Alasdair MacIntyre: differenze tra le versioni
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Alasdair MacIntyre nasce a [[Glasgow]] nel [[1929]], studia a [[Londra]] e a [[Manchester]], città dove inizia la sua carriera universitaria nel [[1951]] come professore di [[filosofia della religione]]. La sua formazione universitaria è permeata dalla filosofia linguistica della scuola di [[Oxford]], che predomina in quegli anni nelle maggiori sedi accademiche. Il suo contributo filosofico verte inizialmente su temi [[etica|etico]]-[[filosofia politica|politici]] e religiosi; all'età di 23 anni pubblica ''Marxism. An interpretation'', anticipando il dibattito tipico degli anni successivi tra [[materialismo]] dialettico e [[Cristianesimo]] e dando una versione personale del [[marxismo]], che vede come riflesso e prodotto della tradizione cristiana; questo tema verrà interamente ripreso per una revisione e un ampliamento interpretativo nella seconda edizione dell'opera. Altro aspetto che qui compare per la prima volta è la sua posizione critica nei confronti della filosofia linguistica dominante che MacIntyre accusa di essersi distaccata troppo da problemi umani e sociali di interesse attuale. La [[religione]] è vista sotto l'aspetto sociologico, cosicché MacIntyre è al tempo stesso marxista e cristiano, spaziando da una soluzione etica ad una fideistica della religione.
Dopo aver insegnato filosofia all'[[Università di Leeds]] dal [[1957]] al [[1961]], entra a far parte del corpo accademico oxoniense, prima al "Nuffield College" ([[1961]]-[[1962|62]] e [[1965]]- [[1966|66]]) poi all'"University College" ([[1963]]-[[1966|66]]). Nel frattempo è Senior Fellow al ''Council of the Humanities'' dell'[[Università di Princeton]] (1962-'63). Dal [[1966]] al [[1970]] occupa la cattedra di [[sociologia]] all'[[Università dell'Essex]] e ricopre l'incarico di lettore all'[[Università di Copenaghen]] nel [[1969]]. Dal [[1970]] al [[1972]] è professore di ''History of Ideas'' alla [[Brandeis University]], mentre dal [[1972]] al [[1980]] è professore di ''Philosophy and Political Science'' all'[[Università di Boston]]. Nel [[1979]] riveste la funzione di ''Visiting Fellow'' alla Princeton University; infine, dopo altri incarichi al "Wellesley College" dal [[1980]] al [[1982]], alla [[Vanderbilt University]] dal [[1982]] al [[1988]] e all'[[Università Yale]] dal [[1988]] al [[1989]], dal 1988 in poi assume l'impiego di ''Hank Professor of Philosophy'' all'[[Università di Notre Dame]] in [[Indiana]]. Dal [[1970]] quindi si trasferisce definitivamente negli [[Stati Uniti d'America|Stati Uniti]].
Qui la sua impostazione si allontana ben presto da quella della [[filosofia continentale]], acquistando tratti ibridi e per certi versi innovativi, che gli fanno assumere un carattere anglosassone e [[filosofia analitica|analitico]] nel metodo ma decisamente "postanalitico" per quanto riguarda il contenuto. MacIntyre, infatti, appartiene alla cosiddetta "quarta generazione" dei filosofi angloamericani, quella cioè nata intorno agli anni trenta ed apparsa sulla scena negli anni sessanta. È una generazione ricchissima di pensatori fertili di stimoli culturali che hanno contribuito ad approfondire il dibattito filosofico in varie direzioni: [[pragmatismo]] (R.J. Bernstein), filosofia del linguaggio ordinario di matrice [[John Langshaw Austin|austiniana]] (ultimo [[Paul Grice]] e [[John Searle]]), filosofie anti-positivistiche ([[Noam Chomsky]], [[Jerry Fodor]], [[John Katz]]), filosofia della scienza di impostazione positivistico-logica ([[Thomas Kuhn]], [[Paul Feyerabend]], [[Imre Lakatos]]), filosofia quineana ([[Donald Davidson]], primo [[Saul Kripke]], [[Hilary Putnam]]), tematica delle logiche modali e dei mondi possibili ([[David Lewis (filosofo)|David Lewis]], A. Plantinga, Montague ed altri). Tra i tanti filoni, quello di taglio prettamente etico-politico-giuridico interessa filosofi come [[John Rawls]], [[Robert Nozick]], [[Ronald Dworkin]]; si sposta dal piano metaetico a quello dell'etica pratica con [[Hilary Putnam]] (per la relazione mente-corpo), [[Thomas Nagel]], [[Donald Davidson]], [[Derek Parfit]], [[Richard Rorty]], [[Daniel Dennett]] ed altri; esce infine dal campo della filosofia tout-court prospettando soluzioni nuove e differenti, ma tutte appartenenti al "post", cioè al salto ormai operato dai nuovi intellettuali con filosofi quali Richard Rorty, Alasdair MacIntyre e per certi versi [[Charles Margrave Taylor|Charles Taylor]].
