte matematiche e le sue teorie scientifiche.
L'unica eccezione è la spiegazione che Leibniz dà dell'origine della Terra. La prudente dichiarazione che Bailly fa, ovvero che «questo sistema di Leibniz è forse più audace che solido», è sostenuta da una citazione di due pagine dall' ''Histoire naturelle'' di [[Georges-Louis Leclerc de Buffon|Buffon]]. Leibniz aveva suggerito che la Terra fosse, in origine, una massa incandescente come tutti gli altri pianeti e che il suo nucleo, adesso raffreddatosi una volta terminato il materiale combustibile, fosse diventato di vetro. Questa ipotesi non era molto differente da quella che Buffon aveva avanzato e che Bailly accettava. Quello che Bailly obiettava era la convinzione di Leibniz che l'intera superficie della Terra fosse stata, in qualche momento del passato, completamente coperta dall'acqua. Per Leibniz infatti, una volta che la crosta della Terra si era raffreddata, le parti umide, che si erano trasformate in vapori, ripiombarono sotto forma di acqua sulla tutta la superficie, coprendola completamente.
Anche se Bailly ha alcune incomprensioni circa le idee metafisiche di Leibniz, le giudica benevolmente. Egli considera la speculazione su domande senza risposta come un'attività perfettamente valida e plaude al fatto che il concetto di verosimiglianza, la ''vraisemblance'', possa sostituire, in una riflessione metafisica, quello di verità inaccessibile. In questo elogio Bailly, infatti, si impegna in un tipo di pensiero che era chiamato, in modo un po' sprezzante da i suoi contemporanei, ''esprit de système''; e il suo criterio, il suo metro di giudizio, diventa proprio questo concetto indefinibile ed indispensabile di ''vraisemblance''. L'applicazione di questo criterio alla metafisica di Leibnitz, tuttavia, Bailly trova spazio per alcuni dubbi. Sul [[Monadologia|sistema delle monadi]]: «non giudicheremo il grado di verosimiglianza di queste idee: ma converremo che hanno sorpreso per la loro profondità e la loro sublimità».
Sull' ''harmonie préétablie'' invece si chiede: «forse questo sistema risolve un problema attraverso dei problemi insolubili?» facendo riferimento al fatto che con tale sistema Leibniz voleva risolvere le difficoltà nascenti dalla rigida separazione cartesiana della ''res cogitans'' (il soggetto pensante, ovvero l’anima) dalla ''res extensa'' (la materia, la realtà sensibile, e in particolare il corpo), che rende inintelligibili i rapporti tra le due e quindi il processo della conoscenza e dell’azione. Leibniz intende risolvere tali difficoltà concependo l’Universo come un sistema di monadi, ciascuna delle quali contiene in sé come rappresentazione, implicita o esplicita, la totalità delle altre (il cosiddetto ''"tutto in tutto"'')), e svolge tale rappresentazione in modo congruo allo svolgersi di quelle di tutte le altre monadi, pur senza influire direttamente su di esse e senza subirne l’influsso. Secondo Bailly, probabilmente Leibniz risolve il problema creandone però degli altri, insolubili, citando le obiezione già fatte sul tema da [[Pierre Bayle]] sulla paradossalità dell'influsso causale del tutto in tutto.
Bailly è invece più positivo quando si occupa del ''mal moral et physique'' e del concetto ottimistico del «migliore dei mondi possibili»:
{{citazione|Questo sistema dell'ottimismo consola, almeno per un momento, l'umanità spaventata dai disordini che la circondano; [è una] chimera brillante, il cui prestigio spazza via i mali, e li cede al dolore presente. Sublime filosofo, mentre ragioni, ascolta le grida che ti assediano; l'Asia schiavizzata si chiede se il genere umano è stato creato per [servire] cinque o sei tiranni; l'America, inondata del sangue dei suoi abitanti, [si chiede] se dei barbari avessero il diritto di ucciderli; e l'Europa, seduta su volumi di leggi, ti mostra che il crimine ha scosso la sua catena e prevale ancora nel migliore dei mondi. Sii giusto, e vedrai l'uomo che va incontro alla morte, consumato dal lavoro e dalla malattia, trainare la sua vita sospesa tra paura e dolore. [...] Cieco, che parli di ordine e felicità, l'umanità piange accanto a voi e si mostra infelice!|Bailly nell'''Èloge de Leibnitz''.|Ce système de l'optimisme console un moment l'humanité effrayée des désordres qui l'environnent; chimère brillante, dont le prestige efface les maux éloignés, et cède à la douleur présente. Philosophe sublime, pendant que tu raisonnes, écoute les cris qui t'assiègent; l'Asie esclave te demande si le genre humain fut formé pour cinq a six tyrans; l'Amerique, inondée du sang de ses habitants, si des barbares avaient le droit de les égorger; et l'Europe, assise sur des volumes des lois, te montre que le crime secoue sa chaîne et règne encore dans le meilleur des mondes. Sois juste, et tu verras l'homme marchant à la mort, consumé par le travail et la maladie, traîner sa vie entre la crainte et la douleur... Aveugle, que parles-tu d'ordre et de bonheur, l'humanité pleure à tes côtés & te montre des malheureux!|lingua=fr}}
Questa accusa all'ottimismo non è in verità molto simile a quella che [[Voltaire]] aveva fatto nel ''Candido'' dove, con acuta ironia, ribaltava le teorie ottimistiche di stampo metafisico sulla vita umana prendendo di mira soprattutto la [[monadologia]] di Leibniz, secondo cui la divina bontà sceglierebbe sempre la migliore combinazione possibile tra le infinite combinazioni delle monadi che costituiscono in mondo. Bailly invece considera la vita dopo la morte come un rifugio dall'oppressione terrena e dalla sofferenza. Inoltre, egli contesta l'ottimismo solo per il fatto che esso è ''invraisemblable'' («inverosimile»), ma non per il fatto che derivi dalla speculazione metafisica.
===Analisi dei primi due elogi===
L'analisi di questi primi due elogi, che sono, dopotutto, lavori minori, è pertinente alla questione dei rapporti di Bailly con i ''philosophes''. Egli è stato accusato di essere sempre titubante su qualsiasi questione che coinvolgesse l'autorità costituita, ad esempio, la chiesa o la monarchia. Arago dice: «Il patriottismo di Bailly avrebbe potuto, o per meglio dire, avrebbe dovuto essere più sensibile, più ardente, più orgoglioso... Bossuet, Massillon, Bourdaloue facevano risuonare dal pulpito parole molto più audaci».
Nourrisson, che non era amico né della Rivoluzione né di Bailly, dice: «Bailly a volte si pone come campione delle autorità e difensore della monarchia... a volte, al contrario, anzi, il più delle volte, è un discepolo di Rousseau che perora, parlando solo di patti, di repubblica, del popolo , della filosofia, della virtù» e continua: «amico degli enciclopedisti, abbondantemente imbevuto delle loro idee, anche protetto dai più famosi di loro,<ref>Questa constatazione è inaccurata. Bailly fu ignorato da Diderot, patrocinato da Voltaire e disprezzato da D'Alembert. Lacretelle rimarca con maggiore giustizia: «Estimé des philosophes, il etait plutôt leur discret ami que leur guide» (''Histoire de France pendant le 18<sup>e</sup> siecle''; 6 - p.39.)</ref> Bailly tuttavia accuratamente si astenne dal collaborare per l'[[Encyclopédie]]».`
La definizione che Bailly dà del ruolo del ''philosophe'' si trova nelle ultime pagine dell’''Éloge de Leibnitz'' fa, infatti, tende a giustificare le opinioni di Arago e infantile. Come la maggior parte degli scrittori del [[XVIII secolo]], egli attribuisce al ''philosophe'' una visione superiore del mondo basata sulla sua universalità di interessi:
{{citazione|Le conoscenze dei secoli portano ad alcune verità generali; è attraverso queste verità che il genio le cattura e le unisce. Colui che si limita ad un solo genere circoscrive lui stesso le sue idee; colui che li percorre tutti conosce semplicemente la natura.|Bailly nell′''Éloge de Leibnitz''.|Les connaissances des siècles tiennent à quelques vérités générales; c'est par ces vérités que le génie les saisit et les réunit. Celui qui se borne à un genre circonscrit lui-même ses idées; celui qui les a tous parcourus connait seul la nature.|lingua=fr}}
La sottile distinzione tra verità (''vérité'') e conoscenza (''connaissances'') è, verrebbe il sospetto, una differenza di grado piuttosto che di categoria. La conoscenza, per Bailly, sembra essere per il ''vulgaire'', mentre la verità è in qualche misura accessibile solo al ''philosophe'', che - con l'universalità dei suoi interessi e del suo pensiero - diventa l'interprete della natura e il quindi strumento massimo del progresso umano.
Ma se questa universalità del pensiero permette al ''philosophe'' di giudicare e di controllare la società, gli insegna anche ad avere una certa integrità morale, che agisce come forza frenante.
{{citazione|Egli [il ''philosophe''] da un lato rispetta [la religione] in quanto è opera di Dio; dall'altro la conserva perché è necessaria per l'uomo, del quale essa è opera. Da lì si discende ai sovrani del mondo, che la venerano quando sono giusti mentre vi obbediscono quando sono solo i suoi padroni.|Bailly nell′''Éloge de Leibnitz''.|Il respecte ici [la religion]; elle est l'ouvrage de Dieu: là, il la conserve; elle est necessaire à l'homme dont elle est l'ouvrage. De là descendant aux souverains du monde, il les révere quand ils font justes, il obéit quand ils ne sont que fes maitres.|lingua=fr}}
Se Bailly non sembra rivoluzionario nei toni, è perché lui non fu mai un vero rivoluzionario né nel [[1768]] né nel [[1789]], fu al più un riformatore mettendo in dubbio il sistema precostituito dell'[[assolutismo]] ma senza mai mettere in discussione l'istituzione monarchica.
Le sue nozioni di riforma sono comunque state moderate ed erano fondata perlopiù, ad esempio, sui precetti:
{{citazione|[Il ''philosophe''] guarda vizi e i pregiudizi come suoi unici nemici, e combatte gli uni con l'esempio della propria virtù mentre travolge gli altri con i suoi ''lumières''.|Bailly nell′''Éloge de Leibnitz''.|[Le philosophe] regarde les vices, les préjugés comnme ses seuls ennemis, et combat les uns par l'exemple de sa vertu tandis qu'il accable les autres de ses lumières.|lingua=fr}}
La moderazione, in un'epoca di riforma, può essere facilmente confusa con la timidezza. È stata una convinzione radicata quella che ha fatto sì che Bailly venisse associato, nel corso dei secoli, con i ''philosophes'' più ardenti e che, durante la Rivoluzione, lo espose ad accuse infondate di tradimento.
L′''Éloge de Leibnitz'' non è stato un successo assoluto per Bailly. Il testo dell'edizione di Berlino è preceduto da un ''Jugement de la Classe des Belles-lettres'' che aggiunge un parere dissenziente dal premio dell'Accademia. Lo stile e la copertura tematica di Bailly sono criticati, e il giudizio si conclude con questa osservazione paternalistica:
{{citazione|Del resto, siccome lo spirito dell'ipotesi non riguarda la profondità della filosofia di un grande uomo, abbiamo ritenuto giusto perdonare l'autore per non aver capito bene a volte alcuni sistemi di Leibnitz.|''Jugement de la Classe des Belles-lettres''.|Au reste, comme l'esprit d'hypothèse ne fait point le fond de la philosophie d'un grand homme, on a cru pouvoir pardonner à l'auteur de n'avoir pas quelquefois paru bien saisir certains systemes de Leibnitz.|lingua=fr}}
===L'elogio a Corneille===
Nel [[1768]] Bailly dedicò un elogio al grande [[drammaturgo]] [[Pierre Corneille]] che, ottenne l’''accessit'' al ''prix d'eloquence'' dell'Accademia di Rouen.
Questo lavoro è diviso in due parti: la prima esamina le singole opere di Corneille e il suo contributo al teatro; la seconda si occupa di determinare l'influenza di Corneille sui suoi contemporanei e l'andamento della [[drammaturgia]] nei suoi successori.
Il giudizio di Bailly è interessante e generalmente d'accordo con quello della critica moderna, se si eccettua la sua ammirazione per ''La morte di Pompeo''.
Bailly attribuisce il successo di Corneille alla sua abilità nel creare ''vraisemblance'', nel far derivare l'azione dalle emozioni dei suoi personaggi e di far identificare con essi lo spettatore. Bailly scrive che Corneille è stato: «il primo [...] ad aver mostrato la passione contro la passione, ad aver impiegato l'arte sconosciuta di rendere una situazione terribile sacrificando gradualmente le sue vittime per gradi e penetrando a colpi doppi l'anima di chi guarda».
''[[Medea (Corneille)|Medea]]'', per Bailly, sarebbe stato più convincente «se le risorse fossero state applicate più sul suo coraggio che non in un'arte il cui prestigio è venuto meno: il meraviglioso in effetti non era ancora stato bandito dalle scene; aspettava solo Corneille per scomparire».
Questo cambiamento avviene ne ''[[Il Cid (Corneille)|Il Cid]]'', dove Rodrigo è per Bailly «l'uomo animato dalle sue inclinazioni». E nell'opera «i crimini non vengono accumulati; tutto si incatena come nel corso della vita; l'imprudenza di un solo uomo crea di tutto».
Bailly interprets ''Il Cid'' come un conflitto tra amore e dovere, ovvero tra l'inclinazione naturale all'amore e la fedeltà ad un codice d'onore ormai logoro.
{{citazione|Così lo spettatore partecipe sperimenta questo doloroso strappo di un'anima che si sacrifica. Egli poi rientra in sé; e si rappresenta [nella mente] con timore i pregiudizi di un onore falso e crudele, catene assurde che così tanti popoli hanno imposto; egli rabbrivisce al pensiero che queste catene siano rispettabili e che l'uomo di coraggio, che le detesta, non osi impegnarsi a romperle...|Bailly nell′''Éloge de Corneille''.|Ainsi le spectateur partagé èprouve ce déchirement douloureux d'une âme qui se sacrifie. Il revient sur lui-même; il se peint avec effroi les préjugés d'un honneur faux et cruel, ces chaînes absurdes que tant de peuples se sont imposées; il frémit en songeant que ces chaînes sont respectables, et que l'homme de courage, qui les déteste, n'ose entreprendre de les briser...|lingua=fr}}
Bailly elogia anche l′''[[Orazio (Corneille)|Orazio]]'' scrivendo: «questa tragedia sarebbe un capolavoro dello spirito umano se finisse al quarto atto», facendo riferimento al fatto che il finale, nel quinto atto, è positivo il che non rende l'opera una vera tragedia. Bailly elogia anche ''[[Cinna (Corneille)|Cinna]]'', ''[[Poliuto (Corneille)|Poliuto]]'', e ''[[Rodoguna]]''.
Invece è meno entusiasta dell’''Eraclio'', del ''Don Sancio d'Aragona'', di ''Nicomede'', di cui da solo brevissimi accenni, e del ''Sertorio''. Di quest'ultima opera addirittura Bailly non ha nulla da dire, e, molto sorprendentemente in un ''éloge'', scrive anche del declino di [[Pierre Corneille]]. «Corneille — scrive Bailly — lascia un esempio importante. Quale uomo può vantare di non sopravvivere al suo talento? Le idee di Corneille si sono esaurite, la sua grande anima ha perso la sua forza. Il genio può dunque invecchiare!».<ref>''Ibid.'' 1: 50. Questo passaggio è peculiare nell'edizione del [[1790]]. La prima edizione invece esprime lo stesso messaggio ma con molte più parole.</ref>
Ma la più alta lode di Bailly a Corneille è che secondo lui questi fu un innovatore. «Che distanza infinità c'è tra i pezzi di [[Alexandre Hardy|Hardy]] e la ''Melita'' di Corneille, e poi dalla ''Melita'' a ''Il Cid'', et da ''Il Cid'' a ''Cinna''». E ancora prosegue: «L'elevazione comica è nata con ''Il bugiardo''... l'opera stessa è dovuta al genio di Corneille».
La [[scenotecnica]] di Corneille è lodata per la continuità d'azione, per il fatto che i personaggi siano presenti solo quando questi sono necessari per contribuire all'azione, e, di conseguenza, è lodato anche l'interesse costante verso gli stessi personaggi.
Soprattutto, le sceneggiature sono animate da un tipo di dialogo, la cui paternità è rivendicata a Corneille da Bailly, un dialogo breve, compresso, in cui le idee, spesso contenute in un [[emistichio]], vengono fuori come tanti colpi in rapida successione.
L′''éloge'' termina con un esame generale del teatro classico, al quale, secondo Bailly, Corneille ha lasciato un'impronta maggiore rispetto al suo grande avversario, il drammaturgo [[Jean Racine]].
{{citazione|Corneille si era proposto di eccitare l'ammirazione; Racine incominciò a imitarlo; ma disperando di raggiungerlo, ha fatto uso della sensibilità. L'arte di Racine è quella di penetrare il cuore, per svilupparne le pieghe, ei le sue immagini sono impreziosite dalla purezza del linguaggio e dai tesori della poesia. Questi due uomini rari, così spesso paragonati l'uno all'altro, non avevano motivo di esserlo. Racine, dotato di un genio meno vasto, dipinse con gli stessi tratti [i suoi personaggi come] Ermione, Roxane, Bajazet, Sifare, Britannico e Ippolito. Gli eroi di Corneille, invece, si assomigliano solo per la grandezza d'animo che hanno. Racine ha seguito e ha sempre impreziosito la natura, ma la [sua era una] natura agitata dalle passioni che la indeboliscono; Corneille invece volle ispirarlo con coloro che invece l'avrebbero ingrandita.|Bailly nell′''Éloge de Corneille''.|Corneille s'était proposé d'exciter l'admiration; Racine commença par l'imiter; mais desesperant de l'atteindre, il fit usage de la sensibilité. L'art de Racine est de pénétrer jusqu'au fond du cœur, d'en développer les replis, et ses peintures sont embellies de la pureté du langage et des trésors de la poesie. Ces deux hommes rares, si souvent comparés, n'étaient pas faits pour l'être. Racine, doué d'un génie moins vaste, peignit des mêmes traits Hermione et Roxane, Bajazet, Xipharès, Hippolyte et Britannicus. Les héros de Corneille ne se ressemblent que par le caractère de grandeur qu'ils tiennent de lui. Racine suivit et embellit toujours la nature, mais la nature agitée par les passions qui l'affaiblissent; Corneille voulut lui inspirer celles qui devaient l'agrandir.|lingua=fr}}
Bailly accetta il punto di vista del suo tempo: vede in Corneille uno scopo didattico dominante. Infatti scrive: «Lo scopo di Corneille era quello di formare gli uomini; ed è per questo motivo che a lui è dovuto l'omaggio anche della filosofia». E anche: «Oseremmo dire che egli ha visto il teatro come una scuola pubblica».
