Monastero di Lispida: differenze tra le versioni

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|Nome = Monastero di Santa Maria di Lispida
|SiglaStato = Italia
|NomeFrazione = [[Monticelli]]
|NomeComune = [[Monselice]]
|Indirizzo = via IV novembre, 4 Monselice, 35043 (PD)
|Religione = [[Chiesa Cattolica]]
|DedicatoA = [[Maria (madre di Gesù)]]
|Ordine = [[Agostiniano]] [[Benedettino]] [[Eremiti di San Girolamo]]
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Il '''Monastero di Santa Maria di Lispida''' era un complesso religioso che sorgeva nelle immediate vicinanze della località Monticelli, nel comune di [[Monselice]], immerso nel cuore del [[Parco regionale dei Colli Euganei|Parco Regionale dei Colli Euganei]].
 
Dell'antico complesso rimangono solo alcune murature inglobate nella torre posta vicina all'edificio principale. Conosciuto anche come '''Villa Italia''' per aver ospitato il quartier generale del re [[Vittorio Emanuele III di Savoia|Vittorio Emanuele III]] durante le ultime fasi della [[Prima guerra mondiale|Grande Guerra]], oggi è denominato '''Castello di Lispida''' ed è conosciuto per la sua vocazione vitivinicola, oltre ad offrire spazi per la ricettività turistica, eventi e feste.<ref name=":0">{{Cita web|url=https://www.collieuganei.it/castelli/castello-di-lispida/|titolo=Castello di Lispida a Monselice|sito=Colli Euganei|lingua=IT|accesso=2024-05-20}}</ref>
 
== Storia ==
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=== La prima fase ===
[[File:Monte Lispida, 1653. Mappa dei fondi di proprietà del monastero dedicato a Santa Maria.jpg|miniatura|Monastero di Santa Maria di Lispida, 1653]]
Il monastero di Santa Maria di Lispida (nella documentazione medievale detto di “Ispida”) ha avuto una lunga e articolata storia durata sei secoli, durante i quali si sono susseguiti diverse comunità religiose.<ref name=":1">{{Cita libro|autore=Giannino Carraro|titolo=Insediamenti monastici della riviera euganea (in territorio monselicense) nel Medioevo: S. Giovanni Evangelista di Montericco, S. Michele di Bagnarolo, S. Maria di Lispida, S. Maria di Monte delle Croci|anno=1995|editore=Benedictina|città=Roma|pp=26-43}}</ref>
 
La scarsità di documentazione scritta non permette di individuare con certezza la data e le circostanze della sua fondazione; tuttavia, è possibile far risalire la presenza dei [[Canonici regolari di Sant'Agostino confederati|canonici di Sant' Agostino]] a Lispida fin dall’inizio del [[XII secolo]] quando il [[vescovo]] Sinibaldo fece insediare l’ordine dei regolari in molte diocesi di [[Padova]], contribuendo così alla sua diffusione e rinascita.
 
