Buco nero: differenze tra le versioni
Contenuto cancellato Contenuto aggiunto
Bibliografia ampliata a seguito dell’aggiunta dell’origine del termine “buco nero” Etichette: Modifica visuale Modifica da mobile Modifica da web per mobile |
sposto e armonizzo periodo |
||
Riga 12:
L'esistenza di tali oggetti è oggi definitivamente dimostrata e via via ne vengono individuati di nuovi con massa molto variabile, da valori di circa 5 fino a miliardi di [[Massa solare|masse solari]].
Il
== Storia ==
Riga 19:
Nel [[1783]] lo scienziato inglese [[John Michell]] suggerì in una lettera a [[Henry Cavendish]] (successivamente pubblicata nei rendiconti della [[Royal Society]]<ref>{{cita pubblicazione|nome= J.|cognome= Michell |titolo= On the means of discovering the distance, magnitude etc. of the fixed stars |rivista= Philosophical Transactions of the Royal Society |anno= 1784|lingua=en}}</ref>) che la velocità di fuga da un corpo celeste potrebbe risultare superiore alla velocità della luce, dando luogo a quella che egli chiamò una "stella oscura" (''dark star''). Nel [[1798]] [[Pierre-Simon Laplace|Pierre-Simon de Laplace]] riportò quest'idea nella prima edizione del suo ''Traité de mécanique céleste''.
Da un punto di vista relativistico
▲Da un punto di vista relativistico invece, un concetto di buco nero venne teorizzato dal fisico [[Karl Schwarzschild]] nel 1916, solo un anno dopo la pubblicazione della [[teoria della relatività generale]]. Nella relatività generale il campo gravitazionale viene descritto come deformazione dello [[spaziotempo]] causata da un oggetto molto massiccio, e la velocità della luce è una costante limite. Esplorando alcune soluzioni alle equazioni della teoria, Schwarzschild calcolò che un corpo ipoteticamente dotato di altissima [[densità]] produrrebbe nelle sue vicinanze una deformazione tale che la luce in allontanamento da esso tenderebbe a subire uno [[spostamento verso il rosso gravitazionale]] infinito. Il concetto teorizzato da Schwarzschild dipende dalla ''densità'' dell'oggetto, in astratto cioè si potrebbe applicare a un qualsiasi oggetto il cui volume fosse estremamente piccolo rispetto alla sua massa - anche se, nella realtà, non è noto alcun mezzo che possa fornire a un oggetto con massa piccola l'energia necessaria per concentrare a tal punto la materia: l'unica forza nota nell'universo in grado di sviluppare una tale intensità è la [[Interazione gravitazionale|forza di gravità]], in presenza di una grande quantità di materia.
=== I buchi neri secondo la relatività generale ===
Nel 1915
Nel 1931 [[Subrahmanyan Chandrasekhar]] calcolò, utilizzando la relatività speciale, che un corpo non rotante di elettroni-[[materia degenere]], al di sopra di un certo limite di massa (ora chiamato il limite di Chandrasekhar di 1,4 masse solari) non ha soluzioni stabili.<ref name="chand">[http://books.google.com/books?id=HNSdDFOJ4wkC&pg=PA89 Chandrasekhar and his limit.], Universities Press. p. 89. ISBN 81-7371-035-X.</ref> I suoi argomenti furono contestati da molti contemporanei come Eddington e Lev Landau, i quali sostenevano che qualche forza ancora sconosciuta avrebbe impedito il collasso del corpo.<ref name="americphysx">American Journal of Physics, 49 (5): 394–400. Bibcode:1981AmJPh..49..394D. doi:10.1119/1.12686.</ref> Questa teoria era in parte corretta: una nana bianca leggermente più massiccia rispetto al limite di Chandrasekhar collasserà in una stella di neutroni,<ref name="stlrevo">[http://books.google.com/books?id=kd4VEZv8oo0C&pg=PA105 Stellar evolution.], A K Peters. p. 105. ISBN 1-56881-012-1.</ref> la quale è essa stessa stabile a causa del [[principio di esclusione di Pauli]]. Ma nel 1939, Robert Oppenheimer e altri previdero che le stelle di neutroni con massa pari a circa tre volte il Sole (il [[limite di Tolman-Oppenheimer-Volkoff]]) sarebbero collassate in buchi neri per le ragioni presentate da Chandrasekhar, e conclusero che nessuna legge fisica sarebbe intervenuta per fermare il collasso di alcune di queste.<ref name="physxreview">Physical Review, 374–381. Bibcode:1939PhRv...55..374O. doi:10.1103/PhysRev.55.374</ref>
|