Se per Bailly il pregiudizio popolare resiste sempre alla "ragione" del filosofo, questo non vale per il poeta, che non parla mai a suo nome, ed anzi identifica il suo ascoltatore con il personaggio sul palco. Il pubblico, così, che condanna i vizi e applaude la virtù rappresentata nell'opera, non fa altro che esercitare la propria "ragione". «Così come il poeta illuminato appare solo nel dipingere la natura, sia gli uomini che hanno bisogno di essere sedotto per essere illuminati, allo stesso mod gli uomini hanno bisogno di essere sedotti per essere illuminati».
È interessante, in vista dei suoi rapporti successivi con [[Voltaire]], che Bailly guardi al teatro dello stesso Voltaire come il culmine dell'arte classica, con la sua combinazione di ''effet théâtral'' e ''philosophie''. Un biografo di Bailly, [[Charles de Lacretelle]], suggerisce, con una metafora, che la lode di Bailly a Voltaire nell'elogio di Corneille sia stata però un po' simile ad una finzione, infatti «per affrontare un commercio epistolare con lui, ha fatto provviste d'incenso». In altre parole, in vista della loro successiva corrispondenza nelle ''Lettres sur l'origine des sciences, et sur celle des Peuples de l'Asie'', Bailly forse per guadagnarsi la stima e la fiducia del celebre filosofo di [[Ferney-Voltaire|Ferney]], ebbe comunque bisogno d'incensarlo. Comunque, considerando il fatto che ci furono ben dieci anni di distanza tra questo elogio e le ''Lettres'' e considerando anche che molto probabilmente Bailly non aveva ancora conosciuto Voltaire, è più probabile pensare che le osservazioni celebrative che egli fa su di lui in quest'opera siano più che altro gratuite.
La critica letteraria di Bailly è certamente meno profonda di quanto lo fosse il suo giudizio scientifico, ma, secondo il suo biografo Edwin Burrows Smith, «non si può non rimanere impressionati dalla latitudine dei suoi interessi». E l′''Éloge de Corneille'' rivela un'immaginazione e un affinamento di gusto che sono «piacevoli aggiunte alla sua mente scientifica».
===Elogio a Molière===
Incoraggiato senza dubbio dal successo dell'elogio a Leibniz all'[[Accademia di Berlino]] e dall'elogio di Corneille all'Accademia di Rouen, Bailly ritornò nel 1769 al tribunale accademico dell'[[Académie française]] con il suo ''Éloge de Molière'', che vinse l′''accessit'' al ''prix d'eloquence''. Il vincitore del concorso fu però lo scrittore [[Sébastien-Roch Nicolas de Chamfort|Chamfort]].
Questo lavoro, anche se stilisticamente di qualità inferiore rispetto all'elogio su Corneille, offre una discussione ancora più ampia delle finalità e dei metodi del teatro e sui loro collegamenti con la filosofia.
È, infatti, anche come filosofo e come discepolo di [[Pierre Gassendi|Gassendi]] che Molière viene valutato.<ref>[http://www.inrp.fr/edition-electronique/lodel/dictionnaire-ferdinand-buisson/document.php?id=2784 "Gassendi"] on inrp.fr</ref> Bailly scrive: «Molière non fu meno filosofo che poeta. In tutti i secoli, i grandi poeti e i grandi filosofi sono stati rari; ma, ciò che è ancora più raro, ciò che rende Molière inimitabile, è che lui è sia l'uno che l'altro».
Il maggiore contributo di Molière al teatro fu, secondo Bailly, la applicazione delle tecniche del [[drammaturgo]] [[Pierre Corneille]] nella commedia, cioè, egli fu il primo autore di commedie a rendere i personaggi più che la trama la principale fonte d'interesse, realizzando nelle commedie quella che era stata la principale innovazione di Corneille nelle tragedie. Inoltre era stato sempre Molière ad aver compreso, per primo, l'importanza dell' "incidente" nella commedia.
Bailly distingue tra le opere in cui il protagonista principale determina l'azione — e cita ad esempio il ''[[Il Tartuffo]]'' e ''[[L'avaro]]'' in questa categoria — e le altre opere in cui è l'azione che, partendo da figure e personaggi secondari, sviluppa e plasma il personaggio principale, come ''[[Il misantropo]]''.
Sentendo la necessità di un unico perno su cui girasse la [[pièce]], Molière si è limitato inizialmente alla singola trama; nelle sue opere successive, tuttavia, è riuscito a costruire anche altre sotto-trame altrettanto dipendenti dalla figura centrale.
In pratica Molière aveva rotto, nella commedia, una delle tre [[unità aristoteliche]]: l'unità d'azione. Bailly non riesce a sfruttare bene il concetto di "philosophe" mentre tratta la [[scenotecnica]] di Molière, anche se suggerisce una linea di pensiero quando osserva
che: «Tutto è narrato, e tutto sembra in azione». È stato il potere analitico di Molière, la sua abilità a «penetrare l'uomo attraverso l'uomo» che attirava Bailly, e lui attribuiva questa tendenza analitica all'influenza di Gassendi. «Se Gassendi non avesse insegnato a Molière, forse le lezioni da filosofo sarebbero mancate a questo poeta».
Curiosamente l'ammirazione verso Molière da parte di Bailly persiste a dispetto di quelli che lui considerava fossero attacchi ripetuti alla scienza. «Ha scritto ''[[Le intellettuali|Le donne intellettuali]]'', il cui titolo sembra portare alle donne secondo cui la scienza è ridicola; ma vediamo dall'opera che l'autore voleva portare a questa stessa scienza [ridicola].»
Ed inoltre, per Bailly, Molière «ha tentato di rovesciare il trono della medicina, di questa scienza che si basa su una costante osservazione e il cui destino è quello di avere comunque una marcia incerta». Ma Bailly non va fuori di testa nella sua valutazione come invece aveva fatto [[Rousseau]] nella sua critica a Molière (nella ''Lettre à d'Alembert sur les spectacles'' del [[1758]]).
Molière viene scusato da Bailly con un ammonimento sui pericoli dell'«antidoto che è spesso di per sé un veleno».
Bailly ci tiene inoltre a dimostratre il valore morale del teatro. «Corneille, illustrando il suo teatro, illumina la nazione che applaude le sue commedie, i teologi che le condannano, e [[Louis Bourdaloue|Bourdaloue]] che sale su un pulpito per dedicare un anatema [proprio contro queste commedie]». Similarmente, Molière mira a «formare dei cittadini e degli uomini».
{{citazione|Poiché la maggior parte delle opere di Molière non ha un fine morale, non ho potuto considerarlo un filosofo... Ma, dicono i critici del teatro, l'effetto morale non si verifica perché il pubblico, ridendo a spese dei creduloni, si allinea al partito dei furfanti. Che cosa possiamo concludere da questa obiezione ripetuta così spesso? Il teatro ha questo in comune con il palcoscenico del mondo, con la storia da cui dovremmo trarre le lezioni... Il teatro è utile come la storia per coloro che possono istruire con l'esempio e illuminare sé stessi nel giudicare gli altri.|Bailly nell′''Éloge de Molière''.|Si la plupart des piecès de Molière n'avaient pas un but moral, je n'aurais pu l'envisager comme philosophe... Mais, diront les censeurs du théâtre, l'effet moral n'a pas lieu, parce que les spectateurs, en riant aux dépens des dupes, se rangent du parti des fripons. Que conclura-t-on de cette objection si souvent répétée? Le théâtre a cela de commun avec la scène du monde, avec l'histoire où l'on convient de puiser des leçons... Le théâtre est utile comme l'histoire pour qui sait s'intruire par l'exemple et s'éclairer soi-même en jugeant les autres.|lingua=fr}}
Questa parte dell'elogio è rivolta specificamente, se tardivamente alla ''Lettre sur les spectacles'' scritta da Rousseau. Rousseau aveva obiettato che la lezione morale, se anche ci fosse, ne ''Il misantropo'', era oscurata o annullata dalla manipolazione del personaggio principale. Bailly cerca inoltre di convincere il lettore che Molière «rende il personaggio comico senza farlo sembrare ridicolo».
È interessante notare come Bailly tracci anche un'analogia tra l'arte e la storia come fonti di istruzione morale, ma che, in ultima analisi, deve essere il giudizio dello spettatore ad interpretare la lezione.
Allo stesso modo, risponde alla critica del [[vescovo]] moralista [[Jacques Bénigne Bossuet|Bossuet]] a Molière, secondo il quale questi aveva «diffuso i benefici di una tolleranza infame dei mariti» e aveva sollecitato «le donne ad una vendetta vergognosa». Bailly risponde, con spirito molto moderno: «Lo scopo di Molière può essere ignorato? Egli mostra ne ''[[La scuola dei mariti]]'', ne ''[[La scuola delle mogli]]'', i pericoli ai quali l'innocenza è esposta in uno stato di schiavitù e di ignoranza; egli insegna che non si può essere virtuosi senza essere liberi e senza essere illuminati».
E contro il pregiudizio esistente verso gli attori e la recitazione, un pregiudizio intimamente legato alla moralità del teatro, Bailly si mostra tanto difensore degli attori quanto del drammaturgo. «Fino a quando i pregiudizi continueranno a stare alla porta del santuario del gusto, che il governo mette in ombra, e dove la più bella delle arti può ispirare virtù?»
Gli attori, come classe, dice Bailly, sono tra gli artisti più talentuosi e sensibili e, come tali, meritano l'incoraggiamento e la stima dei loro simili.
{{citazione|Per quanto riguarda noi, non dobbiamo degradare uno stato [la Francia] che Molière ha onorato con il suo genio. Non abbiamo nulla da raccomandare ai ministri della religione; ma siamo in grado di modificare quei vani pregiudizi che vogliono far appassire una professione utile [come quella dell'attore]. Dobbiamo avere il coraggio di essere onesti, cessando di essere incoerenti; non dobbiamo né esporre delle anime nobili al rimprovero, né chiedere a delle anime degradate lezioni di coraggio e onore; e soprattutto non dobbiamo neanche lontanamente credere di poter infamare i loro costumi; perché se sono sbagliati, siamo noi che glieli abbiamo dati, in quanto la degradazione porta alla depravazione.|Bailly nell′''Éloge de Molière''.|Pour nous, ne dégradons point un état que Molière a honoré de son genie. Nous n'avons rien à recommander aux ministres de la religion; mais nous pouvons revenir sur les vains préjugés qui flétrissent une profession utile. Osons être justes, en cessant d'être inconsequents; n'exposons point des âmes nobles à l'opprobre, ou ne demandons point à des âmes avilies les leçons du courage et de l'honneur; surtout ne croyons point avoir le droit de blâmer leurs mœurs; si elles sont mauvaises, c'est nous qui les leur avons données, car l'avilissement mène à la dépravation.|lingua=fr}}
In tutto questa difesa del teatro, si può rilevare, insieme alla verbosità filosofica dell'epoca, il poeta e drammaturgo che a volte stava in Bailly, autore del ''Clotaire'', del′''Iphigénie en Taurid'' e de ''Le Soupçonneux'', amico di [[Jean-Baptiste Sauvé de La Noue|La Noue]] e frequentatore del teatro. Il suo amico e biografo, Mérard de Saint-Just, rivela che «Bailly amava gli spettacoli e i balli dell'opera» e che «abbiamo spesso passato insieme le notti di Carnevale».<ref> Mérard de Saint-Just, ''Éloge de Bailly'' p. 174.</ref>
Nel [[1790]], in qualità di [[sindaco di Parigi]], Bailly prese una decisione personale negli affari del teatro, quando saggiamente difese l'attore[[François-Joseph Talma]] dopo una rappresentazione del ''Charles IX'' di [[Marie-Joseph Chénier|Chénier]].<ref>Goncourt, ''La Société française pendant la révolution'', pp. 99-100.</ref> C'era stata una lite durante la messa in scena e Bailly fu chiamato fu chiamato a teatro per calmare la folla e risolvere la controversia,<ref>Lacroix, ''Actes'', ser. 1, VII, 223-25.</ref> scegliendo di permettere la prosecuzione dello spettacolo ma lasciando una guarnigione per difendere il teatro e proteggere Talma.<ref>Jonathan Israel, ''Revolutionary Ideas: An Intellectual History of the French Revolution from The Rights of Man to Robespierre'', V, p. 134.</ref> Bailly inoltre servì da solo come giudice d'appello per attori e drammaturghi i cui spettacoli erano stati censurati.<ref>''Ibid.'', pp. 163-164.</ref>
Se le sue opere teatrali sono scomparse (e forse avrebbero potuto mostrare in lui un «Molière mancato»), questo ''éloge'' almeno rivela un altro aspetto importante dei suoi interessi.
===L'elogio a Lacaille===
L′''Éloge de l'abbé de Lacaille'' fu scritto certamente dopo il [[1763]], perché Bailly fa riferimento al precedente elogio, sempre dedicato a Lacaille, dall'astronomo e segretario perpetuo dell'[[Accademia francese delle scienze|Académie des sciences]] Jean-Paul Grandjean de Fouchy che fu letto quell'anno di fronte all'accademia. Il testo di Bailly fu comunque pubblicato per la prima volta nel [[1770]].
Tra gli ''éloges'' dello stesso periodo (tra cui quello dedicato a [[Leibniz]], quello a [[Carlo V]] e quello a [[Molière]]) fu certamente il testo più ben scritto, anche perché era il più profondamente sentito. Questo testo vuole infatti essere l'omaggio di Bailly al proprio maestro, colui che per primo lo aveva indirizzato alla disciplina astronomica.
Questo è l'omaggio dell'apprendista al maestro, dello studente all'insegnante: «è alla bontà del signor de Lacaille che devo le mie prime conoscenze sull'astronomia; quindi mi sono permesso di lodare il mio maestro».
[[Nicolas-Louis de Lacaille]] ([[1713]]-[[1762]]) fu un [[astronomo]] [[Regno di Francia|francese]] membro dell'[[Académie des sciences]] (a partire dal [[1741]]). Era stato lui, ad esempio, ad essere incaricato della verifica della determinazione del meridiano di Parigi. Lacaille fu mandato dal governo francese al [[Capo di Buona Speranza]], all'[[Ile de France]] e all'isola di [[Riunione (isola)|Riunone]] per l'osservazione delle stelle nell'emisfero meridionale.
Bailly, dopo aver tracciato in dettaglio numerose attività di Lacaille, passa in rassegna alcune delle sue più sorprendenti deduzioni, (che sono ancora oggi oggetto di vivo interesse per l'astronomia moderna), ovvero:<ref>Bailly, ''Discours et mémoires'', I, p. 146.</ref>
*lo schiacciamento della terra: le sue misure del grado al 33° Sud completarono il lavoro di [[Maupertuis]] in [[Lapponia]] e di [[Charles Marie de La Condamine|La Condamine]] all'equatore;
*la variazione latitudinale della rifrazione atmosferica: Bailly scrive che «Lacaille trovò che le rifrazioni fossero più piccole di un quarantesimo al [[Capo di Buona Speranza]] rispetto che a Parigi»;
*il movimento delle [[stelle fisse]]: Lacaille comparò le osservazioni di [[Philippe de La Hire|La Hire]] del [[1680]] con le sue del [[1750]] e dedusse un moto generale dovuto allo stesso fenomeno che era già stato osservato per [[Sirio]], [[Aldebaran]], e [[Arturo (astronomia)|Arturo]].
Bailly dipinge un ritratto intimo di un «gentile, saggio, e diligente» astronomo che aveva ispirato in lui rispetto e affetto.
Quest'opera non è un lavoro accademico, perché – diversamente dagli altri ''éloges'' che Bailly scrisse nello stesso periodo – non fu presentato in nessuna competizione per un ''prix d'eloquence'', ma è, secondo lo storico Edwin Burrows Smith, «un atto quasi di pietà filiale». Ed è per questo motivo che l'apprezzamento che Bailly dimostra nei confronti di Lacaille e che emerge nel testo, colpisce il lettore come il più accurato e il più sincero tra i suoi primi scritti.
Sebbene nei precedenti ''éloges'' avesse scritto, intelligentemente, di economia, storia, politica, metafisica e critica teatrale, qui si permette di scrivere con «zelo e animazione» del soggetto che era più vicino a lui: l'[[astronomia]]. È chiaro infatti dall′''Eloge de Lacaille'' che Bailly non aveva, in quel momento, nessun idea di abbandonare gli studi astronomici diretti.
L'astronomo è, per Bailly, un interprete della natura, una sorta di «gran sacerdote delle forze cosmiche». Il suo "noviziato" è lungo e impegnativo; le sue "meditazioni" richiedono solitudine e una severa disciplina; ma la soddisfazione di aver contribuito all'incremento della conoscenza ripaga oltre il dovuto i sacrifici coinvolti.
{{citazione|L'astronomo che ha solo l'arte di osservare, accumulando osservazioni, assomiglierebbe abbastanza ad uno straniero che tenta di compilare un elenco di parole in una lingua che non conosce. C'è bisogno che un astronomo sappia tutte le cause effettive o ottiche che complicano il movimento delle stelle, che abbia approfondito le teorie di famosi matematici odierni, che sia in grado di confrontarle con i fenomeni, di prevedere i casi che sono più appropriati per questo confronto, ed infine che possa basare le sue osservazioni su un piano razionale, un sistema di monitoraggio che la teoria prevede. È allora che l'astronomo è degno di pronunciarsi tra la natura, che sembra negare l'avanzamento nella nostra ricerca, e il geometra che invece si sforza di indovinare. Tale era l'abate de Lacaille, e non abbiamo paura di suggerirlo come modello ...|Bailly nell′''Éloge de l'abbé de Lacaille'.|L'astronome qui n'aurait que l'art d'observer, en amassant des observations, ressemblerait assez à un étranger qui dresserait une liste de mots dans une langue qu'il n'entendrait pas. Il faut qu'un astronome possède toutes les causes réelles ou optiques qui compliquent le mouvement des astres, qu'il ait approfondi les théories des géomètres célèbres de nos jours, qu'il soit en état de les comparer avec les phénomènes, de prévoir les cas qui sont les plus propres à cette comparaison, enfin qu'il puisse régler ses observations sur un plan raisonné, un système suivi que la théorie lui fournit. C'est alors que l'astronome est digne de prononcer entre la nature qui semble refuser sa marche à nos recherches et le géomètre qui s'efforce de la deviner. Voilà ce qu'était M. l'abbé de Lacaille, et nous ne craignons point de le proposer pour modèle...|lingua=fr}}
Possiamo vedere in questo passaggio i precetti che l'insegnante Lacaille aveva stabilito per il suo pupillo. Si potrebbe dire che finché Bailly fu attivo in campo astronomico, Lacaille rimase il suo modello. Inoltre Bailly non si permette di fare, umilmente, alcun riferimento al ruolo che ha giocato nella riduzione delle osservazioni di Lacaille all'interno delle ''Ephérmérides'' pubblicate postume.