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In alcuni esponenti di questa ricostruzione l'autonomia si correla con una concezione individualista, in altri con una universalista, in alcuni si ritiene fondata sul sentimento morale ([[David Hume|Hume]]), in altri sulla ragione ([[Immanuel Kant|Kant]]), in altri ancora sulla scelta ([[Søren Kierkegaard|Kierkegaard]]) ma il rendersi autonomo, lo specializzarsi della morale, è il vero punto: tutti gli autori in questione, pur nelle loro enormi diversità, intendono fondare le regole morali senza ricorrere a criteri rintracciabili altrove che nell'attore morale. È proprio questa riduzione il gesto che prelude al fallimento del progetto illuminista in campo morale, e alla frammentazione che si è descritta come tipica dell'età contemporanea.
La crisi diviene pienamente visibile nel Kierkegaard di ''[[Enten-Eller]]'', in cui la morale sembra avere uno statuto preciso almeno quanto in Kant, come morale del puro dovere, ma manca completamente di “buone ragioni”, si fonda unicamente sulla scelta individuale. La scelta in favore del dovere non è l'unica né la migliore, così come la scelta di fede (quella di Abramo, il cavaliere della fede) non è fondata su ragioni morali, anzi, se valutata secondo criteri morali appare come crimine.
Andando a ritroso, MacIntyre rintraccia però già in Kant un preludio di consapevolezza della fragilità di un progetto morale totalmente autonomo: egli infatti da un lato vuole accedere in campo morale a un sapere rigoroso, autonomamente fondato, esattamente come nella gnoseologia. Ma è un ''factum'' e non un principio dedotto rigorosamente l'unico elemento cui si può appellare, il dovere è un fatto e per di più intimo; a partire da questo Kant mostra, ma non dimostra. Subito poi deve riconoscere con la dottrina dei postulati che «senza una struttura teleologica l'intero progetto della morale diviene inintelligibile».
Continuando a risalire a ritroso, MacIntyre afferma che «se comprendiamo la scelta kierkegaardiana come un surrogato della ragione kantiana, dobbiamo comprendere anche che Kant stava a sua volta reagendo a un episodio filosofico precedente, che l'appello di Kant alla ragione è stato l'erede e il successore storico degli appelli di Diderot e di Hume al desiderio e alle passioni»<ref>Alastir MacIntyre, ''Dopo la virtù. Saggio di teoria morale'', 2007, Armando Editore, pag. 80.</ref>. L'intenzione di Hume e Diderot non è individualistica né tantomeno relativistica, ma la dottrina ha un nucleo analogo a quello dell'emotivismo contemporaneo, pronto a emergere nella sua portata nichilista non appena venga meno lo sfondo sociale e culturale che sorregge il pacchetto di valori di riferimento (conservatori) e consente la distinzione fra passioni buone e cattive.
L'utilitarismo, prima di [[Jeremy Bentham|Bentham]] e poi di [[John Stuart Mill|Stuart Mill]], rappresenta per MacIntyre la reazione più coerente al fallimento del progetto illuministico: fa ricorso a un criterio apparentemente inconfutabile, radicato nell'individualità concreta e al tempo stesso capace di garantire il buon funzionamento di una collettività, la felicità. Dopo essere stata da Kant esclusa, in quanto movente inadeguato di una morale autonoma, la felicità torna in auge. Il calcolo dei piaceri perseguibili dagli individui viene sottoposto al criterio della crescita complessiva della felicità “oggettiva”, per il maggior numero.
