Logica trascendentale: differenze tra le versioni

Contenuto cancellato Contenuto aggiunto
Riga 335:
Con il §16 (''Sull'unità originariamente sintetica dell'appercezione'') inizia la deduzione vera e propria, con l'indicazione che quella ricerca "più in alto" deve sfociare nell'[[io penso]].
{{citazione|L'io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, poiché altrimenti in me verrebbe rappresentato un qualcosa, che non potrebbe affatto venir pensato; o con espressione equivalente: poiché altrimenti o la rappresentazione risulterebbe impossibile, oppure, almeno per me, essa non sarebbe niente. [...] La rappresentazione: io penso [...] è un atto della spontaneità [...].<ref>{{Cita|''Critica della ragione pura''|pp. 155-156|Colli}}.</ref>}}
L'espressione "io penso" non va scambiata per una sequenza di parole o una mera proposizione linguistica. Essa rappresenta piuttosto l'atto con cui mi rappresento come mia (e quindi come autocosciente) una rappresentazione.<ref name=burnham88/> L'atto, di per sé non necessario, di accompagnare tutte le rappresentazioni corrisponde all'autocoscienza. Come scrive Buroker: "In quanto riconosco una rappresentazione come mia, me la ascrivo, e quindi devo essere cosciente di me stesso in quanto soggetto dello stato"<ref>{{cita|Buroker|pp. 118-119}}.</ref>. Anche nella seconda edizione, questa autocoscienza è chiamata da Kant "unità trascendentale dell'appercezione" (o "io penso"). L'io penso non è una rappresentazione derivata. Inoltre, non ha un contenuto distinto, non contiene un molteplice. L'io penso esprime la mera identità numerica del soggetto che pensa.<ref>{{cita|Buroker|p. 119}}.</ref> Scrive Kant:
L'atto, di per sé non necessario, di accompagnare tutte le rappresentazioni corrisponde all'autocoscienza. Come scrive Buroker: "In quanto riconosco una rappresentazione come mia, me la ascrivo, e quindi devo essere cosciente di me stesso in quanto soggetto dello stato"<ref>{{cita|Buroker|pp. 118-119}}.</ref>. Anche nella seconda edizione, questa autocoscienza è chiamata da Kant "unità trascendentale dell'appercezione" (o "io penso"). L'io penso non è una rappresentazione derivata. Inoltre, non ha un contenuto distinto, non contiene un molteplice. L'io penso esprime la mera identità numerica del soggetto che pensa.<ref>{{cita|Buroker|p. 119}}.</ref> Scrive Kant:
{{citazione|[...] questa proposizione fondamentale dell'unità necessaria dell'appercezione [...] è essa stessa identica, ed è quindi una proposizione analitica, ma rivela tuttavia come necessaria una sintesi del molteplice dato in un'intuizione: senza tale sintesi non può venir pensata quell'ininterrotta identità dell'autocoscienza. In effetti, mediante l'io, in quanto rappresentazione semplice, non viene dato alcun molteplice; nell'intuizione, che è differente dall'io, il molteplice può essere soltanto dato, e attraverso la congiunzione in una sola coscienza esso può venir pensato. Un intelletto, in cui tutto il molteplice fosse dato simultaneamente dall'autocoscienza, intuirebbe: il nostro intelletto può soltanto pensare, e deve cercare l'intuizione nei sensi.<ref>{{Cita|''Critica della ragione pura''|pp. 160-161|Colli}}.</ref>}}
Condizione per il riconoscimento dell'identità dell'io davanti alle rappresentazioni è l'effettuazione di sintesi di rappresentazioni complesse. È in questo senso che Kant dice che l'io penso "contiene una sintesi":<ref name=buroker120>{{cita|Buroker|p. 120}}.</ref>