=Concezione storica di Bailly=
[[File:Jean Sylvain Bailly, maire de Paris.jpg|thumb|240px|''[[Jean Sylvain Bailly]]'' ritratto da [[Jean-Laurent Mosnier]] ([[1789]]).]]
[[File:Signature Bailly 1790.svg|thumb|210px|Firma di Jean Sylvain Bailly.]]
[[Jean Sylvain Bailly]] elaborò un'interpretazione originale delle origini preistoriche della civiltà; questa interpretazione ha anticipato, per certi versi, alcuni dei dettagli del "mito Ariano". Bailly ha sostenuto la tesi secondo cui Atlantide fosse la civiltà originaria del genere umano, che aveva inventato le arti e le scienza e che aveva "civilizzato" i Cinesi, gli Indiani e gli Egizi. Egli posizionò questo popolo primordiale nel lontano nord dell'[[Eurasia]], prima nel [[Caucaso]] e poi a [[Spitzbergen]], e argomentò che quando il raffreddamento della Terra poi aveva seppellito il loro ancestrale territorio sotto delle lastre di ghiaccio, gli Atlantidei si persero per sempre nella storia.
Bailly si è mosso ecletticamente tra scienza, mitologia classica, linguistica, e orientalismo per dimostrare la sua ipotesi e ha affermato che i [[brahmani]] che formarono la civiltà indiana non erano altro che Atlantidei di [[lingua sanscrita]].<ref name="harvey1" />
Le sue teorie riflettevano molte delle idee prevalenti della sua epoca, come ad esempio il [[determinismo geografico]] di [[Montesquieu]] e [[Georges-Louis Leclerc de Buffon|Buffon]] e la superiorità del dinamico [[Occidente]] sul decadente [[Oriente]]. Sebbene Bailly non abbia mai fatto degli Atlantidei una razza, ne tantomeno una "razza superiore", le sue opere hanno posto le basi per il successivo emergere del mito ariano.<ref name="harvey1" />
==Background culturale==
Il [[XVIII secolo]] ha portato un cambiamento drastico nella coscienza storica europea. I pensatori illuministi, come afferma lo storico David Harvey, abbandonarono il «quadro biblico di una storia universale» che impostava la discendenza del genere umano da [[Adamo]] ed [[Eva]] attraverso i tre figli di [[Noè]], preferendo «la narrativa secolare della nascita e del crollo delle civiltà», integrandoli in un impianto storico più ampio del progresso umano.<ref name="harvey1">David Allen Harvey, ''The lost Caucasian civilization: Jean-Sylvain Bailly and the roots of the Arian myth'', p. 1.</ref> Nonostante ciò, comunque, alcune asserzioni bibliche, come ad esempio la diffusione della civiltà da un unico punto di origine, sopravvissero a questo processo di distanziamento dalle tesi bibliche, aderendo esplicitamente alle nuove teorie. Lo storico Colin Kidd infatti rimarca che «lo spettro della [[Genesi]] ossessionava la nascita dell'[[etnologia]]».<ref>Colin Kidd, ''The Forging of Races: Race and Scripture in the Protestant Atlantic World'' (Cambridge e New York, 2006), 27.</ref>
(2) Sin dal [[Rinascimento]] e fino all'[[Illuminismo]], generazioni di studiosi, scienziati, e storici avevano affrontato questioni di "cronologia storica", tentando di riconciliare la linea temporale dell'antichità classica con quella della storia sacra biblica. Lo storico [[Anthony Grafton]] osserva che, quando gli [[Umanesimo|umanisti]] riscoprirono la storia degli [[antico Egitto|antichi egizi]], dei [[fenici]], e dei [[Mesopotamia|popoli mesopotamici]] attraverso fonti greche, «la ben definita e relativamente breve cronologia della Bibbia incominciò a sfilacciarsi»<ref name="Grafton">Anthony Grafton, "Kircher’s Chronology" in Paula Findlen, ed., ''Athanasius Kircher: The Last Man Who Knew Everything'' (New York, 2004), 171–87, 172.</ref> perché le evidenze suggerivano «che il mondo fosse molto più vecchio di quanto la testimonianza biblica supponeva».<ref name="Grafton" /> Intanto, le nuove rivelazioni dei [[gesuiti]] alla corte dell'Imperatore cinese a [[Pechino]] minarono ulteriormente l'infallibilità della cronologia biblica perché, ad esempio, la storia cinese precorreva, e di molto, la data del [[diluvio universale]].<ref>Matthew Brockey, ''Journey to the East: The Jesuit Mission to China'', 1579–1724 (Cambridge, MA, 2007)</ref><ref>Colin Mackerras, ''Western Images of China'' (Oxford, 1999)</ref><ref>Virgile Pinot, ''La Chine et la formation de l’esprit philosophique en France'', 1640–1740</ref>
La storica Suzanne Marchand ha scritto che «le battaglie cronologiche così divennero molto appassionato e consequenziali perché [...] si era ipotizzato che "la priorità nel tempo implicasse la superiorità nella dottrina".<ref>Suzanne Marchand, ''German Orientalism in the Age of Empire: Religion, Race, and Scholarship'' (Cambridge and New York, 2009), 12.</ref> Allo stesso modo, [[Paolo Rossi Monti]] ha scritto che «l'affermazione che ci fossero storie di età superiore alla storia sacra sarebbe potuto sembrare [...] un attacco alla verità della Cristianesimo e una pretesa sacrilega».<ref>Paolo Rossi Monti, ''I segni del tempo: storia della Terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico'', (Milano, 1979)</ref> Se questa civiltà originaria non era quella dei patriarchi biblici, che cosa ne sarebbe stato della cronologia sacra, della storia della e della dispersione dei popoli com'era narrato narrate nel libro della Genesi? Per risolvere tali controversie, secondo lo storico Harvey, molti studiosi incominciarono a rivolgersi all'[[astronomia]], una scienza che si stava sviluppando e che stava diventando via via sempre più precisa, «in modo da trovare un supporto empirico o una confutazione per i venerabili ma opachi testi sacri».<ref>David Allen Harvey, ''The lost Caucasian civilization: Jean-Sylvain Bailly and the roots of the Arian myth'', p. 4.</ref> Già a partire dal [[XV secolo]], gli studiosi avevano attinto a fenomeni astronomici precisamente databili (come le eclissi o le congiunzioni dei pianeti) per corroborare la cronologia della storia antica.<ref>Anthony Grafton, ''Defenders of the Text: The Traditions of Scholarship in an Age of Science'', 1450–1800 (Cambridge, MA, 1991), 129.</ref> Considerando il fatto che i corpi celesti variavano la loro posizione nel corso dei secoli, i primi studiosi moderni riflettevano sul fatto che la posizione delle costellazioni nelle antiche [[Carta celeste|carte celesti]] poteva essere usata per calcolare le date precise in cui queste carte furono composte.
Mentre le fonti greche riportavano che gli [[Egizi]] e i [[Caldei]] fossero stati i primi astronomi del mondo antico, gli studiosi [[gesuiti]] in missione in [[Asia]] rivelarono che gli [[Indiani]] e i [[Cinesi]] avevano mappato le stelle e registrato le eclissi da tampi molto molto antichi; tali rivelazioni, secondo Harvey, «vennero strombazzate come prove della inattendibilità della cronologia biblica da scettici come [[Voltaire]]».<ref>David Allen Harvey, ''The lost Caucasian civilization: Jean-Sylvain Bailly and the roots of the Arian myth'', p. 5.</ref>
Intanto, contemporaneamente, verso la fine del [[XVIII secolo]], un numero sempre più crescente di pensatori europei incominciarono a convincersi, in virtù del livello di progresso tecnico-scientifico raggiunto, della loro superiorità culturale (e solo in alcuni casi razziale) nei confronti dei restanti popoli del globo, contrastando lo staticismo dell'[[Oriente]] al dinamismo dell'[[Occidente]]. Nello stesso periodo, intanto, gli "storici congetturali" del tardo illuminismo stavano cercando di colmare le lacune nella storia del genere umano.<ref>Karen O’Brien, ''Narratives of Enlightenment: Cosmopolitan
History from Voltaire to Gibbon'' (Cambridge, 1997)</ref><ref>Ronald Meek, ''Social Science and the Ignoble Savage'' (Cambridge, 1976)</ref>
(a) La tesi di una grande inondazione globale (l'episodio biblico del "diluvio universale") era ancora largamente accettata dalla comunità scientifica nel XVIII secolo: ad esempio Nicolas Boulanger, nella sua ''Antiquité dévoilée'' (1756), aveva tentato addirittura di dimostrarlo scientificamente adducendo varie prove geologiche; anche lui, come Bailly, aveva ipotizzato l'esistenza di una sofisticata civiltà antidiluviana.
Unendo tutti questi filoni di pensiero insieme, alcuni pensatori settecenteschi hanno concluso che i popoli "decadenti" dell'Est, considerati incapaci di creatività ed inventiva, non potevano aver sviluppato da soli delle civiltà avanzate sviluppate, e teorizzarono l'esistenza di un'antica civiltà perduta, che aveva - di conseguenza - civilizzato tutte le altre.
Bailly è uno tra questi pensatori. Egli, unendo insieme prove astronomiche, mitiche, storiche e geologiche, ipotizza l'esistenza di un antico popolo primordiale nelle lontane regioni del Nord. Questa civiltà originaria, testimonianza dell'antica [[età dell'oro]], che Bailly aveva legato al [[mito platonico]] di [[Atlantide]], gli permetteva anche di spostare sia l'[[giardino dell'Eden|Eden biblico]] sia le antiche radici culturali e civili asiatiche in una nuova narrazione della preistoria umana, in cui la civiltà, proveniente da nord, discese verso il sud.<ref>David Allen Harvey, ''The lost Caucasian civilization: Jean-Sylvain Bailly and the roots of the Arian myth'', p. 2.</ref>
(b) Bailly unì questa tradizione biblica con un altro classico mito legato all'oceano, il mito di Atlantide. Basandosi in gran parte sugli scritti di [[Platone]], Bailly sostenne che la<em> </em>storia raccontata da Crizia nell'omonimo dialogo platonico, doveva essere presa alla lettera.<ref name="Dan Edelstein" />
==La figura di Bailly==
(1) Formatosi come astronomo sotto la guida di [[Lacaille]] e [[Alexis Clairaut|Clairaut]], autore anche di un importante studio sui satelliti di [[Giove]], Bailly sviluppò un forte interesse verso la storia dell'astronomia antica e moderna ed incominciò a concentrare i suoi studi, soprattutto, sulla [[archeoastronomia|paleoastronomia]]. La sua ricerca delle antiche origini dell'astronomia, lo portarono via via sempre più lontano dai solidi e ben documentati fatti scientifici, avvicinandolo sempre di più nel regno della speculazione preistorica.
(15) Bailly era affascinato dal mondo preistorico, dal mondo mitico, soprattutto dalla tradizione di [[Atlantide]]. Questa sua attività di ricerca parallela fu, molto probabilmente, ispirata dall'opera a nove volumi di [[Antoine Court de Gébelin|Court de Gébelin]], ''Monde primitif'', che pretendeva di descrivere in maniera dettagliata ed enciclopedica un mondo antico, preistorico ma abitato da una civiltà sofisticata e tecnologicamente avanzata.<ref name="Dan Edelstein">[http://collections.stanford.edu/supere/page.action?forward=author_jean_sylvain_bailly§ion=authors ''Jean-Sylvain Bailly (1736-1793)''] by Dan Edelstein</ref><ref name="Dan2">">{{Cita libro|titolo=Studies in Eighteenth-Century Culture|nome1=Dan|cognome1=Edelstein|lingua=Eng|data= 2006}}</ref> Il progetto di de Gébelin si era anche legato al mondo semi-segreto della massoneria francese: molte delle caratteristiche e delle usanze che lui attribuiva all'antica civiltà descritta nella sua opera sembravano progettate più che altro per fornire una secolare e venerabile genealogia ai vari rituali massonici. Questa influenza massonica è un po' meno evidente nel caso di Bailly, anche se ci sono prove che testimoniano la sua presenza nella prestigiosa ''Loge des Neuf Sœurs'', a cui erano appartenuti [[Benjamin Franklin]], lo stesso de Gébelin, l'astronomo [[Jérôme Lalande]], e anche (sebbene solo per qualche settimana prima di morire) [[Voltaire]]. La loggia in effetti univa vari rappresentanti dell'empirismo settecentesco e degli storici versati nella speculazione mitologica.<ref name="Dan Edelstein" /><ref name="Dan2" />
==Le ''Histoires'': antologica storico-scientifica di Bailly==
(16) Fu sotto questo duplice egida di scienza e speculazione mitologica che Bailly decise di abbandonare in parte l'osservazione astronomica al fine di concentrarsi sugli studi di storia e di mitologia e di scavare a fondo alle radici mitiche gli inizi della scienza, del progresso tecnologico ed anche delle conoscenze astronomiche.<ref name="Dan Edelstein" /><ref name="Dan2" /> Il suo primo lavoro di questo tipo, vagamente ispirato all'<nowiki/>''Essai sur les mœurs et l'esprit des nations'' di Voltaire, fu l'<nowiki/>''Histoire de l'astronomie ancienne, depuis son origine jusqu'à l'établissement de l'école d'Alexandrie'' del [[1775]]''.'' Un altro libro, simile, fu anche l'''<nowiki/>Histoire de l'astronomie moderne, depuis la fondation de l'école d'Alexandrie jusqu'àl'époque de 1730,'' apparso invece - come già ricordato - in due volumi nel [[1779]]. In questi scritti Bailly formulò la tesi per la quale sarebbe diventato famoso: pre-datando alcuni casi e studi astronomici documentati dalle civiltà del passato, sostenne l'ipotesi che dovesse esistere una civiltà preesistente, "antidiluviana", che prima delle altre aveva eccelso in campo astronomico. Solo l'esistenza di questa civiltà precedente avrebbe infatti potuto spiegare come mai gli indiani, i caldei, i persiani e addirittura i cinesi avevano potuto sviluppare conoscenze e pratiche astronomiche intorno allo stesso periodo (3000 a.C.).<ref name="Dan Edelstein" />
(3) La storia dell'astronomia di Bailly includeva una discussione sulle [[tavole astronomiche]] [[India|indiane]] presumibilmente risalenti al 3102 a.C. (una data provocatoriamente antidiluviana); Bailly arrivò a sospettare che le vere origini della scienza e della civiltà dovessero essere poste più a nord. Constatò i suoi sospetti per la prima volta nell’''Histoire de l’astronomie ancienne'' ([[1775]]), dove, notando che queste accuratissime osservazioni convivevano con grandi errori e con numerose superstizioni all'interno degli annali di questi popoli antiche, il che gli suggeriva che queste osservazioni fossero state semplicemente copiate dalle scoperte di una più avanzata e più antica civiltà che però la storia aveva dimenticato.
Bailly riportò anche che entrambi [[Tolomeo]] e [[Zoroastro]], avevano scritto che la durata del giorno nel [[solstizio d'estate]] fosse due volte più lunga di quella del [[solstizio d'inverno]], un'osservazione che in realtà era sbagliata per le latitudini della [[Grecia]] e del [[Medio Oriente]], ma corretta al [[49º parallelo Nord]], dove la lunghezza del giorno variava dalle sedici ore di [[giugno]] alle solo otto ore di [[dicembre]].<ref>Jean-Sylvain Bailly, ''Histoire de l’astronomie ancienne, depuis son origine jusqu’à
l’établissement de l’école d’Alexandrie'' (Parigi, 1775), 18, 100.</ref>
==La concezione storico-mitica di Bailly==
(7) Egli ha inoltre scritto nella sua seconda lettera all'interno delle ''Lettres'':
«Ho detto che nel considerare attentamente lo situazione dell'astronomia in Cina, in India e in Caldea, troviamo più dei detriti che elementi veri di una scienza. Se vedesse, Mons. [Voltaire] la casa di un contadino costruita da sassi mescolati a frammenti di colonne, in un bellissimo stile architetturale, non concludereste che questi erano i resti di un palazzo, costruito da un architetto più affidabile e antico degli abitanti di quella casa? I popoli dell'Asia, eredi di un popolo pre-esistente che aveva generato le scienze, o almeno l'astronomia, erano depositari e non inventori. Questo ritengo sia vero anche nei confronti degli Indiani; e mi sforzerò di dimostrarlo più dettagliatamente. Aggiungo che alcuni fatti astronomici possono essere sperimentati solo ad una latitudine considerevolmente elevata in Asia: e questo è perfettamente vero. Considerando che questi fatti sono estremamente antichi, ho pensato che potrebbero servire per individuare il paese di un popolo primitivo. Ho congetturato che le scienze, prima crescendo a queste alte latitudini, sono poi scese verso l'equatore, "illuminando" gli Indiani e Cinesi; e che, contrariamente all'opinione accettata, la luce viaggiò da Nord a Sud. Io ho fatto questa conclusione, non come una verità dimostrata, ma come un'opinione altamente probabile; e ho finito con una sorta di romanzo filosofico. La miglior parte delle favole antiche, considerate da un punto di vista fisico, sembrano appartenere alle regioni settentrionali del globo: si potrebbe pensare che la loro interpretazione unificata permetta di tracciare le successive fasi del genere umano e il loro percorso dal Polo verso l'Equatore, in cerca di calore, e giorni di lunghezza più uguale».<ref>''Ibid.'', 18–19.</ref>
Bailly dichiarò la sua ipotesi secondo cui le scienze, nate nelle latitudini nordiche, erano discese verso l'equatore per illuminare gli Indiani e Cinesi e che, «contro l'opinione prevalentemente accettata», la luce della conoscenza si mosse da Nord verso il Sud. Ha riconosciuto infatti che la sua teoria andava contro l'opinione stabilita del suo tempo, anche scrivendo: «si è sempre creduto che la terra sia stata popolata e illuminato da Sud a Nord. [...] Era naturale infatti credere che i primi uomini avrebbero scelto la loro residenza nei climi più piacevoli; era naturale pensare che le scienze, e in particolare l'astronomia, fossero nate in questi climi piacevoli sotto la serenità delle loro notti.»
