Biennio rosso in Italia: differenze tra le versioni
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La [[Rivoluzione russa]] che nel marzo 1917 aveva portato alla costituzione del [[Governo provvisorio russo|Governo Provvisorio Russo]] sotto la guida di [[Aleksandr Fëdorovič Kerenskij|Aleksandr Kerenskij]] aveva subito ottenuto il sostegno morale dei [[Partito Socialista Italiano|socialisti italiani]] e dell{{'}}''[[Avanti!]]'' che in essa intuivano già gli ulteriori sviluppi<ref>[[Roberto Vivarelli]], Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pag. 106: "I socialisti italiani e la classe operaia videro oltre, e quasi anticiparono quello che poi fu realmente lo sviluppo della rivoluzione di marzo, compresero che la lezione della Russia era qualcosa di nuovo"</ref>. L{{'}}''Avanti!'' il 19 marzo scrisse: "''la bandiera rossa issata dal proletariato di Pietrogrado ha ben altro significato che un'adesione delle masse della Russia lavoratrice alla presente situazione creata dagli imperialismi di tutti i paesi''"<ref>[[Roberto Vivarelli]], Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pag. 106.</ref>. La notizia degli avvenimenti russi giunse in Italia in un momento particolarmente difficile, sia sul fronte militare sia nel settore economico e già alla fine di aprile in parte ispirarono disordini soprattutto a Milano causati dalla carenza del riso<ref>[[Roberto Vivarelli]], Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pag. 107.</ref>. I socialisti accentuarono la richiesta di arrivare alla pace ma aggiungendo anche espliciti inviti alla ribellione<ref name="Mulino 2012">[[Roberto Vivarelli]], Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pag. 108.</ref>. Ad agosto a [[Torino]], in occasione della visita di una delegazione russa in Italia, vi furono manifestazioni di operai che accolsero i delegati al grido di "''Viva Lenin''"<ref name="Mulino 2012"/> e che in poche settimane raggiunsero il culmine con la più violenta sommossa registrata in Italia durante la guerra<ref>[[Roberto Vivarelli]], ''Storia delle origini del fascismo'', volume I, Il Mulino, 2012, pp. 108-109.</ref>. I moti ebbero luogo fra il 22 e il 27 agosto e si chiusero con un bilancio di circa cinquanta morti fra i rivoltosi, circa dieci fra le forze dell'ordine e circa duecento feriti; vi furono un migliaio di arrestati; di essi, varie centinaia furono condannati alla reclusione in carcere<ref>Giorgio Candeloro, ''Storia dell'Italia moderna. Volume ottavo. La prima guerra mondiale, il dopoguerra, l'avvento del fascismo'', Feltrinelli, Milano 1996 (sesta edizione), p. 172.</ref>. La [[Moti di Torino (1917)|sommossa di Torino]], indubbiamente spontanea in quanto causata dalla contingente mancanza di pane, era comunque frutto della intensa propaganda socialista<ref>[[Roberto Vivarelli]], Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pag. 113-114.</ref> e della sconfitta del [[Regio Esercito]] nella [[battaglia di Caporetto]] aprì scenari che avrebbero favorito una rivoluzione in Italia<ref>Roberto Vivarelli, ''Storia delle origini del fascismo'', volume I, Il Mulino, 2012, p. 116.</ref>.
