Verità: differenze tra le versioni
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=== L'etimologia greca ===
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L'esigenza di ricercare la verità fu un tratto caratteristico già della [[filosofia greca]], che per prima sollevò il problema dell'[[essere]], ossia di ciò che veramente ''è''. Il termine [[lingua greca|greco]] utilizzato per indicare la ''verità'' era {{polytonic|ἀλήθεια}}, ''[[Aletheia|alétheia]]'', la cui [[etimologia]], come ha messo in luce [[Heidegger]],<ref>[[Martin Heidegger]], ''Dell'essenza della verità'' (conferenza del [[1930]] pubblicata nel [[1943]]) in ''[[Segnavia (Heidegger)|Segnavia]]'', trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987.</ref> significa «non nascondimento», in quanto è composta da alfa privativo (α-) più λέθος, ''léthos'', che vuol dire propriamente eliminazione dell'oscuramento, ovvero disvelamento. [[Doxa (filosofia)|Doxa]] è invece la verità relativa dell'opinione comune che si forma in [[democrazia]] anche a seguito della [[persuasione]] [[Retorica (Aristotele)|retorica]] e non necessariamente come [[inferenza]] [[logica]]. La verità infatti era intesa non come una semplice realtà di fatto, ma come un atto dinamico, mai concluso, attraverso cui avviene la confutazione dell'errore e il riconoscimento del falso: non un pensiero statico e definito una volta per tutte, bensì movimento di [[rivelazione]] dell'essere.
Se i [[sofisti]], da un lato, tendevano a relativizzare il concetto dell'essere sulla base di un soggettivismo e nichilismo radicali, fu con [[Socrate]] e il suo discepolo [[Platone]] che si ebbe una forte reazione a questa concezione,<ref>Vedasi il dialogo ''[[Teeteto]]'' di Platone.</ref> facendo della verità un bisogno fondamentale dell'[[anima]], che si distingue nettamente dalle opinioni per la sua intrinseca validità e oggettività. Ne conseguì il carattere [[Bene (filosofia)|etico]] della verità.
▲{{Vedi anche|Kalokagathia}}
Sarà poi con [[Aristotele]] che verranno fissati in maniera quasi scientifica i caratteri della verità; egli, ad esempio, giudicava erroneo il detto del sofista [[Protagora]] secondo cui «l'uomo è misura di tutte le cose», proprio perché privava la verità di coerenza logica e di qualunque criterio oggettivo.<ref>Aristotele, ''Metafisica'', 1062 b 14.</ref> La verità si ha per lui quando l'[[intelletto]] giunge a coincidere con l'oggetto da conoscere, facendolo passare dalla potenza all'atto.<ref>«C'è un intelletto analogo alla materia perché diviene tutte le realtà, ed un altro che corrisponde alla causa efficiente perché le produce tutte, come una disposizione del tipo della luce, poiché in certo modo anche la luce rende i colori che sono in potenza colori in atto» (Aristotele, ''Sull'anima'', libro III, in F. Volpi, ''Dizionario delle opere filosofiche'', pag. 92, Mondadori, Milano 2000).</ref> Nella contemplazione fine a se stessa della verità risiede per Aristotele la [[felicità]] e lo scopo ultimo della conoscenza [[metafisica]].
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