Tuttavia, Bailly sostenne che, al contrario, era più probabile che gli uomini fossero venuti dalle zone fredde per stabilirsi in climi caldi piuttosto che il contrario, rilevando che: «Non oserei mai proporre alla gente della Provenza di andare a prendere residenza a Pietroburgo».<ref>''Ibid.'', 225, 229.</ref> Infatti, come vedremo, Bailly sosterrebbe l'ipotesi che graduali cambiamenti del clima globale avrebbero dato luogo alla migrazione verso sud di questo popolo primordiale dalla sua antica dimora settentrionale.
(13) È certamente significativo notare che mentre la prima menzione di Bailly di un popolo primordiale perduto, in un capitolo intitolato "De l’astronomie antediluvienne" nell′''Histoire de l’astronomie ancienne'' ([[1775]]) e che invocava il [[diluvio universale|diluvio biblico]] come la cesura tra la preistoria e la storia, nelle ''Lettres sur l’Atlantide'', scritte solo quattro anni dopo, Bailly sostituì la storia sacra con una spiegazione puramente secolare e derivata dalla scienza naturale contemporanea.
(17) In più solo questo sito settentrionale avrebbe potuto spiegare i costanti ritornelli mitologici e le usanze comuni a tutte le tradizioni religiose delle civiltà antiche: spiegabili perché in realtà tutte le civiltà deriverebbero dall'unico ceppo comune atlantideo. Da questo luogo infatti, gli Atlantidei migrati a Sud, si stabilirono in India, per poi trasferirsi ad Ovest, oltrepassando e colonizzando dopo l'India, anche l'Egitto, la Grecia, per arrivare, infine, in Europa. Prefigurando [[Hegel]], Bailly affermò che: «lo scettro della scienza deve essere stato tramandato da un popolo all'altro».<ref>Bailly, ''Histoire de l'astronomie ancienne'', 3.</ref> Il movimento di queste conoscenze scientifiche però, diversamente da come Hegel riterrà, non era avvenuto da est a ovest, ma, per Bailly, da nord a sud.<ref name="Dan Edelstein" /><ref name="Dan2" />
(18) Secondo Bailly, perciò, le popolazioni dell'Asia non erano state che eredi delle conoscenze di questo popolo antlantideo settentrionale, che aveva già sviluppato un'astronomia molto precisa. I cinesi e gli indiani, tanto rinomati per il loro apprendimento scientifico, non sarebbero stati per lui che semplici depositari.
(20) Bailly insistette per individuare Atlantide molto più a nord, localizzandola nella mitica terra di [[Iperborea]], la cui capitale era [[Thule (mito)|Thule]].<ref name="Dan Edelstein" /><ref name="Dan2" /> Questa terra doveva essere quella che aveva ospitato l'[[età dell'oro]] di cui poeti e storici antichi, come [[Erodoto]] o [[Esiodo]], avevano narrato.<ref name="Dan Edelstein" /><ref name="Dan2" />
===L'ispirazione verso Rudbeck===
(11) Sebbene le teorie di Bailly appaiono fantasiose, egli non fu il primo scrittore europeo a suggerire che l'Atlantide di cui parlavano gli antichi si trovasse nel lontano nord. Un secolo prima infatti, [[Olaus Rudbeck]], professore di medicina presso l'[[Università di Uppsala]], era diventato ossessionato dalla teoria che Atlantide secondo cui Atlantide fosse in realtà la Svezia, e che le leggende greche sugli Iperborei similarmente si riferissero al suo paese natale. Durante gli ultimi anni della sua vita, Rudbeck si dedicò a far avanzare la sua teoria in un lavoro in più volumi, scritto in latino e in svedese, ''Atlantica'' (pubblicato nel [[1679]]), che lo storico Gunnar Eriksson ha descritto come «un lavoro storico di estremo patriottismo», fatto di «mitologia classica, poetica dell'[[Edda]], ed infinite etimologie vertiginose».<ref>Gunnar Eriksson, ''The Atlantic Vision: Olaus Rudbeck and Baroque Science'' (Canton, MA, 1994), VII–VIII.</ref> Forse ipersensibile alle opinioni degli studiosi di latino europei che consideravano la Scandinavia una terra di barbari, solo recentemente cristianizzata e civilizzata, Rudbeck tentò in ogni modo di dimostrare che la Svezia era, al contrario, l'originale primavera della cultura occidentale, da cui le arti e le scienze in seguito discesero verso il sud ai Greci, ai Fenici, ed agli altri popoli antichi. Anche se, come nota David King, «dal primo Settecento ''Atlantica'' era caduto nel regno della parodia e il nome di Rudbeck stava diventando sinonimo di [...] di "teorizzazione selvaggia"»<ref>King, ''Finding Atlantis'', 252.</ref> la nozione di un'Atlantide settentrionale era stata avanzata nel discorso storico europeo, ed era già disponibile a Bailly nei suoi sforzi per dimostrare che le arti e le scienze erano state prima sviluppate nei pressi del [[circolo polare artico]].
==Le ''Lettres'' a Voltaire==
(19) Uno dei primi destinatari del lavoro di Bailly, quando questi era ancora in fase di definizione, fu Voltaire stesso, che riconobbe la plausibilità delle sue tesi con una lettera incoraggiante (anche se leggermente sarcastica), che Bailly pubblicò assieme alla loro conseguente corrispondenza epistolare nella prefazione del libro del [[1777]], ''Lettres sur l'origine des sciences, et sur celle des Peuples de l'Asie'', destinato proprio a Voltaire.<ref name="Dan Edelstein" /><ref name="Dan2" /> In questo testo, Bailly cercò di confutare la convinzione di Voltaire sul fatto che i [[brahmani]] fossero il più antico popolo del mondo e che, come Voltaire sosteneva, c'era ancora un grande paese, vicino a [[Benares]], dove l'età dell'oro di Atlantide continuava ad esistere (Voltaire aveva sviluppato questa idea nella sua breve storia ''La princesse de Babylone'').
Anche se intanto Voltaire era morto prima che potesse rispondergli dopo la pubblicazione, Bailly comunque pubblicò un ulteriore libro per difendere la sua tesi, le ''Lettres sur l'Atlantide de Platon et sur l'histoire de l'ancienne Asie'' (1779).<ref name="Dan Edelstein" /><ref name="Dan2" />
(4) Queste tesi richiamarono l'attenzione di [[Voltaire]] negli ultimi anni della sua vita, e portarono ad una lunga corrispondenza epistolare tra l'astronomo e il filosofo di [[Ferney]]. L'interesse di Voltaire verso l'India era cresciuto durante i decenni finali della sua vita, in quanto gli appariva come il luogo più plausibile in cui trasportare la "terra santa" biblica, intesa come culla della civiltà.
Un saggio di Voltaire, l′''Essai sur les mœurs et l’esprit des nations'', pubblicato per la prima volta nel [[1756]] ma scritto in molti anni di lavoro, presentava l'India e la Cina come le prime civiltà avanzate del mondo antico. Inoltre, nella ''Philosophie de l’histoire'', altra opera scritta però nel [[1765]] come prefazione all'opera precedente, Voltaire asseriva che «gli Indiani attorni al [[Gange|fiume Gange]] furono probabilmente i primi esseri umani a formare un popolo».<ref>Voltaire, ''Philosophie de l’histoire'' (1765)</ref>
Le fonti di Voltaire sull'[[antica India]] includevano lo ''Shastabad'', un frammento incluso dal medico John Zephaniah Holwell, uno dei primi a studiare l'antica civiltà indiana, e l’''Ezour-vedam'', un testo presumibilmente antico arrivatogli dall'India grazie ad un suo ammiratore, il cavaliere Fayd'herbe de Maudave. Oggi, nessuna di queste "fonti" è considerata autentica o attendibile: il frammento di Holwell, presumibilmente ricostruito a memoria da una copia persa negli sconvolgimenti della [[guerra dei sette anni]], presentava una "religione naturale" razionalistica del tipo preferito dal [[deismo|deismo settecentesco]]; invece il secondo documento, un dialogo in cui si discutevano i meriti del monoteismo e del politeismo, era, nelle parole di [[Friedrich Max Müller]], [[filologo]] e [[orientalista]] preminente del [[XIX secolo]], una «grezza falsificazione» composta dai primi gesuiti moderni per la conversione degli induisti.
Tuttavia, Voltaire, probabilmente inconsapevole dell'inattendibilità di questi documenti, ne fece ampio uso nella sua campagna volta a minare la sacra cronologia biblica e, soprattutto, per sottolineare la maggiore antichità dei popoli del [[sud-est asiatico]] rispetto agli abitanti delle terre bibliche.<ref>Raymond Schwab, ''La Renaissance orientale'' (Parigi, 1950)</ref><ref>Dorothy Figueira, ''Aryans, Jews, Brahmins: Theorizing Authority through Myths of Identity'' (Albany, 2002)</ref><ref>Urs App, ''The Birth of Orientalism''.</ref>
[[Urs App]] ha recentemente osservato che Voltaire «ha creato una specifica narrazione per servire la sua particolare agenda» e che «quasi da solo ha trasformato alcuni appunti missionari provenienti da luoghi remoti dell'India del Sud nei "testi più antichi del mondo" [...] nel Vecchio Testamento del suo [[deismo]]».<ref>''Ibid.'', 53-64.</ref>
(5) Secondo Harvey, «sebbene colpito dalla storia dell'astronomia di Bailly, Voltaire era ben poco convinto dalla sua pretesa delle origini nordiche della scienza».<ref>David Allen Harvey, ''The lost Caucasian civilization: Jean-Sylvain Bailly and the roots of the Arian myth'', p. 6.</ref> Dichiarando di essere «convinto che ogni cosa sia giunta a noi dalle sponde del Gange» Voltaire rispose che i Brahmani «dimorando in un clima incantevole e al quale la natura aveva donato tutti i suoi doni, dovevano, mi sembra, avere più tempo libero per contemplare le stelle rispetto ai Tartari e agli Uzbeki» facendo riferimento ai territori, quelli della [[Scizia]] e del [[Caucaso]], che secondo Bailly avevano ospitato quella sconosciuta civiltà avanzata chi cui parlava.<ref>Jean Sylvain Bailly, ''Lettres sur l’origine des sciences et sur celle des peuples de l’Asie'' (Paris, 1777), 4.</ref> Al contrario, sosteneva che «la Scizia non ha mai prodotto nulla, se non le tigri, capaci solo di divorare i nostri agnelli» e chiese ironicamente a Bailly: «È credibile che queste tigri siano partite dalle loro terre selvagge con quadranti e astrolabi?».<ref>Jean Sylvain Bailly, ''Lettres sur l'origine des sciences'', 6.</ref> Lo storico Rolando Minuti ha notato che le «metafore zoomorfe» erano centrali nella rappresentazione di Voltaire dei popoli "barbari" del [[Asia centrale]], e gli servivano all'interno della sua macro-narrativa sull'origine della civiltà per giustapporre la natura distruttiva e animalesca dei popoli nomadi con la coltivazione delle arti e delle scienze dalla civiltà urbane, dipingendo le prime come «le antagoniste storiche della civilizzazione».<ref>Rolando Minuti, ''Oriente barbarico e storiografia settescentesca: Rappresentazione della storia dei Tartari nella cultura francese del XVIII secolo'' (Venezia, 1994), 102, 41.</ref>
Conseguentemente, sebbene Voltaire abbia lodato come «ingegnosa e probabile» l'asserzione di Bailly che la differenza nella durata del giorno tra l'estate e l'inverno possa aver ispirato le prime osservazioni astronomiche, suggerì però, ribaltando le prove di Bailly a suo favore, che questo contrasto sarebbe potuto essere sufficientemente visibile nel lontano nord dell'[[India]], al 36° parallelo.
Voltaire osservava che i Greci accreditavano l'India come fonte di saggezza antica, e chiese a Bailly: «Qualcuno ha mai conosciuto un filosofo greco che abbia cercato le scienze nella terra di [[Gog e Magog]]?». E pur riconoscendo che i Brahmani dell'India contemporanea non sembravano essere all'altezza della loro antica reputazione, Voltaire dice astutamente a Bailly: «Considera, ti prego, che non c'è più né un [[Platone]] ad [[Atene]] né un [[Cicerone]] a [[Roma]]».<ref>Jean Sylvain Bailly, ''Lettres sur l’origine des sciences et sur celle des peuples de l’Asie'' (Paris, 1777), 7-8.</ref> Ciononostante, Voltaire è stato gentile e generoso con Bailly, gratificando il suo libro come un «capolavoro della scienza e del genio».<ref>''Ibid.''; 12-14.</ref>
===Il determinismo geografico===
(6) D'altro canto, il rifiuto di Bailly all'ipotesi di Voltaire, ovvero all'ipotesi secondo cui l'Asia meridionale e orientale fosse il luogo di nascita della civiltà, rifletteva un'idea prevalente durante l'[[Illuminismo]], quella del [[determinismo geografico]]. Secondo questa tesi, propugnata da Bailly e almeno parzialmente ripresa da [[Montesquieu]], esiste un rapporto di causalità tra il clima e le forme di governo, tra il clima e il progresso delle arti e delle scienze.
Nell’''Esprit des lois'', ad esempio, [[Montesquieu]] sosteneva che: «la codardia dei popoli che abitavano i climi caldi li ha quasi sempre resi schiavi e il coraggio dei popoli climi freddi li ha invece tenuti liberi» e rese popolare la teoria, articolata già dagli antichi greci, secondo cui l'estremità torrida e quella polare impedivano lo sviluppo fisico e intellettuale dell'uomo, mentre la zona temperata aveva permesso all'umanità che vi abitava di raggiungere la piena fruizione.<ref>Charles Sécondat deMontesquieu, ''The Spirit of the Laws'', trad. Anne Kohler (Cambridge, 1989; pubblicata 1749), 54.</ref>
Questi sentimenti sono stati ampiamente ripresi dall'insigne [[naturalista]], [[Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon|Buffon]], protettore di Bailly, la cui ''Histoire naturelle'' sottolineava la superiorità degli abitanti della zona temperata rispetto ai popoli nordici e a quelli dei tropici, dichiarando sui primi che «è in questo clima che si dovrebbe formare un'idea del vero colore naturale dell'uomo» dal quale poi le altre "varietà" umane erano degenerate.<ref>Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, "Des variétés de l’homme", in Buffon, ''Histoire naturelle, générale et particulière'', vol. 3 (Parigi, 1750–1804), 371–530, 528.</ref>
E mente Montesquieu e Buffon sottolineavano la superiorità dell'ambiente temperato, loro e molti dei loro contemporanei incominciarono a rivalutare i relativi meriti dell'[[Oriente]] e dell'[[Occidente]].
Nel [[XVII secolo]] e all'inizio del [[XVIII secolo]], i missionari e gli studiosi gesuiti, molti viaggiatori colti, i ''philosophes'' illuministi, ed in particolare lo stesso Voltaire, avevano celebrato l'antichità e la saggezza dell'Oriente, riflettendo in qualche modo l'ammirazione degli umanisti verso il passato classico e l'autorità che davano alla tradizione antica. Quando, tuttavia, le teorie stadiali del progresso storico misero le proprie radici nel tardo Illuminismo gli autori successivi incominciarono a sottolineare la "decadenza" orientale e contrastavano le antiche, eppure apparentemente stagnanti, civiltà dell'Est con la più giovane, ed anche più dinamica, civiltà [[Europa|Europea]].
La forza di queste convinzioni era così forte che l'intero mondo accademico tendeva ad accettarle. Infatti, confrontando lo stato dell'astronomia in entrambe le società, in un ''Histoire de l’Académie des sciences'', scritta nel [[1759]], si disse che «il genio dei Cinesi, per quanto ammirabile, è enormemente inferiore a quello degli Europei».<ref>''Histoire de l’Académie des sciences'' (1759), 45.</ref> Anche l'[[Gabriel Bonnot de Mably|abate Mably]], filosofo e politico francese, riprese questo contrasto tra il dinamismo occidentale e la stagnazione orientale, scrivendo «duemila anni fa i cinesi avevano la stessa quantità di conoscenza che hanno anche oggi».<ref>Henry Vyverberg, ''Human Nature, Cultural Diversity, and the French Enlightenment'' (New York, 1989), 130.</ref> Parlando di Asia più in generale, Montesquieu, concordando, scrisse che: «la "pigrizia dello spirito" dei popoli orientali ha assicurato che le leggi, i costumi e le maniere [...] rimanessero oggi in Oriente identiche a come erano un migliaio di anni fa».<ref>Montesquieu, ''The Spirit of the Laws'', 235.</ref>
Bailly attinse a tale [[determinismo geografico|determinismo climatico]] per sostenere che la scienza dell'astronomia era emerso nel nord ed era poi, da lì, discesa verso il sud. Nell’''Histoire de l’astronomie ancienne'' Bailly scrisse che: «Un clima temperato dà alla costituzione umana questa miscela felice di forza e di attività, necessaria per il progresso della conoscenza. Una volta che la scienza fu trapiantata nei paesi caldi, invece, è rimasta stazionaria. Gli uomini, [...] trovando indolenza e morbidezza in questi climi, hanno perso il loro genio. [...] Orgogliosi dei meriti dei propri antenati, gelosi dei "detriti" dei loro tesori, ma anche cullati e appesantiti dalla pigrizia, hanno conservato tutto ciò che sapevano senza produrre nulla».<ref>Bailly, ''Histoire de l’astronomie ancienne'', 105.</ref>
In pieno accordo con il [[determinismo geografico]] illuminista, Bailly sostenne nelle ''Lettres sur l’origine des sciences'' che i popoli dell'India e della Cina, pur non essendo inferiori come uomini rispetto agli Europei, mancavano però dello «spirito d'inventiva» ed erano «senza energia o movimento», necessari per il progresso scientifico, ma non per loro colpa, quanto come necessaria conseguenza dell'ambiente climatico in cui vivevano che li aveva plasmati in questo modo.<ref>Bailly, ''Lettres sur l’origine des sciences''</ref>
Citando il gesuita studioso Parrenin sul conservatorismo degli astronomi di corte cinesi, che percepivano tutte le novità come pericolose e minacciose, Bailly rimarcò che: «Se noi in Europa pensassimo come loro, non avremmo avuto Cartesio, Galileo, Cassini, o Newton».<ref>''Ibid.'', 190, 25.</ref> Bailly concluse che i Cinesi «non hanno mai avuto il vero spirito delle scienze e, dicendolo senza mezzi termini, manca loro del genio».<ref>''Ibid.'', 30.</ref> Similmente, Bailly mise in contrapposizione la presunta "decadenza" dell'India attuale, con il suo glorioso passato, scrivendo «Vedo ovunque in mezzo a loro una filosofia degenerata, precetti dei quali hanno perso il significato, verità fisiche coperte con uno stile figurativo che dà loro un carattere fiabesco».<ref>''Ibid.'', 56.</ref>
Le fonti missionarie gesuite su cui sia Voltaire che Bailly si basavano per avere informazioni sull'antica India rafforzarono ulteriormente questa narrativa di un glorioso passato e di un presente decadente. Il filosofo e storico indiano Dhruv Raina ha osservato che i trattati dei gesuiti sull'India affermavano che "l'idolatria Indù" non era altro che una discendente degenerata della puro e originale religione naturale del genere umano, emersa in seguito alla dispersione dei popoli dopo la distruzione della [[torre di Babele]], un'interpretazione progettata per supportare il dogma della monogenesi e l'universalità del [[monoteismo]] primordiale.