L'esaltazione di Lenin e della Russia, che fece molta presa sulla classe operaia dell'epoca, fu soprattutto dovuta al direttore dell<nowiki>'</nowiki>''[[Avanti!]]'' [[Giacinto Menotti Serrati]] e la rivoluzione russa, presso i [[Massimalismo (politica)|massimalisti]], fu considerata "uno sbocco necessario della situazione italiana"<ref>Roberto Vivarelli, ''Storia delle origini del fascismo'', volume I, Il Mulino, 2012, pp. 110-111</ref>, ma in realtà i dirigenti socialisti davanti a una massa in parte politicizzata non avevano idea di come dirigerla e dopo averla fomentata tentarono inutilmente di ricondurla alla legalità<ref>[[Roberto Vivarelli]], ''Storia delle origini del fascismo'', volume I, Il Mulino, 2012, p. 114: "Di fatto, l'iniziativa rivoluzionaria delle masse rimase del tutto abbandonata a se stessa, condannata ad estinguersi come un fuoco di paglia, e i dirigenti socialisti, pur senza sconfessare l'azione popolare alla quale anzi concedevano il loro plauso sentimentale, si adoperarono per ricondurre le masse all'ordine."</ref>. Inoltre, il [[Partito Socialista Italiano|Partito Socialista]] nell'ultimo anno di guerra accentuò le proprie divisioni interne e anche alla sua sinistra nacque una corrente "''intransigente rivoluzionaria''" che scavalcò anche i [[Massimalismo (politica)|massimalisti]] a sinistra mentre l'ala riformista di destra a seguito di Caporetto sentì il dovere di sostenere lo sforzo bellico contro l'invasione nemica<ref>[[Roberto Vivarelli]], ''Storia delle origini del fascismo'', volume I, Il Mulino, 2012, p. 117.</ref>. Note sono le parole del ''leader'' riformista [[Filippo Turati]] al Parlamento: ''"L'onorevole Orlando ha detto: Al Monte Grappa è la Patria. A nome dei miei amici ripeto: Al Monte Grappa è la Patria''"<ref name=storiaill>"Monte Grappa tu sei la mia Patria", su ''Storia illustrata'' n
Il Congresso di [[Roma]] del 1°-5 settembre 1918 sancì ufficialmente la nuova linea politica del [[Partito Socialista Italiano|Partito Socialista]] che avrebbe dovuto "esplicarsi esclusivamente sul terreno della lotta di classe" ed espulsione dal partito per chi "renda omaggio alle istituzioni monarchiche, partecipi od indulga a manifestazioni patriottiche o di solidarietà nazionale"<ref>Roberto Vivarelli, ''Storia delle origini del fascismo'', volume I, Il Mulino, 2012, p. 124.</ref>.
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# la mozione dei ''[[Massimalismo (politica)|massimalisti]]'' di [[Giacinto Menotti Serrati]], che avevano come obiettivo immediato la creazione di una "''[[stato socialista|repubblica socialista]]''" su modello sovietico<ref>G. Sabbatucci e V. Vidotto, ''Storia contemporanea, il novecento'', Bari, Edizioni Laterza, 2008, p. 70: "I massimalisti (...) si ponevano come obiettivo immediato l'instaurazione della repubblica socialista fondata sulla dittatura del proletariato e si dichiaravano ammiratori entusiasti della rivoluzione bolscevica"</ref> si distingueva da quella di Amadeo Bordiga per pochi particolari, infatti sia Serrati che Bordiga proponevano l'adesione del partito alla [[Internazionale Comunista|Terza Internazionale]]<ref name="G. Candeloro, p. 299">G. Candeloro, ''op. cit.'', p. 299.</ref>; tuttavia, mentre i massimalisti di Serrati ritenevano che la rivoluzione fosse comunque inevitabile e l'attendevano passivamente<ref>G. Sabbatucci e V. Vidotto, ''Storia contemporanea, il novecento'', Bari, Edizioni Laterza, 2008, p. 71: "Più che preparare la rivoluzione la aspettavano, ritenendola comunque inevitabile."</ref>, l'estrema sinistra di Bordiga, in polemica con i massimalisti, e in modo più coerente con l'esempio sovietico, riteneva doveroso impegnarsi attivamente per la riuscita della rivoluzione<ref>G. Sabbatucci e V. Vidotto, ''Storia contemporanea, il novecento'', Bari, Edizioni Laterza, 2008, p. 71: "In polemica con questa impostazione, si formarono nel Psi gruppi di estrema sinistra, composti per lo più da giovani, che si battevano per un più coerente impegno rivoluzionario e per una più stretta adesione all'esempio russo."</ref>.