La prima testimonianza documentaria è una bolla di papa [[Papa Eugenio III|Eugenio III]], datata 15 giugno 1150 e indirizzata al [[priore]] Marco e ai suoi frati ''“ecclesie sancte Marie de Ispida”''<ref name=":2">{{Cita libro|curatore=Andrea Gloria|titolo=Codice diplomatico padovano: dall'anno 1101 alla pace di Costanza, (25 giugno 1183)|anno=1879|città=Venezia|pp=390-392; pp. 215-216}}</ref>, un gruppo di canonici regolari che faceva vita comune secondo il regolamento monastico diffuso fra il clero nel XII secolo. La bolla poneva il luogo sotto la speciale protezione della [[Santa Sede]], confermava l’osservanza della regola Agostiniana e il controllo di tutti i beni di cui disponevano, includendo possedimenti della loro chiesa, ma anche donazioni, largizioni o concessioni ricevute. Il papa, inoltre, concesse loro dieci appezzamenti di terra situati sul monte Lispida (di proprietà della Curia romana) in cambio di un solo bisanzio l’anno<ref name=":1" />. A causa della seconda discesa in Italia di [[Federico Barbarossa]]<ref>{{Cita libro|autore=Cesare Vignati|titolo=Storia diplomatica della Lega Lombarda|anno=1997|editore=Iuculano}}</ref>, il priore di Lispida si rifugiò nel monastero di San Zaccaria a [[Venezia]], dove fu accolto e ospitato dalla [[badessa]] Giseldura, probabilmente nell’anno 1160 (dal momento che il ritorno a Lispida avviene verso il 1164). Un documento datato 1170 riguardante una lite scaturita tra i due sul possedimento di alcuni beni che la badessa considerava come un risarcimento per le spese sostenute dal monastero, consente di affermare che il priore fu rettore di Lispida per un ventennio circa<ref name=":2" />. Nella documentazione successiva il monastero viene menzionato in occasione del censo annuale del 1192 e nel [[testamento]] di Almerico canonico della [[cattedrale]] di Padova del 14 aprile 1197, con il quale egli lasciava dieci soldi a un [[eremita]] di Lispida. Risultano importanti ai fini della ricostruzione della storia del monastero una lettera di papa [[Papa Onorio III|Onorio III]] risalente al 1225 e due bolle papali del 1226 e del 1227. Con la prima il pontefice metteva sotto la propria protezione la comunità, il monastero e tutti i beni appartenuti ai religiosi, compreso il monte di Lispida (il quale, evidentemente, da pertinenza della Santa Sede passò a essere proprietà del comune di Monselice). Con la bolla papale del 18 marzo 1226, Onorio III avanzava l’eventualità di unire Santa Maria di Lispida con Santa Maria delle Carceri, al fine di fronteggiare il gravoso stato di povertà in cui versava il complesso. Fu con la successiva bolla del 10 maggio 1227, emanata da papa [[Papa Gregorio IX|Gregorio IX]], che il priore delle Carceri ricevette l’ordine di riformare il monastero di Lispida. In quello stesso mese, papa Gregorio IX chiese ufficialmente al [[Podestà (medioevo)|podestà]] di Padova e all’[[arciprete]] di San Giovanni di Valle Veronese di porre fine alle ingiustizie perpetrate nei confronti di ''“fratres et sorores”'' di Lispida da parte di alcuni cittadini di Padova e della diocesi di Padova, colpevoli di sfruttare le risorse presenti sul monte (pietra e legname) provocando danni alla piccola comunità. La presenza di una doppia comunità viene confermata anche da un documento papale del 13 aprile 1230 e nel testamento di Buffono de Bertoloto del 9 agosto 1238 col quale lasciava quaranta soldi alle sorelle di Lispida.
 