Allo stesso modo, gli autori gesuiti, come padre Gaston-Laurent Cœurdoux, fecero risalire la migrazione dei primi Brahmani in [[India]] da nord, collegandoli implicitamente a un origine biblica. Facendo eco a tali argomentazioni, ispirate teologicamente, in un registro laico, Bailly sostenne che «gli indiani estranei a se stessi», che ha spiegato, sostenendo «che i brahmani non sono indiani». Essi, secondo lui, lo riconoscevano, e dicevano che i brahmani sono arrivati dal nord. Questa è la tradizione e, contemporaneamente, la prova di una migrazione.<ref>Bailly, ''Lettres sur l’origine des sciences'' p. 81.</ref>
===Il collegamento con Atlantide===
(8) Il primo volume delle lettere di Bailly postulava l'esistenza di una civiltà primordiale perduta che aveva influenzato tutte le altre, ma senza offrire specifiche sul nome, sulla posizione, o sul destino di quella civiltà. Il suo secondo volume, invece, offriva una spiegazione sorprendente e originale, che collegava la sua teoria della civiltà primordiale alla storia della crescita, dell'espansione e della distruzione di [[Atlantide]] come descritto nei dialoghi platonici del ''Timeo'' e del ''Crizia''.
La ricerca di [[Atlantide]] è da sempre uno dei temi più antichi della cultura occidentale, che beneficia del prestigio della paternità di Platone e offre oscure ma allettanti promesse di una saggezza perduta, di ricchezza, e possibili prove riguardanti la preistoria remota del genere umano.
Bailly, argutamente, anticipò l'obienzione che certamente gli avrebbero fatto: ovvero che Atlantide non fosse altro che una favola didattica, «frutto della fantasia geniale e morale di Platone». Allora, per suffragare la sua tesi, Bailly sostenne che «la maggior parte dei poemi presentati come storici, hanno dei soggetti presi dalla storia», citando l'[[Eneide]] di [[Virgilio]] come esempio. Di conseguenza, egli scrisse sull'Atlantide di Platone che «è evidente che qui la morale c'è ma è solo accessoria. Platone è uno storico che traccia una grande catastrofe e trae da esso una grande lezione».<ref>Bailly, ''Lettres sur l’Atlantide de Platon, et sur l’ancienne histoire de l’Asie'' (Paris, 1779), 43–4.</ref>
Lo storico [[Pierre Vidal-Naquet]] ha osservato che il racconto di Platone sull'ascesa e sulla caduta di Atlantide si comprende molto bene come una critica all'imperialismo marittimo ateniese e al commercio dal punto di vista del repubblicanesimo austero che l'autore aveva già sostenuto nella ''[[Repubblica (Platone)|Repubblica]]''.<ref>Pierre Vidal-Naquet, ''The Atlantis Story: A Short History of Plato’s Myth'', trad. Janet Lloyd (Exeter, 2007), 15–23.</ref> [[Lyon Sprague de Camp]] concorda, notando che i contemporanei di Platone e i suoi immediati successori riconobbero la natura fittizia e didattica della storia di Atlantide, e che invece furono i neoplatonici alessandrini e poi, soprattutto, gli studiosi del [[Rinascimento]] che, riscoprendo le loro opere, per primi hanno interpretato Atlantide come un luogo reale.<ref>Lyon Sprague de Camp, ''Lost Continents: The Atlantis Theme in History, Science, and Literature'' (New York, 1970), 16–19.</ref>
L'interpretazione di Bailly della storia di Atlantide come fatto storico riflette un forte approccio [[evemerismo|evemeristico]] verso la mitologia classica. Lo storico Frank E. Manuel definisce questo approccio "[[Evemerismo|evemerista]]" (dal nome del filosofo tardoantico [[Evemero]]) come «l'idea che in origine gli dei avessero una loro esistenza sulla terra, che erano comuni esseri umani, e che i miti erano commemorazioni dei loro atti in questo mondo».<ref>Frank Manuel, ''The Eighteenth Century Confronts the Gods'' (New York, 1967), 105.</ref> [[Anthony Grafton]] ha osservato invece che «l'interpretazione evemeristica dei miti classici come rielaborazioni di eventi veri e propri» servì come «un coltellino svizzero interpretativo per legioni di interpreti pagani e cristiani», e che fu ampiamente utilizzato dagli autori classici stessi e dai loro eredi umanisti del Rinascimento.<ref>Grafton, ''Defenders of the Text'', 87</ref>
Molti studiosi della prima età moderna, come [[Joseph Scaliger]], pioniere della cronologia comparata cinquecentesca, fece uso della mitologia classica per ricostruire la storia più antica dell'umanità, ritenendo, come scrive Grafton, «che i miti non erano storie velate di dottrine filosofiche, ma racconti confusi di eventi storici».<ref>''Ibid.'', 37.</ref>
Di conseguenza, sebbene [[Nicolas Fréret]], il più famoso storico classicista francese del primo Settecento, aveva concluso che Atlantide era un «romanzo filosofico»<ref>Citato in Vidal-Naquet, ''The Atlantis Story'', 87.</ref> Bailly sosteneva che gli dei degli antichi Greci, Fenici, ed egiziani erano in realtà re ed eroi di [[Atlantide]], rilevano inoltre che le leggende su regni preistorici di giganti, semidei, fate e geni non potevano che rappresentare una sorta di memoria ancestrale della grandezza degli Atlantidei.
Bailly poi si rivolse a [[Diodoro Siculo]], che presentava gli Atlantidei di Platone come il primo popolo della Terra, dicendo inoltre che era stato unito insieme e civilizzato da [[Urano (mitologia)|Urano]]. Discutendo poi la successiva storia mitologica relativa alle guerre di successione tra gli dei e i Titani, fino alla sconfitta da parte di Giove del padre Saturno, Bailly ipotizzò che questa narrativa mitologica aveva in realtà radici nella reale storia dinastica di questa prima civiltà umana.<ref>Jean Sylvain Bailly, ''Letters sur l'Atlantide de Platon'', 60–62.</ref> Poi, ritenendo che con il passare del tempo e con la ovvia perdita di contatto diretto con gli Atlantidei le leggende delle loro grandi gesta si siano sempre di più "mitizzate", Bailly suggerì un ipotetico parallelo moderno: «Lei sa, signor Voltaire, tutto ciò che la verità e l'adulazione hanno detto del grande secolo di [[Luigi XIV]]. Immaginiamo una colonia di francesi, stabilitasi oggi in qualche paese lontano e senza comunicazione [con la Francia], che si mescola con gli abitanti nativi lì, narrando loro delle meraviglie di questo famoso regno, della magnificenza di Versailles, degli oceani uniti, delle acque che attraversavano le montagne per portare le barche, del re glorioso che domina l'Europa con la sua ascesa [...] se queste storie poi passassero di bocca in bocca e di generazione in generazione, non ci vorrebbe molto tempo per far diventare gli europei un popolo di giganti, e di farli apparire come esseri dalla natura potente, superiori a quella dell'uomo. Luigi XIV sarebbe stato il re di questi "geni", Caterina II invece sarebbe stata una fata che animava il Nord con una torcia accesa in mezzo al ghiaccio.»<ref>''Ibid.'', 188–9.</ref>
Postulando l'ipotesi che Atlantide fosse un vero e proprio luogo, anche se ormai scomparso, Bailly ha poi cominciato a raccogliere gli indizi lasciati da Platone e dagli altri autori antichi sulla sua posizione, sostenendo che gli studiosi precedenti aveva commesso un errore cercandola in occidente, piuttosto che a nord.<ref>''Ibid.'', 83–4; e Bailly, ''Histoire de l’astronomie'', 285–286.</ref> Bailly inoltre paragonò il mito greco di [[Prometeo]] – che era stato legato alle montagne del [[Caucaso]] per aver commesso il crimine di aver dato il fuoco agli uomini – al culto [[Zoroastro|zoroastriano]] del fuoco sacro, sostenendo che le due storie riflettevano una comune origine nel freddo nord, dove il mantenimento di una fiamma eterna era essenziale per la conservazione della vita. Egli scrisse che «poiché il clima ci domina, gli uomini dimostrano con le loro abitudini le terre in cui sono nati» e sostenne, per questo motivo, che la venerazione del fuoco non poteva essere originaria delle terre calde del sud dove non aveva senso di esistere.<ref>Bailly, ''Lettres sur l'Atlantide de Platon'', 199.</ref> Bailly scrisse inoltre che il sole, che «regnava come un despota» ai tropici, poteva essere un oggetto di venerazione solo per i popoli del nord, dove la sua scomparsa minacciava la distruzione della vita mentre il suo ritorno segnava il rinnovamento della speranza, e citò [[Apollo]] come una «divinità di queste terre fredde, un Dio straniero, successivamente adottato dai Greci».<ref>''Ibid.'', 211, 132.</ref>
Lo spostamento di Atlantide, fatto da Bailly, dall'Occidente e a sud dell'Europa, verso Oriente e a nord, e la attribuzione di un suo ruolo centrale per il [[Caucaso]] nella remota preistoria del genere umano, non erano comunque le riflessioni isolate di un pensatore solitario, ma riflettevano le assunzioni storiche, estetiche, e le ipotesi geografiche del suo tempo.
===Bailly e il termine "caucasico"===
(9) L'invenzione del termine "caucasico" come categoria per descrivere i popoli dalla pelle chiara dell'[[Europa]] e dell'[[Asia occidentale]] si basava su teorie illuministe della diversità umana, così come su valori estetici neoclassici comuni per l'élite europea del XVIII secolo. Lo storico Bruce Baum ha notato che «gli antichi greci [...] vedevano la catena del Caucaso come il luogo della sofferenza di Prometeo» e come «la terra della Colchide» da cui [[Giasone]] e gli [[Argonauti]] salparono alla ricerca del [[vello d'oro]]. Baum ha osservato inoltre che «nell'Europa cristiana, la fonte più importante per le convinzioni sulle origini dell'umanità nel Caucaso è stata il racconto, allora prevalente, secondo cui Noè approdò lì dopo il diluvio».<ref>Bruce Baum, ''The Rise and Fall of the Caucasian Race: A Political History of Racial Identity'' (New York, 2006), 82.</ref>
Baum ha osservato anche che il primo autore a utilizzare il termine "caucasico" come categoria razziale fu il tedesco Christoph Meiners nel [[1785]], e che il termine entrò nel mainstream del discorso scientifico con la terza edizione della tesi di [[Johann Friedrich Blumenbach]] ''De generis humani varietate nativa liber'' ("Della naturale varietà dell'Umanità"), pubblicato nel 1795. Blumenbach spiegava la scelta del termine dichiarando che il [[Caucaso]] «produce la più bella razza di uomini [...] e perché [...] in quella regione, semmai, a quanto pare dovremmo poter posizionare con molta probabilità gli autoctoni del genere umano».<ref>''Ibid.'', 5–6.</ref> Dati i fattori estetici, religiosi, storici e politici in gioco, la designazione del Caucaso come il luogo di nascita del genere umano è stata forse sovradeterminata.
(10) A differenza dei suoi contemporanei tedeschi Meiners and Blumenbach, e questo va notato, Bailly non ha mai usato la parola "caucasico" come termine descrittore di una razza; per lui, inoltre, il [[Caucaso]] non era neanche la dimora originaria degli Atlantidei, ma la posizione da cui diffusero la civiltà agli antichi greci. Queste distinzioni sottili, tuttavia, furono facilmente trascurate mentre la nozione di "razza caucasica" a poco a poco metteva le proprie radici nell'immaginario europeo.
===La problematica del clima===
(12) La teoria di un Atlantide settentrionale di Bailly, tuttavia, sollevato più difficoltà di quante ne risolvesse. Infatti, riflettendo l'ipotesi aristotelica dell′''aurea mediocritas'' (una giusta via di mezzo), la teoria illuministica del clima, come essa era stata sviluppata da Montesquieu e Buffon, presentava entrambi i climi, sia quello polare che quello equatoriale, come barriera allo sviluppo umano.<ref>Minuti, ''Oriente barbarico e storiografia settescentesca''.</ref>
Nella sua risposta a Bailly, Voltaire espresse dubbi sul fatto che l'astronomia sarebbe potuto essere stata inventata in «un clima coperto di neve e gelate orribili», concludendo che «la terra con delle notti incantevoli è l'unica in cui l'astronomia sarebbe potuto essere nata».<ref>''Letter of Voltaire to Bailly'', 9 Feb. 1776, riprodotta in Bailly, ''Lettres sur l'origine des sciences'', 12–14.</ref> Il duro clima dell'Asia settentrionale rappresentava quindi una barriera concettuale per le teorie di Bailly che necessitava di essere spiegata.
Al fine di affrontare queste obiezioni e per spiegare la migrazione verso sud degli antichi Atlantidei, Bailly adottò il modello del raffreddamento globale proposto precedentemente da Buffon, che cercava di spiegare la presenza degli elefanti (in realtà dei [[mammut]]) nel Nord Europa, sostenendo che la terra in passato fosse stata molto più caldo di quanto lo fosse invece allo stato attuale, e che le zone adesso fredde fossero una volta temperate e piacevole da abitare. «Non è strano − sottolineava Bailly − che il signor Buffon, ipotizzando il raffreddamento del globo, immaginava che gli uomini avevano dovuto originariamente abitare l'altopiano della [[Siberia]], zone pianeggianti più elevate rispetto alla maggior parte delle montagne del mondo, in quanto furono le prime ad essersi raffreddate, e quindi le prime terre abitabili».<ref>Bailly, ''Lettres sur l'origine des sciences'', 266.</ref>
Spiegando che il «fuoco centrale» al centro della terra conservava calore sufficiente sul pianeta per renderlo abitabile anche in inverno, Bailly citò l'ipotesi di Buffon secondo cui la Terra fosse inizialmente un globo «riscaldato a incandescenza, che poi si è raffreddato, come risultato della sua grande massa, molto lentamente» nel corso di numerosi secoli in moda da «discendere dallo stato d'incandescenza fino ad una temperatura abitabile». Ovviamente questo processo di raffreddamento, per Bailly sarebbe continuato e quindi la Terra sarebbe stata destinata «ad evolversi, dalla temperatura di cui godiamo oggi, fino alla cessazione del calore, ovvero allo stato di ghiaccio e di morte, che dovrà essere la fine di ogni cosa».<ref>''Ibid.'', 270, 308.</ref>
Osservando che «vi è quindi una causa costante che, nel lungo periodo, ha prodotto questi cambiamenti» Bailly suggerì che la dimora originaria del genere umano si trovava molto a nord, all'interno del [[circolo polare artico]], che, poiché la Terra si era gradualmente raffreddata, fu la prima regione del mondo a diventare abitabil. Però l'uomo in seguito dovette fuggire da questa culla originaria dell'umanità quando questa, a causa del raffreddamento, fu ricoperta da un muro di ghiaccio. Come il paradiso biblico, questo Eden artico diventava inaccessibile: «La natura l'ha bloccato. Il mare lì è solido come lo sono i nostri fiumi durante un inverno rigido; una cintura di ghiaccio avvolge il polo, e questo antico mondo è morto per il freddo».<ref>Bailly, ''Lettres sur l'Atlantide'', 251, 435.</ref>
Il modello di Buffon di un cambiamento climatico globale, offriva a Bailly una spiegazione plausibile per l'ascesa macro-storica e la successiva scomparsa di una civiltà primordiale nel lontano nord. Chiamando la [[Tartaria]] come «la culla di tutti i popoli, il "palco" in cui sono state interpretate grandi scene antiche» Bailly dichiarò che: «Se anche è stata devastata dalle guerre, se anche la costituzione della sua aria è cambiata, se anche i suoi abitanti l'hanno ormai quasi abbandonata per paesi più ricchi e desiderabili, non dobbiamo comunque essere ingiusti, cerchiamo di non avere l'ingratitudine e l'orgoglio dei ''parvenus'', e nella nostra opulenza, dobbiamo comunque ricordare la nostra origine».<ref>''Ibid.'', 273.</ref>
Bailly concluse con un appello a Voltaire, «Mi permetto di pregarla, signore, a credere nel raffreddamento della terra, come lei ha creduto nell'attrazione di Newton. Lei è in Francia un apostolo di questa grande verità; offro a lei un'altra verità che merita lo stesso omaggio».<ref>''Ibid.'', 440.</ref>
===Il metodo di Bailly===
(14) L'eclettica metodologia di Bailly si basava non solo sulla mitologia, sulla geologia, e sulla teoria del clima, ma faceva anche uso della [[filologia]]. Ciò non è affatto sorprendente, in quanto l'etimologia era centrale alla moderna "geografia sacra", che cercava di ricavare le origini dei popoli contemporanei progenitori dalla [[Bibbia]], mentre, nel [[XIX secolo]], una molto più rigorosa scienza della filologia sarebbe diventata centrale per la ricostruzione degli alberi genealogici delle civiltà mondiali.<ref>Maurice Olender, ''The Languages of Paradise: Race, Religion, and Philology in the Nineteenth Century''</ref>
Bailly stesso non era un linguista (infatti, la sua limitata padronanza delle lingue classiche fu citata da coloro che si opposero alla sua entrata nell'[[Académie des inscriptions et belles lettres]]<ref>Smith, ''Jean-Sylvain Bailly: Astronmer, Mystic, Revolutionary'' 497</ref>), ma in una delle sue prime opere, l′''[[Elogio di Leibniz (Bailly)|Éloge de Leibniz]]'', composto un decennio prima per l'[[Accademia di Berlino]], Bailly aveva lodato il filosofo tedesco per aver riconosciuto l'importanza dello studio comparativo del linguaggio nella ricostruzione della preistoria dei popoli, notando che proponeva «di scavare dalle stesse lingue dei popoli la tanto ricercata conoscenza delle proprie origini e i legami di parentela con gli altri popoli».<ref>Bailly, ''Discours et mémoires'' (Parigi, 1790), 181–235, 197</ref>
Bailly ritornò su questo tema nella sua corrispondenza con Voltaire, scrivendo: «La struttura del linguaggio riflette l'accento del clima. [...] Le lingue, se ben comprese e ben studiate, possono quindi rivelare l'origine dei popoli, la loro parentela, le terre che un tempo abitavano, il livello di conoscenza che essi hanno raggiunto e il grado di maturità del loro spirito».<ref>Bailly,''Lettres sur l'Atlantide de Platon'', 293.</ref>
In risposta all'obiezione di [[Voltaire]] che nessuna solida evidenza storica aveva dimostrato l'esistenza di questa civiltà settentrionale primordiale, Bailly insistette: «In realtà è rimasto un bel monumento a questi educatori stranieri [...] è il sanscrito, è questa lingua dotta, abbandonata da coloro che la parlavano a persone che ormai non la capiscono più. [...] Quale più grande prova può essere data ad un filosofo come te, signore? Una lingua morta presuppone un popolo distrutto, questa è una verità inconfutabile».<ref>''Ibid.'', 17, 19.</ref>
Bailly paragonò la conservazione del sanscrito tra l'élite [[Brahmani|Brahmanica]] con l'uso continuato del latino tra gli eruditi francesi, e suggerì che, proprio come i francesi erano stati originariamente civilizzati dai Romani, questa evidenza linguistica dimostrava che gli Indiani in passato sono stati civilizzati da un popolo straniero che parlava il [[sanscrito]].<ref>Bailly, ''Lettres sur l'origine des sciences'', 85.</ref>
Anche se Bailly non sapeva né poteva leggere il sanscrito, né qualsiasi altra lingua asiatica antica o moderna, egli anticipò il ruolo che la filologia avrebbe giocato nella ricostruzione delle rotte migratorie e nella costruzione del mito ariano nei decenni successivi.