Il tema delle regole, in questo excursus, sembra il vero scopo della riflessione morale. Ma le regole si rivelano in ultima istanza infondate. Ci si può chiedere se invece non sia proprio questo il problema, aver ridotto la morale a una questione di regolamentazione quando probabilmente per le regole sarebbe sufficiente il costume. Invece la vocazione della morale potrebbe essere quella di affrontare l'eccezione, il caso di insufficienza delle regole. La situazione della morale potrebbe essere più simile a quella dell'arte, che dà luogo a forme il cui valore deve poter essere giustificato e condiviso, ma che non possono essere l'esecuzione precisa di regole a priori. Le forme riuscite, nell'arte come nella morale, sono modelli, non regole. La stessa nozione di responsabilità, che ha il suo habitat nel discorso morale, non può reggersi se si appella a un'universalità a priori, eppure guarda all'universalità. Essa riguarda un fare che dà realizzazione a un principio assoluto, ma il principio non è evidente se non nell'atto realizzato.
Dal momento in cui il centro della riflessione morale diviene la regola si fa sempre più difficile cogliere la differenza fra la riflessione morale e l'ingegneria sociale. La ragione, che si inibisce dalla modernità in avanti dall'occuparsi dei fini, delle essenze, dei valori in sé e ne diviene di conseguenza incapace, si auto-riduce all'ambito dei mezzi, dei modi per ottenere risultati, dell'how to do it, dell'efficienza e dell'efficacia. La seconda e non meno importante conseguenza dell'abbandono da parte della ragione dell'ambito dei fini e delle essenze, considerate qualità occulte, o ipotesi metafisiche improprie, è che i valori ultimi, che orientano e che occupano il posto dei fini, decadono a oggetti di scelte arbitrarie, individualissime, libere ma di una libertà non giustificabile. Ciò non toglie che il linguaggio morale rivesta continuamente quella inquietante arbitrarietà di più rassicuranti abiti pseudorazionali. Proprio di questi [[pseudoconcetto|pseudoconcetti]] è fatta la storia della filosofia morale/politica dopo la crisi del progetto illuminista. Sono finzioni come i concetti di utilità, di diritto, di efficienza, di fatto empirico, di competenza.
L'utilitarismo: la parabola da Bentham a Stuart Mill a Sidgwick mostra che la morale fondata sulla psicologia dà luogo all'incommensurabilità dei valori e dei fini. La giustificazione della morale su base individuale, ancorché razionale, sfocia nell'impotenza della ragione a universalizzare come principi i moventi individuali, quindi nell'emotivismo.
La teoria analitica, che in campo morale si propone come teoria dei diritti ([[Ronald Dworkin|Dworkin]]), è un altro esempio di tentativo di far sopravvivere il discorso morale al fallimento del progetto illuminista, fondandolo su premesse minime ma perfettamente razionali perché analitiche. Il problema è che il concetto di diritto appartiene all'ambito dell'universale, è indeducibile analiticamente dai bisogni e dai desideri. È eterogeneo, richiede un contesto di regole condivise che lo riconoscano e lo stabilizzino.
I personaggi che incarnano gli ideali morali della società emotivista: l'esteta, il terapeuta, il manager. A vario titolo essi incarnano l'emotivismo, ne confermano la base teorica, l'abolizione della differenza fra azioni manipolative e non manipolative, la coesistenza schizofrenica di autonomia (arbitrio) e manipolazione, di individualismo e collettivismo.
Il caso della finzione burocratica: fatti, efficienza, competenza, leggi predittive, il mito della spiegazione. L'esclusione della teleologia dalle spiegazioni scientifiche si estende al comportamento umano, provocando una trasformazione del concetto di fatto che lo priva di qualunque riferimento al valore, il fatto è senza valore, occuparsi di questioni di fatto significa liberarli dal fardello delle credenze, delle valutazioni. Se la fede nel controllo sociale efficiente e giustificato, che si avvale di generalizzazioni sui comportamenti umani è illusoria, la figura del manager burocratico neutro moralmente è una mascherata, c'è in realtà una “perpetuazione del fraintendimento”.