Nonostante le disposizioni papali, l’unione con Santa Maria delle Carceri non avvenne e il monastero venne riformato con l’insediamento di una nuova comunità femminile professante la [[regola benedettina]]. Il cambio di osservanza viene testimoniato dalla copia della bolla papale di [[Papa Urbano IV|Urbano IV]] del 28 settembre 1261, conservato nell’Archivio di Stato di Padova che confermava, inoltre, i privilegi istituiti con la bolla papale di Eugenio III del 1150 ed era indirizzata alla badessa e alle monache del monastero di Lispida. Nella bolla viene riportato che, in seguito alla morte di frati e suore osservanti la regola agostiniana, la riforma del monastero di Lispida era stata compiuta da frate [[Giordano Forzatè]], priore di S. Benedetto, e dal ministro dei [[Ordine dei frati minori|frati minori]]. L’intervento avviene evidentemente prima del 1237, anno in cui frate Giordano venne esiliato fino alla morte da Ezzelino da Romano. Del periodo ezzeliniano (1237-1256) sono presenti pochissime tracce: oltre al già citato lascito del 1238, anche il pagamento da parte del monastero della [[decima]] su circa 25 campi alla pieve di Monselice, risalente alla metà del secolo. Dopo la liberazione di Padova dal regime ezzeliniano, il monastero ritorna alla piena funzionalità e regolarità come attestano le due lettere di Urbano IV inviate l’11 maggio del 1264 per l’elezione della badessa dello stesso monastero, scelta ricaduta nella loro compagna Cunizza. Dalla lettera si evince che le monache dimoranti nel monastero di Lispida fossero solo quattro: la priora Rondine, Maria, Diambra e la badessa Cunizza. Le monache potevano però contare sull’appoggio dei frati presenti nel monastero e, in particolare, con il sindaco per i rapporti esterni, eletto fra questi. Tale frate Pelegrino de Ispida, infatti, risulta come testimone in un atto di compravendita risalente al 1287 e tale frate Antonio come rappresentante del monastero nel 1293 in una causa contro la [[pieve]] di Santa Giustina di Monselice. A questo periodo risalgono alcuni lasciti provenienti dai devoti: dieci soldi al monastero da Domenichino, che abitava nella contrada del Mulinello di Codalunga e venti soldi alla monaca Madonnina da Gisla moglie di Scarabello nel 1292.
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== Cave e "priare" del monte Lispida ==
Strettamente legate alla storia del monastero di Santa Maria di Lispida sono le vicende del Monte Lispida e delle sue cave. Il monte, che si intravede sulla destra percorrendo la strada da Padova a Monselice, poco oltre il centro di Battaglia, ha sempre ricoperto un importante ruolo economico nella vita del monastero; la comunità religiosa ricavava infatti numerosi proventi dal territorio circostante. In epoca medievale a sud del monte era presente un lago posto sotto il controllo dell’ordine religioso che i monaci sfruttavano per la pesca, affittandone inoltre la [[concessione]] ai locali.<ref name=":3">{{Cita libro|autore=Maria Chiara Billanovich|titolo=Attività estrattiva negli Euganei: le cave di Lispida e del Pignaro tra Medioevo ed età moderna|anno=1997|editore=Deputazione di storia patria per le Venezie|città=Venezia|pp=2-57}}</ref> Le [[Zona umida|zone umide]] erano inoltre sfruttate per la coltivazione della ''“pavera”'', o canna lacustre, utilizzata per la realizzazione di [[Stuoia|stuoie]]. Lungo le pendici del monte si coltivavano anche la vite, l’olivo e innumerevoli altri alberi da frutto. I boschi, alternati ai prati, fornivano legname, foraggio per il bestiame e costituivano una discreta [[riserva di caccia]]. Tuttavia, la risorsa di maggior ricchezza e quella per la quale il monastero godeva di particolare rilievo era la pietra. Il monte Lispida infatti ospita dei giacimenti di [[trachite]] da taglio e in pezzame, estratta da cave coltivate lungo i versanti del colle.<ref>{{Cita libro|nome=Giamberto|cognome=Astolfi|nome2=Gianfranco|cognome2=Colombara|titolo=Geologia e paleontologia dei Colli Euganei|collana=Guide Programma|data=1990|editore=Editoriale Programma|pp=19-46|ISBN=978-88-7123-074-0}}</ref> La qualità dei giacimenti di trachite del monte deriva dal fatto che è l’unico tra i [[Colli Euganei]], oltre a [[Montemerlo]] e alla [[Rocca di Monselice]], a presentare sia la trachite da taglio, che si presenta in blocchi integri, compatti e di dimensioni lavorabili, sia a pezzatura di medie e piccole dimensione, originata dalla fratturazione dei blocchi di pietra. Alcuni studiosi individuano l’attivazione delle cave del monte già in [[Storia romana|epoca romana]]<ref>{{Cita libro|autore=Giuseppe Furlanetto|titolo=Le antiche lapidi patavine illustrate|anno=1847|editore=Tipografia Penada|città=Padova|p=95}}</ref>, ma il periodo di massimo sfruttamento e di più ampia diffusione della sua pietra è riconducibile ai secoli XV e XVI. I documenti che riguardano le cave del monte Lispida delle prime fasi del monastero sono piuttosto scarsi: è attestata la presenza di un’attività estrattiva tra l'XI e il XII secolo, sono presenti gli appelli redatti dai monaci e indirizzati al pontefice Gregorio IX, nei quali si chiedeva di porre fine ai soprusi perpetuati dalle autorità di Padova nei confronti dei monaci per il possesso delle cave e sappiamo che la disputa tra autorità religiose e laiche per affermare chi dovesse avere il controllo del monte Lispida è una costante per tutta la sua storia. A partire dal Quattrocento la documentazione si fa più ricca: dalla metà del secolo risultano attive sette cave, situate sui versanti occidentale e meridionale, mentre dalla fine del Cinquecento, a seguito dell’attivazione delle cosiddette ''“valli di Monselice”'' il loro numero scenderà. Tre ''“priare”'' si trovavano lungo la strada che da sud, conteggiando il monte, saliva verso il monastero, una era prossima ad una via d’acqua, utilissima per il trasporto della pietra estratta, un’altra denominata ''“Priara Magna”'', e due adiacenti al monastero e alla chiesetta. Le fonti ci informano che su queste ultime due cave il monastero esercitava un controllo più diretto, in modo che l’attività estrattiva non influisse e disturbasse le regolari attività svolte all’interno del cenobio.
 