Egli ha poi discusso gli sforzi storico-linguistici di Leibniz, de Brosses, e Court de Gebelin, notando con approvazione la classificazione di Leibniz in lingue del nord come "Iafetiche" (dopo che il figlio di Noè, i cui discendenti si credeva che avessero colonizzato l'Europa), e in quelle del sud come "Aramee", una divisione che Bailly associava ai due lati del [[Caucaso]].<ref>Bailly, ''Lettres sur l'Atlantide de Platon'', 302.</ref> Come vedremo, i filologi e filosofi successivi avrebbero costruito una nuova scienza dell'uomo su questa distinzione linguistica, che descrive il primo gruppo indo-tedesco, [[indoeuropeo]] o [[ariano]] e il secondo come semitico.<ref>Poliakov, ''The Aryan Myth'', 193.</ref>
==Pareri e critiche contemporanee a Bailly==
Il lavoro di Bailly fu applaudito da alcuni dei suoi contemporanei. Il filosofo tedesco [[Johann Gottfried Herder]], ad esempio, parlò con approvazione delle «ipotesi audaci di Bailly», ed espresse la speranza che queste ricerche avrebbero offerto nuove intuizioni sulla remota preistoria remota dell'umanità.<ref>Johann Gottfried Herder, ''General Reflections on the History of the Asian States'', tradotto da Ernest Menze in ''Herder, On World History'' (London, 1996), 245.</ref>
Il periodico ''Correspondance littéraire'' offrì una vaga, ma generalmente favorevole, valutazione dei volumi di Bailly, concludendo che: «Il signor Bailly porta i suoi lettori in un tour globale; li porta a viaggiare [...] attraverso tutti i deserti dello spazio e del tempo, nella speranza di scoprire alcuni resti, qualche ricordo del popolo e della terra di Atlantide, ed apre questo lungo percorso con tante interessanti ricerche ed osservazioni ingegnose che rendono piacevole seguirlo».<ref>Review of Bailly, ''Lettres sur l’Atlantide de Platon, Correspondance littéraire'', November 1778, 114–15.</ref> [[Friedrich Melchior Grimm]], che curava la pubblicazione della ''Correspondance littéraire'', inviò addirittura una copia dell′''Histoire de l'Astronomie ancienne'' di Bailly a [[Caterina II di Russia]], che fu così soddisfatta dall'ipotesi dell'astronomo secondo cui le arti e le scienze sarebbero potute essere nate in [[Siberia]] da inviargli una scatola di gioielli come regalo.<ref>Smith, ''Jean-Sylvain Bailly: Astronomer, Mystic, Revolutionary (1736-1793)''; 460.</ref>
Mentre l'imperatrice di Russia era lusingata all'idea che la prima civiltà mondiale forse provenisse dai suoi domini, alcuni dei compatrioti francesi di Bailly si scandalizzarono per il fatto che la sua teoria non riconoscesse alcun contributo ai propri antenati, i [[Galli]]. L'abate [[Nicolas Baudeau]] sostenne nella sua ''Mémoire à consulter pour les anciens Gaulois'' che in realtà furono gli antichi Galli, antenati dei francesi, i veri pionieri dell'astronomia, citando l'affermazione di Bailly secondo cui la scienza si sviluppò intorno al quarantanovesimo parallelo di latitudine. Bailly respinse le esaltazioni patriottiche di Baudeau, pur riconoscendo che «anche i nostri buoni Galli discendono dalla stessa patria comune come tutti gli altri popoli».<ref>Bailly, ''Lettres sur l'Atlantide de Platon'', 326–7, 332.</ref>
L'ipotesi di Bailly trovò un paio di difensori coraggiosi in [[Francia]], in particolare tra i circoli esoterici e illuministi in cui lui stesso si dilettava. Un ''philosophe'' minore, Jean-Baptiste Delisle di Sales, successivamente suo biografo, riecheggiò molte delle teorie che Bailly sosteneva sulle origini della civiltà nella sua opera a più volumi ''Histoire philosophique du monde primitif'', in cui dichiarava che la civiltà originaria del genere umano fosse localizzata nel [[Caucaso]], ma che si era successivamente spostata per le invasioni barbariche e le sue tracce si erano cancellate a causa del raffreddamento della Terra. Un'altra figura oscura, il mistico [[Antoine Fabre d'Olivet]], in seguito sviluppò lo stesso tema nell′opera ''Histoire philosophique du genre humain''. Fabre d'Olivet prese in prestito varie idee sia da Baudeau che da Bailly, parlando nella sua opera della presunta conquista [[ariana]] dell'India ed identificando il suo protagonista, Rama, come un druido celtico espulso dalla sua terra ancestrale per aver respinto la tradizione dei sacrifici umani. Fabre d'Olivet diede una colorazione fortemente razziale alla sua preistoria, narrandola come lotta per il dominio globale tra le diverse razze umane, ciascuna associata ad un continente diverso e con origini separate; nell'opera inoltre la conquista da parte dei (bianchi) Ariani dei (neri) Indiani viene considerata il primo punto di svolta nella storia dell'umanità.<ref>David Allen Harvey, ''Beyond Enlightenment: Occultism and Politics in Modern France'' (De Kalb, IL, 2005).</ref>
I colleghi scienziati di Bailly, ammiratori del suo lavoro sulla storia dell'astronomia, che aveva basi empiriche un po' più solide, si divisero per quanto riguarda invece le sue speculazioni più audaci sulla preistoria. Uno dei suoi più ferventi sostenitori, almeno all'inizio, fu, ad esempio, il suo protettore [[Georges-Louis Leclerc de Buffon|Buffon]].
Però Bailly ricevette comunque da più parti numerose critiche, sia dal mondo accademico (ad esempio da [[Jean Baptiste Le Rond d'Alembert|d'Alembert]] o [[Nicolas de Condorcet|Condorcet]]), sia dall'ambiente clericale (l'[[Thomas-Marie Royou|abate Royou]]) sia da vari orientalisti ([[William Jones (filologo)|William Jones]] e [[Joseph de Guignes]]).
Come risultato di tali critiche, Bailly fece, almeno parzialmente, marcia indietro, almeno dalle sue affermazioni più avventurose, nei suoi scritti successivi. Nel suo ''Traité de l’astronomie indienne et orientale'' (pubblicato nel [[1787]]), Bailly continuò ad insistere sul fatto che i [[brahmani]] che compilarono le antiche [[carta celeste|tavole astronomiche]] [[India|indiane]] fossero in realtà nuovi arrivati che migrarono in India da una patria più a nord (che adesso lui situava nelle vicinanze del [[Tibet]]), ma caddero nel silenzio tutti i riferimenti espliciti a Atlantide.<ref>Jean-Sylvain Bailly, ''Traité de l’astronomie indienne et orientale'' (Parigi, 1787).</ref>
Lo stesso Delisle di Sales riferì che la teoria di Bailly generò un «entusiasmo effimero», ma fu presto dimenticata perché «il viaggio del nuovo Montesquieu [Bailly] verso Atlantide a [[Spitzbergen]] non aveva maggiore autorità del viaggio verso la luna di [[Cyrano de Bergerac]]».<ref>Delisle de Sales, "Vie littéraire et politique de Bailly", 24.</ref>
===I pareri di Buffon, d'Alembert e Condorcet===
Uno dei più favorevoli fu il suo protettore [[Georges-Louis Leclerc de Buffon|Buffon]], collega nell'[[Académie des Sciences]], che citò i primi lavori di Bailly, le ''Histoires'' sulla storia dell'astronomia e della scienza nel suo lavoro ''Des époques de la nature'' pubblicato nel [[1778]]. In questo lavoro, Buffon concordava con Bailly che la «civiltà primordiale» del genere umano doveva essere esistita sulle alte montagne e sugli gli altipiani dell'[[Asia centrale]], scrivendo «è dunque nelle regioni settentrionali dell'Asia che la radice della conoscenza umana è sorta; è su questo tronco dell'albero della scienza che il trono del suo potere è stato sollevato». La conoscenza scientifica non poteva che emergere, proseguiva Buffon, tra «uomini attivi in un clima felice, sotto un cielo chiaro da osservare e su un terreno fertile da coltivare». Sostenne inoltre che, quando si raffreddò la Terra e le acque del diluvio si abbassarono, queste condizioni favorevoli emersero prima «nel mezzo dell'Asia, tra il 40° e il 50° grado di latitudine [...] in questa terra più elevata, più solida rispetto alle altre [...] ad oltre cinquecento leghe dagli oceani». Questa regione, ha concluso, ha visto l'emergere «del primo popolo degno di questo nome, [...] creatore delle arti, delle scienze, e di tutta la conoscenza utile».<ref>Georges-Louis Leclerc, comte de Buffon, ''Des époques de la nature'' (1778), in ''Chefs d’oeuvres de Buffon'' (Paris, 1864), 507–8.</ref> Buffon non approvò, però, tutte le affermazioni di Bailly, perché egli affermava, diversamente da Bailly, che l'Atlantide di cui narravano gli antichi non era altro che un continente perduto nell'Atlantico il quale, un tempo, univa l'Europa e l'America, rendendo possibile la migrazione sia degli uomini che degli animali da un continente all'altro.<ref>''Ibid.'', 477.</ref>
Tuttavia, Buffon elogiò l′''Histoire de l'astronomie ancienne'' di Bailly come esempio di «furbizia di intuizione e profondità di erudizione», e più volte sponsorizzò l'astronomo come candidato per l'ammissione al [[Académie française]]. A questa nomina pose il veto l'insigne matematico [[Jean Baptiste Le Rond d'Alembert]], grande nemico di Buffon e Bailly, che scrisse a Voltaire che «il sogno di Bailly circa un antico popolo che ci avrebbe insegnato tutto tranne il proprio nome e la propria esistenza, mi sembra una delle cose più vuote che l'uomo abbia mai sognato».<ref>Kelly, ''Victims, Authority, and Terror'', 163</ref> Bailly fu finalmente ammesso all'Accademia francese nel 1783, un anno dopo la morte di d'Alembert.
Nel suo discorso in occasione della ammissione di Bailly all'Accademia, il marchese [[Nicolas de Condorcet]], lacchè di d'Alembert, altro grande avversario di Bailly all'[[Accademia francese delle scienze]], condannò le speculazioni preistoriche dell'astronomo attraverso un debole elogio, che mascherava la sua disapprovazione. Ad esempio paragonando lo stile elegante di Bailly ai «romanzi e alle opere teatrali» gli disse satiricamente: «Se mai il suo sistema incontrerà il destino di tante altre opinioni, i nomi e il genio dei cui autori non sono stati sufficienti a garantirne la conservazione, il suo lavoro sarà più fortunato e i posteri vi perdoneranno il vostro popolo iperboreo, come si sono perdonati gli atomi a [[Lucrezio]] e come si è perdonata la teoria dei vortici all'autore dell′''Entretiens sur la pluralité des mondes'' [ovvero [[Bernard le Bovier de Fontenelle|Fontenelle]]]» (all'epoca la [[atomo|teoria atomica]] di [[Democrito]] e [[Lucrezio]] non era accettata dalla comunità scientifica e fu risollevata solo nel [[XIX secolo]] da [[John Dalton]]).<ref>Condorcet, ''Discours prononcés dans l’Académie française le jeudi 26 f´evrier 1784'', à la réception de M. Bailly'' (Parigi, 1784), 18.</ref>
Condorcet respise in seguito le ''Lettres sur l'Atlantide'', come lo stesso Bailly a volte le aveva descritte, come un «''roman philosophique''» (unromanzo filosofico).
===Il boicottaggio clericale: la disputa con Royou===
I classicisti e i commentatori clericali furono estremamente negativi nelle loro valutazioni sulle speculazioni preistoriche di Bailly. Questa opposizione non fu sorprendente, in quanto, come osservava lo storico [[Pierre Vidal-Naquet]], l'Atlantide di Bailly «svolse un duplice ruolo: era sia un sostituto per la Giudea che una vera e propria controparte del Eden biblico».<ref>Vidal-Naquet, ''The Atlantis Story'', 86.</ref> Allo stesso modo, la storica Chantal Grell scrive che nel «sistema deista di Bailly» gli Atlantidei «andavano ad occupare il posto riservato in precedenza al popolo ebraico» come «unico attore della storia primitiva».<ref>Chantal Grell, ''L’histoire entre ´erudition et philosophie'' (Parigi, 1993), 109.</ref>
Un critico cattolico lamentò che nel lavoro di Bailly «al popolo ebraico è totalmente negata la prerogativa di aver illuminato le nazioni, come quasi tutti gli studiosi rispettabili hanno finora creduto».<ref>Vidal-Naquet, ''The Atlantis Story'', 86.</ref>
Inoltre, un anonimo recensore delle ''Lettres sur l'Atlantide de Platon'' nel ''[[Journal des sçavans]]'' evidenziò le numerose discrepanze tra la rappresentazione di Atlantide fatta da Bailly e quella presentata nel ''[[Timeo (dialogo)|Timeo]]'' e nel ''[[Crizia (dialogo)|Crizia]]'' di [[Platone]], attirando l'attenzione sulla dipendenza delle ipotesi dell'astronomo francese dal tanto deriso ''Atlantica'' di [[Olaus Rudbeck]]. Egli suggerì che la mitologia classica si sarebbe compresa meglio se letta allegoricamente, piuttosto che come una rappresentazione distorta di eventi preistorici reali. Il recensore concluse che Bailly «avrebbe fatto meglio ad occupare il suo tempo a far progredire l'astronomia [...] piuttosto che in ricerche laboriose sulle sue oscure origini».<ref>''[[Journal des sçavans]]'', gennaio 1779, 23.</ref>
Una revisione ampia e graffiante delle ''Lettres sur l'Atlantide de Platon'' apparso nella ''Année littéraire'' nel [[1779]], scritta dall'abate [[Thomas-Marie Royou]], cognato di Élie Fréron (nemesi di lunga data di Voltaire), e successore dello stesso Fréron come redattore della rivista. Criticando Bailly per aver adottato un «''esprit de système''» (ovvero uno "spirito di sistema") e per aver «trasformato la storia in un romanzo» Royou dichiarò che nel lavoro di Bailly «la chimera ha detronizzato realtà, e il paradosso è sorto sopra le macerie della verità».<ref name="royou">Thomas-Marie Royou, ''Review of Bailly, Lettres sur l’Atlantide de Platon'', negli ''Année littéraire'', 1 (1779), 217–46, 217–20, 225.</ref> Lamentò inoltre che: «Bailly, che con la sua conoscenza e la sua intelligenza era stato precedentemente in grado di estendere i limiti della scienza [...] ha preferito la frivola gloria di ricercare accuratamente le origini dell'astronomia alla più solida gloria di estendere il progresso della scienza attraverso opere utili. [...] Invece di aggiungere i propri ''lumières'' a quelli del suo secolo, è corso a perdersi nel buio impenetrabile della più remota antichità».<ref name="royou" />
Il risultato di questi sforzi, come scrisse Royou, fu «un immenso ma fragile edificio, un'opera di pura immaginazione, al punto che anche il soffio leggero di una critica potrebbe distruggerlo da cima a fondo».<ref name="royou" /> Anche se «fino ad ora tutti gli studiosi hanno concordato nel considerare gli abitanti dei paesi del sud come gli inventori delle arti e delle scienze» Bailly «sospetta l'esistenza di un popolo antico, che molto prima del [[diluvio universale]], avrebbe coltivato e fatto avanzare la scienza dell'astronomia», anche se «non conosceva ancora il nome di questo popolo famoso, né i luoghi che abitavano, né l'epoca che ha visto la sua nascita». Royou quindi colpevolizzava Bailly per «aver trasportato a [[Spitzbergen]] la culla del mondo, delle scienze e delle arti», anche se «tutti gli storici, tutti i geografi antichi e moderni collocano l'isola di Atlantide nell'oceano omonimo, di fronte alle [[colonne d'Ercole]], che non sono altro che (le montagne che fiancheggiano) lo stretto di Gibilterra».<ref name="royou" />
Royou incolpava Bailly per errori sia d'erudizione classica sia di logica scientifica, notando che gli antichi sostenevano che gli Atlantidei non adorassero il sole, ma piuttosto lo evitassero e odiassero, in quanto vivevano in un clima molto caldo, mentre gli stessi autori riferivano che la dimora degli [[Sciti]] era quasi deserta a causa del freddo estremo del suo clima. L'abate inoltre osservava che la storia di Bailly distruggeva la cronologia sacra inventando un popolo preesistente agli indiani e ai cinesi, e ha criticato Bailly per aver sostituito la Bibbia con «tradizioni orientali, [...] la più assurda collezione di favole [...] che l'immaginazione dell'uomo abbia mai creato».<ref>Royou, ''Review of Bailly, Lettres sur l’Atlantide de Platon'', negli ''Année littéraire'', 2
(1779), 39–72, 55–6, 59.</ref>
La denuncia di Royou dell'ipotesi Atlantidea di Bailly diede luogo a uno scandalo che, in ultima analisi, attirò i censori del Vecchio Regime e l'[[arcivescovo di Parigi]]. Lo scrittore Louis Petit de Bachaumont (1690–1771) osservò che «l'astronomo affermava di essere molto religioso; fece appello al signor [[guardasigilli]] contro un'accusa così grave».<ref>Edwin Burrows Smith, ''Jean-Sylvain Bailly: Astronomer, Mystic, Revolutionary (1736-1793)'' 477.</ref> La dichiarazione di ortodossia religiosa fatta da Bailly non fu in verità molto convincente, e del resto lo storico George Armstrong Kelly lo descrive come «un deista senza una religione personale», mentre un ammiratore a lui contemporaneo, Delisle de Sales, osservò che Bailly «voleva essere un ''philosophe'' nelle sue opinioni, ma non voleva sopportare il timbro».<ref>Kelly, ''Victims, Authority, and Terror'', 153.</ref><ref>Jean-Baptiste Delisle de Sales, “Vie littéraire et politique de Bailly" in ''Sylvain Bailly, maire de Paris et membre de ses trois académies: Homage à sa mémoire'' (Parigi, 1809), 13–104, 24.</ref> Allo stesso modo, lo storico Edwin Burrows Smith nota che Bailly in quella circostanza fu solo un uomo prudente che preferiva evitare le polemiche che invece alcuni dei suoi contemporanei più audaci sembravano voler assaporare. Le dichiarazioni di buona fede fatte da Bailly, tuttavia, soddisfarono i censori, che non solo non vietarono le ''Lettres sur l'Atlantide'', ma costrinsero anche l'abate Royou a rilasciare delle scuse, anche se timide, a Bailly.<ref>On the dispute between Bailly and Royou and its resolution, see Smith, “Jean-Sylvain Bailly,” 477–8.</ref>
Ironia della sorte, fu l'approvazione di Bailly alla teoria del cambiamento climatico globale, forse «una delle poche solide travi nel castello di carte che Bailly aveva costruito» secondo lo storico David Harvey.<ref>David Allen Harvey, ''The lost Caucasian civilization: Jean-Sylvain Bailly and the roots of the Arian myth'', p. 21.</ref> Fu questo il punto più attaccare dai suoi contemporanei.
