Buona fede: differenze tra le versioni
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La dottrina pone la distinzione tra due categorie autonome di buona fede:
* buona fede ''soggettiva'': ignoranza di ledere
* buona fede ''oggettiva'' (o ''correttezza''): è il generale dovere
La prima è richiesta anzitutto come requisito della regola possesso vale titolo. Il fondamentale art. 1147 c.c. fornisce una definizione di possesso in buona fede (riportata poco sopra) oltre ad elencare alcune basilari nozioni di contorno.
#nella fase delle trattative (art. 1337). Esempio di mancanza di buona fede nelle trattative è l'improvvisa e immotivata rottura delle stesse quando la controparte aveva ormai motivo di credere che queste sarebbero giunte al termine. La violazione del dovere di buona fede comporta di regola l'obbligazione di risarcire il danno causato alla controparte;▼
#nella fase di esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.);▼
La buona fede oggettiva, invece, è richiesta dal legislatore in tutte le fasi fisiologiche dell'atto negoziale:
#nella fase eventuale dell'[[interpretazione del contratto]] (art.1366);▼
Ai sensi dell'art. 1324 queste disposizioni si applicano ai negozi a contenuto patrimoniale tra vivi; è discussa in dottrina se la buona fede operi solamente laddove espressamente richiamata dal Codice civile, ovvero si possa rintracciare un generale obbligo per i consociati di comportarsi correttamente, la cui violazione rilevi come responsabilità contrattuale. Intesa come clausola generale di buona fede, che intercorre in tutta la [[Codice civile italiano|disciplina codicistica]], esplica in [[Contratto|materia contrattuale]] il principio di solidarietà enucleato dall'articolo 2 della Costituzione.▼
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#durante la pendenza della condizione che gravi sul contratto (art. 1358 c.c.);
La vaghezza che caratterizza tali prescrizioni alla buona fede ha dato ampio spazio al lavoro dottrinale e giurisprudenziale per un loro più concreto inquadramento. Secondo l'opinione maggioritaria, la buona fede oggettiva si sostanzierebbe in due principali doveri: quello alla lealtà e quello alla salvaguardia. Il primo impone ai contraenti il dovere di tutelare il reciproco affidamento, ossia di comportarsi in ciascuna delle fasi della vita del contratto attribuendo alle reciproche dichiarazioni o contegni il loro significato sociale tipico e, conseguentemente, di non indurre o speculare sui fraintendimenti della controparte. Il secondo impone invece ai contraenti uno sforzo - entro la normale esigibilità e non tale da imporre un rilevante sacrificio - volto alla tutela degli interessi che la controparte ha inteso perseguire attraverso il regolamento contrattuale, a prescindere da un'obbligazione giuridica in tal senso. Tale dovere di salvaguardia si distingue dal concetto di diligenza in quanto il secondo investe la disciplina dell'adempimento dell'obbligazione ed è più forte del primo: esso infatti richiede al debitore un adeguato utilizzo delle proprie energie e dei propri mezzi per ottenere l'esatto adempimento, ovviamente entro la ragionevolezza del sacrificio richiesto, oltre la quale verrebbero ad evidenziarsi gli estremi dell'impossibilità sopravvenuta, con conseguente estensione dell'obbligazione. Ai sensi dell'art. 1324 c.c., queste previsioni si applicano anche a tutti i negozi unilaterali a contenuto patrimoniale tra vivi, salva specifica previsione normativa.
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== Voci correlate ==
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