# la mozione di [[Costantino Lazzari]], che concordava con Serrati sull'obiettivo finale della rivoluzione proletaria da raggiungersi con l'"''azione rivoluzionaria''"<ref>[[Roberto Vivarelli]], Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, pag 229</ref> e l'abbattimento del sistema democratico, riaffermava il principio secondo cui nel partito dovevano continuare ad avere cittadinanza anche i ''[[Riformismo|riformisti]]''. La mozione di Lazzari era l'unica a non citare espressamente la [[
# la mozione di [[Amadeo Bordiga]], che aderente ai principi della [[Rivoluzione d'ottobre]], in cui vedeva la corretta rotta che avrebbe dovuto seguire il [[Partito Socialista Italiano]], proponeva di cambiare il nome del partito con quello di "Partito Comunista"<ref name="ref_C">[[Roberto Vivarelli]], ''Storia delle origini del fascismo'', volume II, Il Mulino, 2012, p. 228</ref> e di espellerne i "''socialisti riformisti''" di Turati<ref name="ref_C" />. Infatti Bordiga, convinto dell'incompatibilità tra [[socialismo]] e [[democrazia]]<ref>[[Roberto Vivarelli]], ''Storia delle origini del fascismo'', volume II, Il Mulino, 2012, p. 224: "Si doveva ancora a Bordiga la formulazione più chiara della assoluta incompatibilità tra socialismo e democrazia"</ref>, dato che "''il proletariato poteva davvero impadronirsi del potere politico solo strappandolo alla minoranza capitalista con la lotta armata, con l'azione rivoluzionaria''"<ref>[[Roberto Vivarelli]], Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, pag 224</ref>, riteneva che il partito non avrebbe dovuto partecipare alle elezioni. La sua corrente fu detta "''comunista astensionista''"<ref>G. Candeloro, ''op. cit.'', pp. 298-300.</ref>.
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{{Citazione|Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono all'altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e dai sindacati che invece capitolarono vergognosamente, pretestando l'immaturità delle masse; in realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe. Perciò avvenne la [[XVII Congresso del Partito Socialista Italiano|rottura di Livorno]] e si creò un nuovo partito, il Partito comunista.|Antonio Gramsci<ref name="classe">Antonio Gramsci, ''Ancora delle capacità organiche della classe operaia'' (articolo non firmato) in "[[l'Unità]]", 1º ottobre 1926; ora in Id., ''La costruzione del Partito comunista, 1923-1926'', Torino, Einaudi, 1971, pp. 347-348.</ref>}}
La vicenda dell'occupazione delle fabbriche ingenerò rabbia e frustrazione negli industriali, i quali, per quasi un mese, si erano visti spossessati dei propri stabilimenti, e che avevano dovuto alla fine accettare le richieste sindacali operaie, e alimentò i loro propositi di rivalsa, anche nei confronti del governo e dello stesso Stato liberale che (secondo loro) non li aveva sufficientemente tutelati; la classe operaia, invece, subì un contraccolpo psicologico di delusione e di scoraggiamento, in quanto aveva dovuto restituire agli industriali il possesso delle fabbriche senza ottenere alcun reale avanzamento politico<ref>P. Spriano, ''L'occupazione delle fabbriche'', cit., pp. 162-163.</ref>. La conclusione della vicenda portò inoltre ad una crisi il Partito socialista, che si divise tra coloro che ritenevano opportuno continuare la lotta e i dirigenti che avevano accettato l'accordo<ref>Enzo Biagi, ''Storia del Fascismo'', Firenze, Sadea Della Volpe Editori, 1964, p. 100: "Ma i socialisti, di fronte al compromesso, si trovano inevitabilmente divisi. Metà degli iscritti al Partito sono convinti che l'accordo con gli industriali non sia
In seguito, la pubblicistica del fascismo dipinse l'occupazione delle fabbriche come emblematica di un'epoca di profondo disordine, caratterizzata da gravi e massicce violenze operaie e dal pericolo incombente di una rivoluzione bolscevica, pericolo che, in Italia, sarebbe stato sventato - secondo questa interpretazione - solo dall'avvento al potere di [[Benito Mussolini|Mussolini]]<ref>Paolo Spriano, ''L'occupazione delle fabbriche. Settembre 1920'', Torino, Einaudi, 1973 (quarta edizione), p. 178: "L'occupazione delle fabbriche doveva, nella pubblicistica fascista, evocare l'immagine del caos e della violenza, e giustificare, perciò stesso, la provvida reazione mussoliniana".</ref>. Dopo la caduta del fascismo, più di uno storico ha invece negato che l'occupazione delle fabbriche potesse avere realmente la possibilità di costituire l'occasione di una rivoluzione proletaria vittoriosa<ref>Giorgio Candeloro, ''Storia dell'Italia moderna. Volume ottavo. La prima guerra mondiale, il dopoguerra, l'avvento del fascismo'', Feltrinelli, Milano 1996 (sesta edizione), pp. 334-5.</ref><ref>Paolo Spriano, ''L'occupazione delle fabbriche. Settembre 1920'', Torino, Einaudi, 1973 (quarta edizione), pp. 176-178.</ref>.
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