===Critiche degli orientalisti===
Lo studioso orientalista [[Joseph de Guignes]] criticò Bailly per aver situato la sua civiltà «in Siberia, vicino Selinginskoi e vicino al lago Baikal, una regione dove la natura sembra muta e dove gli abitanti erano anticamente immersi nella più grande barbarie».<ref>Urs App, ''The Birth of Orientalism'', 239.</ref>
L'orientalista e filologo britannico [[William Jones (filologo)|William Jones]], le cui ricerche in sanscrito avrebbero plasmato il successivo sviluppo del mito ariano, criticò Bailly per aver collocato la culla dell'umanità «non in una qualsiasi normale condizione climatica che il senso comune considererebbe come sede di delizie, ma al di là della [[Fiume Ob|foce del Ob]], nel mare ghiacciato, in una regione eguagliata solo da quella in cui la fervida immaginazione di Dante lo portò a posizionare i peggiori criminali dopo la morte».<ref>William Jones, ''Dissertations and Miscellaneous Pieces Relating to the History and Antiquities, the Arts, Sciences, and Literature of Asia'' (Dublino, 1793), 108–9.</ref>
== ==
Come si è visto, sia Bailly che Voltaire avevano basato le loro argomentazioni riguardanti l'[[antica India]] su informazioni indirette provenienti da fonti non affidabili. La storica Dorothy Figueira ha osservato che la prima articolazione del mito ariano predatava le prove linguistiche in seguito mobilizzate per sostenerlo, scrivendo «La "scoperta" dei [[Veda]], la loro analisi "scientifica", e la loro presenza in Occidente non avrebbe alterato in modo significativo il non-specialistico ritratto degli ariani. Infatti, sembra siano stati gli stessi studiosi orientalisti ad aver fornito la documentazione necessaria per sostenere il l'apparato concettuale dell'Illuminismo».<ref>Figueira, ''Aryans, Jews, Brahmins'', 25–6.</ref> Figueira scrive inoltre che «i pensatori illuministi idealizzarono il passato [[Veda|Vedico]], nel tentativo di trovare un'utopia al di fuori dell'Europa e alternativa alla tradizione biblica» creando una «nuova mitologia del passato».<ref>''Ibid.'', 47, 49.</ref> Lo studioso David Harvey commenta che: «Il dialogo di Bailly con Voltaire fu determinante in questo sforzo di inquadrare una nuova macro-narrativa della preistoria».<ref>David Allen Harvey, ''The lost Caucasian civilization: Jean-Sylvain Bailly and the roots of the Arian myth'', p. 22</ref>
Negli ultimi decenni del [[XVIII secolo]], degli studiosi inglesi nella colonia del [[Bengala]] iniziarono la ricostruzione scientifica dell'antica civiltà indiana che lo studioso Raymond Schwab ha etichettato come «Rinascimento Orientale». Uno tra i più famosi e talentuosi tra questi primi orientalisti, [[William Jones (filologo)|William Jones]], che aveva già criticato negativamente le opere di Bailly, avrebbe involontariamente dato nuova vita alla teoria dei popoli primordiali e alle migrazioni preistoriche dello stesso Bailly. Linguista molto più bravo di Bailly e dipendente della [[Compagnia Inglese delle Indie orientali]], con accesso diretto ai testi sanscriti e ai [[Paṇḍit]] indù, Jones fece delle scoperte linguistiche che trasformarono la comprensione europea della preistoria nel secolo successivo. Jones presentò questa scoperta nel suo saggio del [[1786]] ''On the Indus'', dove scrisse: «La lingua sanscrita, qualunque sia la sua antichità, ha una struttura meravigliosa, più perfetta di quella greca, più copiosa rispetto al latino, e più squisitamente raffinata di entrambe, pur tenendo con ciascuna di esse un'affinità molto forte [...] che potrebbe essere stata prodotta da un incontro; è così forte infatti, che nessun filologo potrebbe esaminarle tutte e tre senza credere che derivino da qualche fonte comune».<ref>William Jones, ''Dissertations and Miscellaneous Pieces'', 77–8.</ref>
L'archeologo indiano contemporaneo B. B. Lal ha notato che, sebbene le osservazioni di Jones sono stati inizialmente confinate al campo della linguistica, hanno ispirato: «Una teoria sull'esistenza di una "razza", che era stata il vettore di queste lingue verso ovest, in Europa e verso est in India. E si pensò che una qualche zona in [[Asia centrale]] fosse la "casa originale" di questi indoeuropei, anche se molti studiosi preferivano localizzarli in Russia o nel Nord Europa».<ref>B. B. Lal, ''Aryan Invasion of India: Perpetuation of a Myth'', in Edwin Bryant e Laurie Patton, eds., ''The Indo-Aryan Controversy: Evidence and Inference in Indian History'' (New York, 2005), 50–74, 50</ref> Jim Schaffer e Diane Lichtenstein osservano che: «Forse nessuna altra ipotesi degli studiosi del [[XVIII secolo]] [...] ha continuato ad influenzare in modo così forte diverse discipline come la linguistica, la storia, la biologia, l'etnologia e la scienza politica» e argomentano che: «l'eredità degli studiosi occidentali post-illuministi riguardante la storia e la preistoria dell'[[Asia meridionale]] è stata ripetuta così spesso da diventare un dogma».<ref>Jim Schaffer e Diane Lichtenstein, ''South Asian Archaeology and the Myth of Indo-Aryan Invasions'', in Bryant e Patton, ''The Indo-Aryan Controversy'', 75–104, 75–76.</ref>
Ironia della sorte, Jones, il cui lavoro diede apparente supporto scientifico alla preistoria speculativa di Bailly, era egli stesso abbastanza scettico delle audaci affermazioni di Bailly. Anche se elogiava Bailly come un «meraviglioso uomo pieno d'ingegno e uno scrittore molto vivace», Jones fu, come già detto, ben lontano dall'essere convinto dell'esistenza di una civiltà perduta nell'estremo nord, o della trasmissione della civiltà da nord a sud. Anche se aveva accettato la questione del clima, ed infatti era d'accordo con Bailly sul graduale raffreddamento della Terra, Jones sosteneva che la barbarie delle popolazioni dei [[Tartari]] dell'[[Asia centrale]] rendeva di fatto insostenibile la teoria di una trasmissione da nord a sud della cultura. Jones scrisse che l'ipotesi di Bailly ignorava il fatto di «una differenza immemorabile e totale tra i selvaggi delle montagne, come infatti gli antichi cinesi chiamavano giustamente
Tartari, e gli studiosi, placidi e contemplativi abitanti delle pianure indiane». Jones respingeva anche l'argomento di Bailly secondo cui il sanscrito, «di cui egli dà un resoconto più che erroneo», «fu la prova dell'esistenza di un'antica civiltà perduta originaria del nord».<ref>Jones, ''Dissertations and Miscellaneous Pieces'', 116–17.</ref>
Lo storico Thomas Trautmann osserva che Jones approcciò lo studio dell'antica [[India]] da ipotesi epistemologiche molto diverse da quelle dei ''philosophes'' francesi [[Voltaire]] e [[Bailly]]. Mentre Voltaire era attratto dall'India per il potenziale che l'antica storia indiana aveva di confutare il racconto della Genesi e mentre Bailly aveva incorniciato la sua Atlantide Nordica alternativa all'Eden biblico, Jones, come la maggior parte dei suoi connazionali britannici fino alla metà del [[XIX secolo]], continuò ad operare all'interno di quello che lo stesso Trautmann chiama «etnologia mosaica», che cercava di conciliare la disciplina nascente dell'[[orientalismo]] con le [[Sacre Scritture]] tracciando la discesa di tutti i popoli del mondo antico dai tre figli di [[Noè]]. Trautmann sostiene che l'interpretazione prevalente di Jones, come pioniere della linguistica comparata e del "mito ariano", oscura il progetto di altri che, prima di lui, «volevano formare una difesa razionale della Bibbia dai materiali raccolti dagli studiosi orientalisti».<ref></ref> Per questo motivo, Jones non poteva accettare l'estesa linea temporale di Bailly per la civiltà umana, né il suo rifiuto dell'Eden a favore di Atlantide.<ref>Trautmann, ''Aryans and British India'', 42.</ref>
La leggenda di una preistorica civiltà, di lingua sanscrita, origine dell'umanità, suggerita dai lavori di Bailly e Jones, fu resa popolare nei primi anni del [[XIX secolo]] dal filosofo tedesco [[Friedrich Schlegel]]. Schlegel, che aveva studiato il [[sanscrito]] a Parigi con l'orientalista britannico [[Alexander Hamilton]] nel periodo tra [[1803]] e il [[1804]], comparando la scoperta degli antichi testi [[Veda]] con la rinascita della cultura classica nel [[XV secolo]] in Italia, sostenendo che questo «Rinascimento Orientale [...] non avrebbe avuto minore influenza sulla sfera dell'intelligenza europea [rispetto a quello italano]».<ref>Friedrich Schlegel, “On the Language and Philosophy of the Indians,” trad. E. J. Millington, in ''The Aesthetic and Miscellaneous Works of Friedrich von Schlegel'' (London: George Bell, 1875), 425–526, 427.</ref> Schlegel affermò che il sanscrito non solo era legato al greco e latino, come Jones aveva sostenuto, ma che fosse «di maggiore antichità» rispetto ad entrambi, e confrontò la diffusione delle lingue derivate dal sanscrito in Europa e in Asia alle lingue romanze dal Mediterraneo al contemporaneo nuovo mondo.<ref>Schlegel, ''On the Language and Philosophy of the Indians'', 456, 506.</ref>
Perhaps most importantly, it was Schlegel who popularized the term “Aryan” to
refer to this root civilization, linking it etymologically to the modern German
word Ehre, or honor.102
From this linkage of Aryans and Ehre (which is linguistically correct if
historically misleading), it was but a small step to imagine a wandering,
conquering Herrenvolk before the dawn of time, whose unique genius gave
rise to all of the advanced civilizations of antiquity. Suzanne Marchand has
observed that Friedrich Schlegel’s celebration of the ancient “Aryans” laid “the
foundations for a sort of exclusionary philology in which the speakers of Sanskrit
and its Indo-European spin-off languages are credited with all humankind’s great
achievements.”103 Nevertheless, the emergence of the “Aryanmyth” was a gradual
process, and Marchand argues that “while language groups were coalescing and
hierarchies and lineages were being formed using fragments of linguistic and
ethnic data, we do not yet see, by the 1850s, fully racialized human histories.”104
Schlegel’s essay, in fact, concluded that the linguistic connection between Sanskrit,
Greek, and Latin proved that “the Europeans and Asiatics form only one great
family,” and the philosopher expressed his hopes that, in the light of this discovery,
“all prejudiced and narrowideaswill thus unconsciously disappear.”105 Marchand
argues, however, that by the middle decades of the nineteenth century, “lines
drawn by philologists were . . . hardening into rigid cultural stereotypes with
something like the force of biological boundaries,” and that “from the romantic
era forward, the study of Sanskrit and its related cultures and languages was
constantly, if not primarily, linked to Germanic ancestry in a way that was easily
racialized.”106 The most distinguished orientalist of the late nineteenth century,
Friedrich Max M¨uller, cautioned against such analytical slippage, writing that
“there are Aryan and Semitic languages, but it goes against all rules of logic to
speak . . . of an Aryan race, of Aryan blood, or Aryan skulls.”107 Far too often,
however, this prescient warning was ignored by scholars and polemicists seeking
“scientific” proof of European superiority.
As theAryanmyth gained currency in nineteenth-century linguistic, historical,
and philosophical theories, the noble Aryans were juxtaposed against a variety of
less exalted Others. Linguists and Orientalist scholars in colonial India pitted the
northern Aryans against the “Dravidians,” speakers of unrelated languages in the
southern part of the subcontinent. The Aryan/Dravidian divide was naturalized
into Indian discourse during the colonial era, with the Hindu traditionalist Bal
Tilak citing Europe’s Aryan myth, including Bailly’s theory of Siberian origins,
in The Arctic Home of the Vedas, while critics of Brahman authority, such as the
Dalit spokesman Ambedkar, rejected both the myth and the caste society which
it was cited to support.108 M¨uller contrasted the Aryans, whom he envisioned
as a civilized, agricultural society, with the nomadic “Turanians” of the Central
Asian steppes. However, from the early nineteenth century, once again through
the mediation of linguistics, Aryans were most often compared to the speakers
of “Semitic” languages, a term popularized by August Ludwig von Schl¨ozer
and later by Ernest Renan. The specific usage of the term “Aryan” to mean
“non-Jewish” in anti-Semitic discourse appears to have surfaced first in fin de
si`ecle Vienna, which numerous historians have identified as the birthplace of a
“sharper key” of radicalized anti-Semitism and pan-Germanic nationalism, the
tragic consequences of which are too well-known to require further elaboration
here.109
==Successive speculazioni sulle tesi di Bailly==
[[File:Bundesarchiv Bild 146-2005-0168, Alfred Rosenberg.jpg|thumb|left|upright|[[Alfred Rosenberg]]]]
L'eredità lasciata da Bailly continuò a vivere anche dopo la sua morte. La sua tesi di una "Atlantide Iperborea" era stata sonoramente respinta in un primo momento. Ad esempio [[Jules Verne]] in qualche modo voleva anche prendere in giro Bailly in ''[[20.000 leghe sotto i mari]]'' (1869), quando i suoi personaggi scoprirono la "vera" Atlantide nell'Oceano Atlantico. Ma una donna, [[Helena Blavatsky]], prese molto sul serio le idee di Bailly. Blavatsky fu una delle teorizzatrici della [[teosofia]], una dottrina mistico-filosofica, il cui credo fu precisato nel suo libro ''La dottrina segreta'' (1888). In questo lavoro ermetico, Blavatsky rispolverò la teoria di Bailly (citandolo addirittura ventidue volte<ref name="Dan Edelstein" />), e incorporò l'ipotesi di un "Atlantide Iperborea" all'interno di una storia fantastica che coinvolgeva i vari continenti e varie razze umane e semiumane. Atlantide era rappresentata come un continente polare che si estendeva dall'attuale [[Groenlandia]] fino alla [[Kamčatka]] e il suo destino si legò a quello di una razza particolarmente controversa: gli ariani, una razza superiore, seconda in ordine di tempo, costituita da giganti androgini dalle fattezze mostruose. Quando gli ariani migrarono a sud verso l'India, scaturì da loro una "sub-razza", quella dei semiti. Il mito di un "Atlantide Iperborea" fece così ingresso all'interno delle ideologie ariane ed antisemite della fine del XIX secolo.<ref name="Dan Edelstein" /><ref name="Dan2" />
La teoria di Bailly-Blavatsky trovò sostegno tra alcuni degli ideologi ariani [[Vienna|viennesi]] più fantasiosi.<ref name="NGC">{{Cita libro|titolo=The Occult Roots of Nazism: Secret Aryan Cults and Their Influence on Nazi Ideology|nome1=Nicolas|cognome1=Goodrick-Clarke|lingua=Eng|data=1985}}</ref> Furono proprio questi circoli, come la società "[[Thule (mito)|Thule]]" (che prendeva il nome della mitica capitale di Iperborea), che fecero derivare molte teorie antisemite e ariane dal lavoro mitologico di Blavatsky, e indirettamente da Bailly. I membri della società Thule, in particolare, sono stati fondamentali nell'aiutare [[Adolf Hitler]] (che probabilmente aveva letto alcuni libri dei teosofi ariani viennesi quando viveva in Austria) nel fondare il [[NSDAP]], il partito nazista. Uno di loro, [[Alfred Rosenberg]], compagno vicino a Hitler durante gli anni in cui questi stette a [[Monaco di Baviera]], aveva posto il mito di un Atlantide Iperborea al cuore di un suo voluminoso tomo dottrinale, ''[[Il mito del XX secolo|Der Mythus des 20. Jahrhunderts]]'' (''Il mito del XX secolo'') del 1930.<ref name="NGC" /> Rosenberg iniziò questo lavoro assumendo come vera la passata esistenza di Atlantide nel lontano nord, riproponendo la tesi baillyiana:
{{citazione|Tutto sommato, le antiche leggende su Atlantide possono apparire in una nuova luce. Sembra tutt'altro che impossibile che nelle zone in cui scorrono le onde dell'Atlantico e in cui fluttuano iceberg giganti, un continente fiorente sia salito una volta al di sopra delle acque e su di esso, una razza creativa abbia prodotto una cultura lungimirante e abbia inviato i suoi figli nel mondo, come marinai e guerrieri. Ma se anche questa ipotesi di Atlantide dovesse rivelarsi insostenibile, un preistorico centro culturale nordico comunque dovrebbe essere ancora supposto.| Alfred Rosenberg nel ''[[Il mito del XX secolo|Der Mythus des 20. Jahrhunderts]]''<ref name="Dan Edelstein" />|All in all, the old legends of Atlantis may appear in new light. It seems far from impossible that in areas over which the Atlantic waves roll and giant icebergs float, a flourishing continent once rose above the waters and upon it a creative race produced a far-reaching culture and sent its children out into the world as seafarers and warriors. But even if this Atlantis hypothesis should prove untenable, a prehistoric Nordic cultural center must still be assumed.|lingua=en}}
Il mito di un "centro culturale nordico" ha permesso poi a Rosenberg, a partire da questa ipotesi, di accreditare la razza ariana come artefice tutte le grandi conquiste culturali nella storia umana: in momenti diversi nel tempo (in coincidenza con le più grandi fioriture della civiltà), gli ariani discesero dalla loro madrepatria nordica per realizzare le loro prospettive di vita nei climi meridionali.<ref name="NGC" /> La "prova" della superiorità ariana così poggiava su questa situazione geografica chiave: solo se posizionati nel Circolo Polare Artico gli Ariani avrebbero potuto reclamare plausibilmente ogni responsabilità sia per le realizzazioni orientali sia per quelle occidentali.<ref name="Dan Edelstein" /><ref name="Dan2" /><ref name="NGC" />
Vi sono notevoli differenze tra Bailly e le interpretazioni di Rosenberg del mito di Atlantide Iperborea, e chiaramente non ha senso considerare Bailly precursore del nazismo. Va però detto che Bailly non fu nemmeno totalmente innocente, pur muovendosi in un'ottica tipicamente illuministica.<ref name="Dan Edelstein" /><ref name="Dan2" /> Uno dei pochi storici contemporanei ad aver analizzato la preistoria speculativa di Bailly, Dan Edelstein, ha commentato: «Senza razionalizzare con esattezza la sua teoria, Bailly ha comunque cercato di dare il merito del progresso culturale orientale, all'Europa». Costruendo l'ipotesi di un popolo nordico responsabile per i successi culturali e tecnici dell'India e dell'Oriente, secondo Edelstein Bailly «ha con ultimo fine onorato il progresso e la superiorità occidentale, pur lodando i brahamani». L'Europa e soprattutto quella illuminata, insomma, è stata - per Bailly - il vero successore di Atlantide.<ref name="Dan2" /><ref name="NGC" /> Con queste teorie, pur con tutte le successive differenze e i travisamenti, Bailly ha inconsapevolmente fornito ai movimenti nazionalisti più tardi, una potente narrazione e un valido materiale teorico che autorizzò in qualche modo un certo numero di ideologie razziste.<ref name="Dan Edelstein" /><ref name="Dan2" /><ref name="NGC" />
==L'antirazzismo di Bailly e l'inconsapevole contributo al mito ariano==
Quale fu, allora, il contributo di Bailly per il successivo emergere del [[razza ariana|mito ariano]]? Edelstein ha sostenuto che la teoria di Bailly della migrazione degli Atlantidei, dovuta alle variazioni climatiche, aveva «mobilitato il mito» di [[Atlantide]], rendendolo un «"significante fluttuante", un indicatore di superiorità culturale e di originalità che si sarebbe poi potuto apporre a qualsiasi luogo e a qualsiasi popolo con cui i migranti Atlantidei sarebbero potuti entrare in contatto». Di conseguenza, Edelstein conclude che «piuttosto che orientalizzare Atlantide, [Bailly] ha Atlantizzato l'Oriente», rendendo «la gente bianca del nord Europa, gli [[Iperborei]], responsabili per le conquiste culturali e gli splendori dell'Oriente».