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«Le questioni assiologiche sono questioni di dati di fatto sociali. È per questo che Omero parla sempre di conoscenza di cosa fare e di come giudicare».
L<nowiki>’</nowiki>''[[areté]]'', in seguito tradotta come virtù, «nei poemi omerici è usata per designare l'eccellenza di qualsiasi genere»<ref>Alastir MacIntyre, ''Dopo la virtù. Saggio di teoria morale'', 2007, Armando Editore, pag. 160.</ref>, che si esprime in azioni conseguenti.
L'insegnamento che possiamo ricavare dalla visione morale eroica, conclude MacIntyre, è che una morale si radica necessariamente in una dimensione socialmente locale e particolare, e che «le aspirazioni della morale della modernità a un'universalità affrancata da qualsiasi particolarità è un'illusione; [...] non c'è nessun modo di possedere le virtù se non come parte di una tradizione in cui esse e la nostra comprensione di esse ci vengono tramandate da una serie di predecessori»<ref>Alastir MacIntyre, ''Dopo la virtù. Saggio di teoria morale'', 2007, Armando Editore, pag. 165.</ref>.
Secondo MacIntyre comunque quando parliamo della “visione greca delle virtù” dobbiamo essere consapevoli che ce n'erano almeno quattro: quella dei sofisti, quella di Platone, quella di Aristotele e quella dei tragici. I sofisti sostengono i concetti di bene, giustizia, virtù come qualità che conducono al successo e alla felicità individuale. Nelle versioni più radicali, come quella di Callicle, questa visione è difficilmente scalzabile. Platone rifiuta che la felicità individuale risieda nell'esercizio di un potere individuale e introduce l'accezione di dikaiosyne come «virtù che assegna a ciascuna parte dell'anima la sua funzione particolare». Concezione (condivisa da Aristotele e poi da Tommaso) che considera virtù e conflitto incompatibili in quanto c'è un ordinamento cosmico delle virtù stesse, e «la verità, nella sfera morale, consiste nella conformità del giudizio morale all'ordine di questo schema». I tragici, Sofocle in particolare, presentano una visione che da un lato ammette il conflitto fra virtù diverse o fra interpretazioni della stessa virtù, ma non rifiuta l'idea dell'ordine cosmico, non rifiuta «la proprietà di essere veri o falsi» ai giudizi morali.
=== L'interpretazione aristotelica delle virtù ===
Aristotele parla di una prassi precisa, inserita in una precisa forma politica, quella della “migliore città stato”, e di questa elabora la forma razionale. Il baricentro dell'intera morale aristotelica è il ragionamento pratico: la premessa maggiore dice che una certa azione è buona per l'uomo, la premessa minore che questo caso rientra nella fattispecie delle azioni descritte nella maggiore, ne consegue l'azione. L'azione dunque può essere vera o falsa. Il motivo risiede nell'intima connessione fra tutti i tasselli del mosaico. L'azione, come il giudizio, si radica nelle convinzioni profonde e condivise riguardo a ciò che è bene, nella conoscenza teoretica dei fini, di ciò che è buono per l'uomo, nella capacità, educata dall'educazione morale/sentimentale di giudicare se il caso in questione rientri nel modello generale. «L'etica di Aristotele presuppone la sua biologia metafisica».
