Chesterton elabora un saggio su come scrivere un [[Giallo (genere)|giallo]] con la piena consapevolezza di non essere mai riuscito a comporne realmente uno. Tuttavia, nonostante abbia fallito diverse volte, lo scrittore, attraverso un’autorità pratica e scientifica, sostiene che esistano degli ideali di scrittura poliziesca, o meglio, principi fondamentali che risiedono alla base di un giallo. Egli, quindi, comincia a pensare alla teoria dei polizieschi enunciando in tre punti la sua tesi.
==== Primo principio fondamentale ====
"Lo scopo di un racconto di mistero, così come ogni racconto e di ogni mistero, non è l'oscurità, bensì la luce"
L'obiettivo autentico di un giallo non è quello di frastornare o di confondere il lettore, ma illuminarlo in maniera tale che ogni porzione successiva di verità giunga come una sorpresa. Imbrogliare le carte, ovvero celare all'interno della narrazione dei momenti "oscuri" che creano un alone di mistero al caso, non deve essere un’attività fine a sé stessa; tutto quello che si scrive serve perché la luce brilli di più, per dare maggior rilievo alla comprensione finale della vicenda. La soluzione, quindi, deve apparire come un fascio di luce in una stanza buia. Purtroppo, la maggior parte dei polizieschi che risultano scadenti, lo sono perché falliscono proprio in questo punto.
==== Secondo principio fondamentale ====
"L'anima della fiction gialla non è la complessità, bensì la semplicità"
==Errori a proposito di gialli==
In questo articolo pubblicato sulla rivista ''[[The Illustrated London News|]]''The Illustrated London News'']], nell'agosto 1928, Chesterton si propone di analizzare gli errori più comuni che gli scrittori di polizieschi commettono. Innanzitutto chiarisce come, nel romanzo poliziesco, la “divisione del lavoro” fra scrittore e lettore sia fortemente definita, e che il compito più difficile sia quello del lettore; specifica però che questa divisione è insita nella natura del romanzo poliziesco; del resto, se lo si scrive non lo si può leggere. Entrando nello specifico della questione, individua il problema maggiore nell’idea che l’obiettivo principale del romanziere poliziesco sia quello di sconcertare il lettore. Molte storie si basano esclusivamente sul principio di ostacolare l’informazione per mezzo di un incidente (in questo modo è semplice produrre storie a profusione); questo però non è realmente eccitante: le persone non possono essere eccitate se non per qualcosa; e in questa fase di ignoranza il lettore non ha nulla di cui essere eccitato. La gente è entusiasta di sapere qualcosa, e in base a questo principio non sa nulla. Il vero oggetto di un giallo intelligente non è quello di sconcertare il lettore, ma di illuminarlo; ma di illuminarlo in modo tale che ogni porzione successiva della verità sia una sorpresa. Poi c’è anche l’errore comune di rendere tutti i personaggi statici e bi-dimensionali, non tanto perché l’autore non è in grado di produrre nulla di meglio, ma perché crede che siano sprecati per un prodotto non realistico. Ma ciò è fatale per la storia: non possiamo essere sconvolti per la morte di un personaggio che non è mai sembrato realmente vivo. A sostegno di questa tesi fa l’esempio delle conversazioni comiche fra Sherlock Holmes e Watson, che sono il vero elemento di successo dei romanzi di Doyle, più che i casi e la loro risoluzione. Inoltre analizza il successo dello spettacolo teatrale ispirato al romanzo ''Il mistero della camera gialla'': benché le due cose in astratto siano quasi antagoniste, infatti i due metodi “occultamento” sono opposti, perché lo spettacolo dipende da ciò che il pubblico conosce, non da ciò che il pubblico ignora. Nel giallo è l’eroe (o il cattivo) che sa, e l’estraneo che viene ingannato. Nella rappresentazione teatrale è l’estraneo (o spettatore) che sa, e l’eroe che viene ingannato. L’uno tiene un segreto agli attori e l’altro al pubblico. Tuttavia, quest’adattamento è uno di quei casi in cui l’operazione è stata di successo.
==Il giallo ideale==
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