Le pietre estratte erano prevalentemente di due tipi: massi informi di notevole peso utilizzati dai veneziani per la realizzazione di difese a mare e di [[Murazzi (Venezia)|murazzi]] (dal Quattrocento la [[Repubblica di Venezia|Serenissima]] inizia a sfruttare a pieno regime le cave di Lispida, la cui pietra è affiancata al calcare d’Istria nella realizzazione di opere a mare) o pietra estratta di maggiore pregio soggette ad attività di sgrezzatura, sbozzatura, e squadratura eseguite in cava e successivamente utilizzata per costruzioni, pavimentazioni e ornamenti.<ref name=":3" /> Dal Cinquecento all’estrazione della trachite inizia ad affiancarsi anche l’estrazione del [[calcare]], utilizzato soprattutto come materia prima per la produzione di calce necessaria per l’edilizia locale e anche per Padova. Alle cave lavoravano i ''“maestri priaroli”'' o ''“lapicide”'', a cui si affiancavano lavoratori meno qualificati e bassa manodopera che provenivano generalmente dai paesi limitrofi. I lavoratori vivevano in poveri ripari nelle zone adiacenti alle cave e il necessario alla sussistenza era fornito loro dai monaci del convento. Era sottoposto a controllo il numero di animali che i cavatori potevano possedere ed era loro vietato vivere con una donna; il monastero aveva facoltà di chiedere delle prestazioni di opera gratuite qualora ce ne fosse necessità e di vietare la raccolta di legna nei boschi di pertinenza del monastero.<ref name=":3" /> Tutto questo è sintomo della forte autorità che il monastero esercitava sui cavatori di pietra e, in generale, del controllo su tutte le attività che avvenivano sul monte Lispida.
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La documentazione scritta relativa alle tecniche di estrazione della trachite e all’attrezzatura utilizzata è piuttosto numerosa, dato che il monastero mirava ad un alto controllo della produzione, auspicabilmente ottenibile con la minor spesa possibile. La pietra veniva estratta utilizzando sia la tecnica del taglio dall’alto, e successivo distacco tramite mazza e cunei, sia la tecnica del franamento, operata con picconi e grosse leve. Il materiale veniva sbozzato e preliminarmente lavorato già in cava da degli [[Taglio della pietra|scalpellini]]; l’attrezzatura necessaria apparteneva ai lavoratori (solo in rari casi è attestato appartenesse al monastero) e i piazzali prospicenti le zone di estrazione e lavorazione della pietra non andavano modificati in alcun modo e dovevano rimanere puliti e sgomberi da tutti gli scarti di lavorazione. La gestione dell’attività di cava da parte dei monaci è stata per gran parte della sua storia una gestione diretta: il cenobio affidava ad un maestro ''priarolo'' in concessione, tramite un contratto, la gestione di una cava, mentre il prezzo e la vendita della trachite spettava al priore o a colui che designava per quell’incarico. Con il subentro dei monaci Gerolamini nel monastero, la gestione del monte diventò indiretta: essi appaltarono le cave ad un qualche imprenditore che gestiva in completa autonomia il lavoro e la vendita del materiale. I gestori della cave si rivelarono essere esponenti dell’[[Élite (sociologia)|élite]] cittadina padovana e veneziana che, in questo modo, potevano espandere la loro rete di affari e di interessi verso l’entroterra e le zone rurali. Le ingerenze dei privati imprenditori, con il passare dei decenni e poi dei secoli, si fecero sempre più pesanti, tanto che i documenti riportano una serie di lamentele da parte dei religiosi che dureranno fino alla soppressione del monastero di Santa Maria di Lispida.
 