La determinazione di cos'è bene per l'uomo è fondamentale: il telos, il fine dell'uomo non è un possesso, un culmine, un momento di felicità o di prosperità, ma «un'intera vita umana vissuta nel modo migliore, e l'esercizio delle virtù è una parte necessaria e fondamentale di una vita del genere, non un semplice esercizio preparatorio per assicurarsela. Perciò non possiamo dare una caratterizzazione adeguata del bene per l'uomo senza aver fatto riferimento alle virtù». Ci si pongono fini buoni nell'agire in quanto si esercita una virtù, essa conduce alla scelta giusta e all'azione giusta. E la virtù è disposizione che si acquista, coltivabile ed educabile, ad agire ma anche a «sentire» nel modo “giusto”. L'educazione morale è educazione anche sentimentale, che educa le inclinazioni. Il giudizio morale è un giudizio in situazione, non è un giudizio che applichi meccanicamente regole. Leggi e virtù richiedono valutazione in relazione a un bene che viene prima, il bene della comunità e il bene per l'uomo. Il giudizio di ciò che richiede la giustizia nelle circostanze particolari non applica formule statiche ed è definito da Aristotele un agire «kata ton orthón lógon», secondo giusta ragione. È un uso saggio e complesso della ragione che non ha nulla di esecutivo, per questo occorre la phrónesis, la saggezza pratica ed educata. Aristotele – come già Platone - vede in connessione sistematica tutte le virtù: come il telos e il ragionamento pratico come l'azione giusta da compiere in ciascun tempo e luogo particolare».
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«Per pratica intenderò qualsiasi forma coerente e complessa di attività umana cooperativa socialmente stabilita, mediante la quale valori insiti in tale forma di attività vengono realizzati». Attraverso una pratica così intesa, e solo attraverso di essa, si estendono al contempo «le facoltà umane di raggiungere l'eccellenza» ma anche o soprattutto «le concezioni umane dei fini e dei valori impliciti». Questo è il nodo centrale del concetto di pratica utile per la definizione della virtù: i valori insiti nella pratica, sono altro dai risultati esterni perseguiti attraverso di essa; là dove in una pratica contasse solo il risultato (es. vincere per il gioco degli scacchi) non ci sarebbe alcuna controindicazione nel machiavellismo, cioè nell'usare qualunque mezzo per ottenerlo (es. barare al gioco). Là dove invece di una pratica si comprendano i valori/fini intrinseci, nell'atto stesso di farne esperienza, l'adozione di mezzi estranei e impropri diviene una sconfitta, perché il risultato esterno passa in secondo piano rispetto alla conquista di quei valori. Conquistarli e apprenderli è tutt'uno, e per entrambi gli scopi la pratica in prima persona non è sostituibile con un apprendimento passivo o teorico. Altro elemento fondamentale per le pratiche è la presenza di modelli (i migliori fino a quel momento realizzati) di eccellenza, che comportano l'obbedienza a regole e l'esposizione di chi pratica al giudizio sulla base di quei modelli.
«Nel campo delle pratiche, l'autorità dei valori e dei modelli opera in modo tale da escludere ogni analisi soggettivista ed emotivista del giudizio. De gustibus est disputandum».
La prima definizione della virtù che scaturisce dall'esame delle pratiche è la seguente:
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=== Dalle virtù alla virtù e dopo la virtù ===
MacIntyre ritorna nelle utili e chiare pagine iniziali del capitolo su tutti i nodi del suo schema interpretativo. Tutto nel campo della morale diventa difficile, in questo quadro in cui l'egoismo umano è considerato un dato insuperabile di natura ed è affondata l'idea che i valori non siano una proprietà privata né espressioni di sentimenti. Merito e onore sono nozioni che divengono inutilizzabili, in quanto erano legate a una concezione condivisa del bene della comunità, del bene per l'uomo e al contributo di ciascuno alla realizzazione di tale bene. Mancando il riferimento al merito la giustizia distributiva non può che affidarsi all'idea di uguaglianza o a quella del diritto legale, entrambe molto problematiche.
Un'altra caratteristica dominante almeno da Hume in avanti è che al posto delle virtù al plurale si parla di virtù al singolare. Le virtù plurali servivano al conseguimento di un bene condiviso nel suo significato; la virtù al singolare è fine a sé stessa, enigmatica nel suo contenuto, spesso coincidente nell'immaginario sociale con la morigeratezza sessuale, o comunque con il controllo delle passioni e con il “seguire le regole”. La morale è fatta di regole, è obbedienza alle regole, le regole servono a garantire che nelle comunità umane non ci si distrugga a vicenda e si possano perseguire l'utile e il piacevole.
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