Helene Demuth: differenze tra le versioni
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{{Citazione|Al suo funerale Engels ha dichiarato che Marx chiedeva consigli a Helene Demuth, non solo riguardo a difficili e intricate questioni di partito, ma anche in relazione ai suoi scritti economici. "Lo stesso vale per me -disse Engels- il lavoro che sono stato capace di compiere dopo la morte di Marx è largamente dovuto al sostegno e alla luminosità della sua presenza in casa"<ref>In Giuseppe Marcenaro, ''Cimiteri. Storie di rimpianti e di follie'', Bruno Mondadori, 2012</ref>}}
Il forse figlio di Marx, che nel frattempo aveva cambiato il suo nome in Frederich Lewis Demuth, trovò lavoro come apprendista meccanico. Si era sposato e nel [[1888]] era stato assunto come tornitore presso la King's Cross Branch.
La figlia di Marx, [[Eleanor Marx|Eleanor]], scriveva nel [[1892]]:
{{Citazione|Forse sarò molto "sentimentale" ma non posso fare a meno di pensare che Freddy [Frederich] ha subito una grave ingiustizia per tutta la vita<ref>Tristram Hunt, ''La vita rivoluzionaria di Friedrich Engels'', Isbn Edizioni, 2010, p.199</ref>.}} non riuscendo a capire l'atteggiamento freddo e distaccato di Engels nei confronti di quello che ella riteneva fosse il suo figlio biologico. Quando scoprì la
Engels aveva tenuto fede alla promessa fatta all'amico Marx e solo in punto di morte nel [[1895]], secondo quanto racconta una lettera (considerata apocrifa dallo storico Terrell Carver)<ref>Questa lettera è considerata apocrifa dallo storico Terrell Carver (in [https://marxmyths.org/terrell-carver/article.htm Marx’s ‘Illegitimate Son’ ...or Gresham’s Law in the World of Scholarship] {{Webarchive|url=https://web.archive.org/web/20190202095631/https://www.marxmyths.org/terrell-carver/article.htm |data=2 febbraio 2019 }} by Terrell Carver, University of Bristol in February 2005. Consultato 27/12/2018)</ref> di un assistente del filosofo ritrovata nel 1962 nell' "Istituto di studi sociali" di [[Amsterdam]], aveva scritto su una lavagna: «Frederick Demuth è il figlio di Marx»<ref>Ulderico Munzi, ''Corriere della Sera'', 11 febbraio 1992, p. 7</ref>.
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