Una parte importante della storia delle cave del monte Lispida riguarda il loro rapporto con la Repubblica di Venezia. Un documento di metà Quattrocento attesta la stipula di un accordo tra i funzionari addetti alla gestione e alla realizzazione delle difese a mare della Laguna, i gestori della cave del monte Lispida e il priore del monastero, fatto che aveva reso la Serenissima il maggiore acquirente della trachite proveniente da queste cave.<ref>{{Cita libro|autore=Ivone Cacciavillani|titolo=Le leggi veneziane sul territorio 1471-1789. Boschi, fiumi, bonifiche e irrigazioni|anno=1984|editore=Signum|città=Limena|pp=190-191}}</ref> Gli accordi, che imponevano il divieto della vendita a privati della pietra destinata a Venezia (le cave erano quindi fondamentali per la città e per la strategia militare veneziana), furono il tentativo da parte della Serenissima di instaurare una sorta di [[monopolio]]. I contratti regolavano anche la navigazione lungo i canali che portavano alle cave, in modo che le operazioni di trasporto fossero il più agevoli possibile.
 
Una delle fortune delle cave del monte Lispida risiede nel fatto che esse si trovavano nelle vicinanze della fitta rete di canali che permettevano un rapido collegamento con tutti i centri urbani maggiori e con il mare. Le pietre, una volta estratte, venivano trasportate con dei carri fino ad un canale denominato ''“canal de Arqua”'', che scorreva lambendo le pendici meridionali del monte. Le ''“pietre da lido”'' erano portate fino in località Pizzon, ad est di Battaglia, dove venivano trasbordate su imbarcazioni più grandi e fatte viaggiare fino alla laguna di Venezia. Questo tratto venne interrato, con forti conseguenze per il trasporto della pietra, nel 1562, a seguito del ''“retratto di Monselice”'', ovvero un’ampia bonifica della zona, che impose un importante riassetto idraulico della zona.<ref name=":3" />
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* {{Cita libro|autore=Giuseppe Furlanetto|titolo=Le antiche lapidi patavine illustrate|anno=1847|editore=Tipografia Penada|città=Padova}}
* {{Cita libro|curatore=Andrea Gloria|titolo=Codice diplomatico padovano: dall'anno 1101 alla pace di Costanza (25 giugno 1183)|anno=1879|città=Venezia}}
* {{Cita libro|autore=Cesare Vignati|titolo=Storia diplomatica della Lega Lombarda|anno=1997|editore=Iuculano}}
 
== Voci correlate ==