Non è d'accordo lo storico David Harvey secondo cui, sebbene Edelstein sia nel giusto nell'abbozzare una genealogia che colleghi Bailly alle successive speculazioni storico-razziali di Madame Blavatsky e degli ideologi razziali del [[nazionalsocialismo]], «questa geneologia» porterebbe «a leggere nelle opere di Bailly un determinismo biologico razzista che in realtà è assente nel suo lavoro». Mai nelle ''Lettres sur l’Atlantide'' Bailly infatti identifica gli [[Atlantide|Atlantidei]] come una razza bianca; da nessuna parte nelle sue opere egli discute il colore della pelle, né ha la minima intenzione di dividere l'umanità in razze distinte con caratteristiche biologiche fissate. Harvey conclude che: «Piuttosto che le rigide gerarchie razziali del XIX secolo, l'opera di Bailly vuole riecheggiare con forza solo il determinismo climatico di [[Montesquieu]] e Buffon».
About the time of Bailly's retirement to Chaillot, we can detect a change in his thinking which was, for a time, to widen the gap between him and the philo- sophes. Bailly seems always to have needed a guide and mentor-first Lacaille, then Clairaut, d'Alembert, and Buffon. The first two directed his efforts in the fields
[[Marvin Harris]] ha notato che il determinismo climatico è rimasto il paradigma dominante nelle teorie illuministe sulla differenza umana, sostenendo che «il razzismo scientifico è rimasto un punto di vista di minoranza fino a dopo la rivoluzione francese».<ref>Marvin Harris, ''The Rise of Anthropological Theory''(Lanham, MD, 2001), 82.</ref> Pertanto il racconto di Bailly sugli antichi Atlantidei, in contrasto con la successiva elaborazione del «mito ariano», non voleva "razzializzare" i diversi popoli preistorici di cui discute nella sua storia speculativa, ma attribuisce loro quei caratteri dovuti a quello che Montesquieu chiamava «l'impero del clima». In altre parole le differenze sociali, fisiche e mentali tra le varie popolazioni, secondo Bailly, piuttosto che dipendere da differenze razziali non meglio specificate, non erano altro che variazioni dovute alle differenti fenomenologie climatiche dei luoghi in cui vivevano.
of astronomy and mathematics; d'Alembert and Buffon
enocuraged him in the literary field. When he turned
to the popularization of astronomy, he came under the
influence of Court de Gebelin 51 whose nine volume
Monde primitif was just appearing. This work was an
attempt to reduce the complexities of civilization, its
customs, traditions, speech, etc. to a universal theme.
Court de Gebelin felt that the key to the mysteries of
nature was to be found in the history of antiquity and
that history, properly understood, might lead humanity
to a new golden age. His vision of le grand ordre
was utopian, and much of his history is inaccurate; but
in many ways Court de Gebelin was a precursor of
modern thinkers. His theory of fables as allegorical
documents foreshadows the work of modern folklorists.
Similarly his search for the primitive language which
was the source of all languages anticipated the linguistic
research of the nineteenth century.
If Bailly had acquired from his astronomical research
a conviction that truth was basically simple, he had also
learned from Leibnitz to substitute "vraisemblance"
for "la verite inaccessible." The influence of Court de
Ge'belin was to encourage this speculative bent and
cause Bailly to be branded "frere illumine" by the
more ardent philosophes. Yet the illuminism of Bailly's
work, if it can be called that, is not so far removed from
the rationalism of his detractors, but is rather symptomatic
of the deterioration of systematic doubt which
was common towards the end of the century.
==Informazioni sulla storia==
Bailly non ha bisogno di costruire una gerarchia delle razze umane perché, semplicemente, non si esprime mai sull'esistenza stessa delle razze. L'unico appunto a ciò è che per Bailly sia esistita una popolazione antichissima, di cui ormai si sono perse completamente le tracce, che aveva civilizzato sia gli antichi popoli orientali Indiani e Cinesi, sia il Mediterraneo, entrando in contatta con gli Egizi, i Fenici e i Greci e passando loro tutta la propria cultura scientifica, in qualche modo "istruendoli". Non c'è alcun dubbio per Bailly che questa antica popolazione Atlantidea fosse superiore alle altre da un punto di vista scientifico e tecnico, ma nulla lascia presagire che lo fosse anche da un punto di vista biologico né, filosoficamente, "essenziale". E soprattutto se gli altri popoli, come quelli orientali, per Bailly erano «cullati e appesantiti dalla pigrizia» oppure privi di «spirito d'inventiva» e «senza energia o movimento, incapaci quindi di produrre nuove conoscenze scientifiche, non era perché fossero effettivamente inferiori agli Atlantidei, ma solo perché l'ambiente climatico eccessivamente caldo in cui vivevano li aveva resi così. In questo senso le differenze esistevano, secondo il [[determinismo geografico]] di Bailly, solo per motivi climatici ed assolutamente non razziali.
Bailly was creating a model of history based on order, process and pattern, rather than enthusiasm for Christ's coming kingdom. His goal was the Newtonianization of history, the demonstration that historical processes followed a natural path; that astronomy could demonstrate the harmonization of human affairs with nature as a whole; and that history had one way forward - his way.<ref>Nicholas Campion, ''The New Age in the Modern West'',
2015.</ref>
==Letters sur l'Atlantide de Platon==
Nonostante ciò comunque, secondo Harvey «Edelstein ha ragione nell'osservare che il progetto di Bailly si appropriò in modo efficace delle conquiste culturali dell'antica Asia per attribuirle ad una civiltà primordiale ancora più antica, che era legata per lingua, prospettiva scientifica e dinamismo all'Europa a lui contemporanea». Anche lo storico indiano Dhruv Raina concorda con questa valutazione, scrivendo che le «ipotesi antidiluviane [di Bailly] possono essere viste retrospettivamente come un tentativo di deprivare i popoli non europei dell'invenzione della scienza».<ref>Dhruv Raina, ''Betwixt Jesuit and Enlightenment Historiography'', 273</ref>
Dopo aver descritto dettagliatamente il rapporto di [[Platone]] su [[Atlantide]] nel [[Timeo (dialogo)|Timeo]], e dopo aver considerato quanto era stato detto su questo argomento da Sancuniatone, per quanto riguardava la storia dei [[Fenici]], e [[Diodoro Siculo]], per la storia greca, Bailly procedette nella sua indagine di dimostrare che questo antico popolo fondatore delle scienze non abitava né su un'isola immersa nell'[[Oceano Atlantico]] opposta alle [[colonne d'Ercole]] (di cui le [[isole Madeira]] si supponeva fossero i resti) — come voleva la tradizione — né le [[Canarie]] e nemmeno il continente [[America]]no. Questo popolo doveva invece abitare nelle regioni brulle e ghiacciate della [[Siberia]], che in epoche remotissime dovevano essere moderatamente temperate e abbastanza fertili, mentre il caldo torrido affliggeva il resto del globo, rendendolo praticamente inabitabile. Tutto questo era previsto dalle ipotesi paleoclimatiche di [[Jean Jacques Dortous de Mairan|Mairan]] e [[Georges-Louis Leclerc de Buffon|Buffon]], secondo cui in passato il clima era globalmente più caldo a causa della maggiore "incandescenza" che la Terra doveva avere primitivamente, e che poi era diminuita nel corso del tempo causando un lento e globale raffreddamento del pianeta. Bailly accettava questa teoria che, a suo giudizio, dava una prova infallibile alle sue ipotesi.
La Siberia, secondo l'ipotesi, anticamente doveva essere ben più calda e quindi abitabile, mentre le zone equatoriali dovevano essere praticamente ardenti, inabitabili e inabitate. Perciò non poteva che ricercarsi a Nord l'origine dell'umanità e dunque delle scienze.
La teoria di Bailly sull'Atlantide nordica, dopo tutto, emerse dal suo progetto, inizialmente ben più ampio, di studiare le origini e l'antica storia dell'astronomia. Nella sua ''Histoire de l'Astronomie ancienne'', Bailly in primo luogo aveva ipotizzato l'esistenza di un popolo antidiluviano illuminato, «maestro di tutti i popoli d'Oriente, popoli che erano i depositari [di queste conoscenze], fino a che il genio dell'Europa è venuto a riprendere il filo delle idee astronomiche».<ref>Bailly, ''Histoire de l’astronomie ancienne'', 71.</ref>
Le remote [[Tatari|regioni tartariche]], o quelle [[artide|artiche]] furono di conseguenza la sede primitiva della [[scienza]], la dimora della più antica razza umana, i celebri [[Atlantide]]i che, nei secoli successivi, discendendo a sud dalle pianure della [[Scizia]], attraversarono le [[steppa|steppe]] [[Caucaso|caucasiche]] e portarono con loro nell'[[Asia meridionale]] i rudimenti delle arti e delle scienze e il culto del sole e del fuoco, che, come asseriva Bailly, poteva essersi originato soltanto in una zona dal clima freddo, e dunque nel «freddo impero della notte polare». Si capisce dunque perché Bailly individuava gli Atlandidei come la popolazione degli [[Sciti]] che abitava le zone settentrionali dell'[[Asia]]. Supporre altre possibilità, concepire ad esempio che questi culti si fossero originati in [[Persia]], in [[India]], o in altri regni orientali — dove il sole anticamente «bruciava le foglie e consumava i vegetali» e dove il sole stesso era raffigurato mentre «cavalcava un leone che nella sua furia divorava tutto ciò che gli capitava a tiro» — nell'opinione di Bailly era letteralmente «assurdo».
Le opere macro-storiche di Bailly esemplificano ciò che Karen O'Brien ha definito «narrazioni illuminate», racconti secolari che sbandieravano la scienza e il progresso sulla superstizione e il barbarismo.<ref>O’Brien, ''Narratives of Enlightenment''.</ref>
---OSIRIDE---
L'Atlantide artica di Bailly sposta l'[[Eden]] biblico come culla dell'umanità, e lo studio sistematico della natura, piuttosto che la [[Rivelazione|rivelazione divina]], diventava la fonte di ogni sapienza. La «narrazione illuminata» di Bailly, tuttavia, si fondò su una distinzione profondamente problematica tra i popoli cosiddetti attivi e quelli passivi, anche se Bailly attribuisce questa dicotomia solo alla causalità del clima piuttosto che a presunte ed intrinseche caratteristiche "razziali".
Ancora, la festività di [[Osiride]] in [[Egitto]], che durava quaranta giorni, durante i quali la divinità veniva persa e poi ritrovata, era esclusivamente appropriata — secondo Bailly — alla [[mitologia nordica]], poiché solo nei pressi della latitudine di 68° nord dove il sole era, come Osiride, perso per quaranta giorni.<ref>Bailly, ''Lettres sur l'Atlantide de Platon'', p. 105</ref>
Tuttavia gli storici sono concordi nel dire che, in ultima analisi, Bailly abbia voluto negare alle antiche civiltà dell'Asia l'onore di essere stati i primi maestri del genere umano, e diede tale titolo ad un popolo perduto preesistente che abitava molto più a nord, e che era entrato nella storia travalicando il [[Caucaso]], un luogo che molti dei suoi contemporanei e numerosi suoi successori immediatamente celebrarono come la culla della razza dei bianchi europei. Bailly ha ulteriormente contrapposto la libera e vigorosa Europa ad un indolente e dispotica [[Asia]], in un'opposizione binaria con la quale, come ha sostenuto Edward Said, gli europei moderni sono arrivati ad autodefinirsi in relazione ad un «Oriente stereotipato».<ref>[[Edward Saïd]], ''Orientalism''.</ref> Non c'è alcun riferimento razziale in Bailly, c'è però in questo suo tentativo di «Atlantizzare l'Oriente» una manifestazione della superiorità culturale europea su quella orientale, causalmente basata sulle contemporanee teorie del [[determinismo geografico|determinismo climatico]].
{{Elezioni
Alla vigilia dell'espansione del [[colonialismo]] europeo in tutta l'[[Asia meridionale]], l'opera di Bailly sottolineava la presunta incapacità di un decadente Oriente di aver potuto inventare la scienza dell'astronomia per conto proprio. Le sue teorie preistoriche erano dunque mature per una eventuale appropriazione e trasformazione da parte si successivi teorici con diverse ipotesi epistemologiche e con punti di vista molto più esplosivi e pericolosi sulle cause e sul significato delle differenze umane. «Bailly non creò il "mito ariano" – afferma lo storico Harvey – e avrebbe sicuramente ripudiato le sue conclusioni finali, ma in fin dei conti ha fornito alcuni dei materiali chiave da cui poi questo fu costruito».<ref>David Allen Harvey, ''The lost Caucasian civilization: Jean-Sylvain Bailly and the roots of the Arian myth'', p. 8.</ref>
| nome = Elezioni municipali di Parigi del 1790
| paese = FRA 1492-1791
| precedente = [[Presa della Bastiglia#Conseguenze|1789]]
| successiva = [[Elezioni municipali di Parigi del 1791|1791]]
| data = 2 agosto 1790
| immagine1 = [[File:Jean Sylvain Bailly, maire de Paris.jpg|130px]]
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| candidato1 = [[Jean Sylvain Bailly]]
| partito1 = [[Società del 1789]]
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| %1 = 89,6
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| immagine2 = [[File:Danton 001.jpg|139px]]
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| candidato2 = [[Georges Jacques Danton]]
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| %2 = 10,4
| elettori2 =
| mappa =
| carica = [[Sindaci di Parigi|Sindaco uscente]]
| title = [[Jean Sylvain Bailly]] ([[Società del 1789]])
}}
{{Elezioni
| nome = Elezioni municipali di Parigi del 1791
| paese = FRA
| precedente = [[Elezioni municipali di Parigi del 1790|1790]]
| successiva = [[Elezioni municipali di Parigi del 1792|1792]]
| data = 14 novembre 1791
| immagine1 = [[File:Jérôme Pétion de Villeneuve.jpg|137px]]
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| candidato1 = [[Jérôme Pétion de Villeneuve]]
| partito1 = [[Club dei Giacobini]]
| voti1 = 6.108
| %1 = 63,1
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| immagine2 = [[File:Gilbert du Motier Marquis de Lafayette.PNG|120px]]
| colore2 = 0067A5
| candidato2 = [[Gilbert du Motier de La Fayette]]
| partito2 = [[Club dei Foglianti]]
| voti2 = 3.924
| %2 = 36,9
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| mappa =
| carica = [[Sindaci di Parigi|Sindaco uscente]] <small>''(dimissionario)''</small>
| title = [[Jean Sylvain Bailly]] ([[Club dei Foglianti]])
}}
==RiferimentiNote==
<references />
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