Lingue d'Italia: differenze tra le versioni
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Pregiudizi e opinioni denigratorie sul valore delle varietà locali, levatesi dal mondo della cultura, sono stati assecondati da politiche che svalutavano e non rispettavano i patrimoni linguistici italiani, in particolare durante il [[fascismo]]<ref>{{Cita testo|autore=Nicola Cardia|titolo=Il neopurismo e la politica linguistica del fascismo|pubblicazione=Écho des Études Romanes|editore=Jihočeská Univerzita v Českých Budějovicích|città=České Budějovice|data=giugno 2008|url=https://www.eer.cz/pdfs/eer/2008/01/04.pdf|accesso=1 settembre 2025}}</ref>, che addirittura attuò una persecuzione delle minoranze alloglotte<ref>{{Cita libro|titolo=Lingue d'Europa|autore=Fiorenzo Toso|editore=Baldini Castoldi Dalai Editore|città=Milano|anno=2006|capitolo=L'Italia|p=64|citazione=La politica nei confronti dei patrimoni linguistici e delle culture minoritarie fu improntata, in generale, ad un atteggiamento di sottostima e di non rispetto, che, se nei confronti dei dialetti italiani e collegati assecondava pregiudizi eruditi e concezioni comunque detrattive del loro significato culturale, per quello che riguarda le minoranze alloglotte divenne col tempo una vera e propria repressione culturale, soprattutto negli anni del fascismo.}}</ref><ref>{{Cita web|autore=Alberto Raffaelli|url=https://www.treccani.it/enciclopedia/lingua-del-fascismo_(Enciclopedia-dell%27Italiano)|titolo=Lingua del fascismo|sito=Treccani.it|editore=Istituto della Enciclopedia Italiana|data=2010|accesso=1 settembre 2025}}</ref>, in quanto, soprattutto a partire dagli anni trenta, il regime iniziò a vedere nelle varietà locali una minaccia all’unità culturale e linguistica del paese
<ref name="avolio">{{Cita libro|titolo=Lingue e dialetti d’Italia|autore=Francesco Avolio|editore=Carocci|città=Roma|anno=2009|capitolo=Tra lingua e dialetto|pp=86-87|citazione=Il rapporto tra dialetti e scuola, o se si preferisce, fra culture regionali e didattica è sempre stato molto difficile e controverso. Fin dagli anni successivi all’Unità, infatti, malgrado gli interventi di personalità come Manzoni e Ascoli, tendenze efficacemente definite “dialettofobe” sono riuscite ad avere la meglio nell’elaborazione e nella stesura i linee programmatiche e disposizioni ministeriali. Così è stato, per esempio con i programmi scolastici per le elementari del 1905, del 1934 e del 1955 e con quelli della nuova scuola media unica del 1963, che hanno infatti ignorato pressoché del tutto il patrimonio linguistico e culturale dell’alunno, vedendo nei dialetti quasi solo un’inevitabile fonte di errori di pronuncia, quando non oggetto di scherno e derisione. Poche, anche se meritorie, le eccezioni, fra cui l’iniziativa del ministro Paolo Boselli […] nel 1890 […] e, soprattutto i nuovi programmi della scuola elementare del 1923 inclusi nella riforma di Giovanni Gentile, che si debbono all’illustre pedagogo Giuseppe Lombardo Radice. […] Dopo il drastico giro di vite imposto negli anni trenta dal secondo fascismo, per il quale il folklore […] e i dialetti erano ormai divenuti una minaccia per quel valore assoluto rappresentato dall’unità culturale e linguistica della nazione, un vero e decisivo cambiamento si sarebbe potuto registrare soltanto nel 1979, con i nuovi programmi della scuola media, anche grazie all’influsso delle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, formulate nel 1975 da un gruppo di linguisti e pedagogisti riuniti nel GISCEL […]. In questi programmi i dialetti sono ormai divenuti una «varietà idiomatica da accettare a pieno titolo tra le altre varietà che compongono il quadro multiforme della realtà sociolinguistica italiana d’oggi». Ma le difficoltà, dopo oltre un secolo d’inerzia, non potevano certo finire di colpo, come testimoniano i vivaci dibattiti e gli ottimi contributi di insegnanti e linguisti pubblicati fino ad oggi in varie sedi, fra cui, in primo luogo, la Rivista Italiana di Dialettologia e gli atti di alcuni convegni organizzati annualmente dal GISCEL}}</ref> e un possibile incoraggiamento di istanze [[Autonomismo|autonomiste]]<ref name="d’agostino">{{Cita libro|titolo=Sociolinguistica dell’Italia contemporanea|autore=Mari D’Agostino|editore=Il Mulino|città=Bologna|anno=2007| capitolo=Immagini di un recente passato. Dinamiche linguistiche e dinamiche sociali|p=37}}</ref>. Eppure, inizialmente, la riforma fascista dell’istruzione varata nel 1923 dal ministro [[Giovanni Gentile]], i cui programmi didattici furono redatti da [[Giuseppe Lombardo Radice]], mise da parte l’atteggiamento antidialettale predominante nella scuola, ponendosi l’obiettivo di sconfiggere l’analfabetismo partendo dal retroterra linguistico dell’alunno prima di approdare alla lingua nazionale (secondo il metodo «dal dialetto alla lingua»)<ref name="d’agostino">{{Cita libro|titolo=Sociolinguistica dell’Italia contemporanea|autore=Mari D’Agostino|editore=Il Mulino|città=Bologna|anno=2007| capitolo=Immagini di un recente passato. Dinamiche linguistiche e dinamiche sociali|p=37|citazione=Nel 1923, appena un anno dopo la marcia su Roma, fu varata la riforma della scuola ad opera del filosofo, e in quegli anni ministro dell’istruzione, Giovanni Gentile. I programmi scolastici redatti nello stesso anno da Giuseppe Lombardo Radice si contraddistinsero per un superamento della dialettofobia fino a quel momento imperante nella scuola. Giuseppe Lombardo radice, direttore generale dell’istruzione primaria e popolare dal 1922 al 1924, si impegna profondamente in un programma di lotta all’analfabetismo che ha come base il metodo «dal dialetto alla lingua». I capisaldi di tale sistema sono: - partire dal retroterra linguistico e culturale dell’alunno; - prevenire all’apprendimento dell’italiano per mezzo della traduzione di testi di letteratura}}</ref><ref name="avolio" />. Fu invece dai programmi scolastici del 1934 («programmi Ercole») che i “dialetti” tornarono ad essere considerati solo fonte di errori, da sanzionare, come era stato in quelli del 1905 e come sarà in quelli del 1955<ref name="avolio" /><ref name="d’agostino" />.
Dunque la scuola, anche dopo il regime, fu teatro di un’aspra battaglia contro tali idiomi, giudicati come il principale ostacolo nell'apprendimento di un italiano corretto e basato su modelli letterari, che fu usato come strumento di selezione sociale per un secolo dopo l’unificazione del paese: questa generale “dialettofobia” istituzionale perdurò fin oltre la metà del XX secolo (simbolicamente viene da alcuni indicata la data del 1962/1963, anno dell’istituzione della scuola media unica, seppure in essa si siano verificati anche successivamente atteggiamenti “antidialettali”)<ref>{{Cita testo|lingua=en|autore=Arturo Tosi|titolo=The Language Situation in Italy|pubblicazione=Current Issues in Language Planning|data=22 dicembre 2008|url=https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/14664200408668259|pp=277-290|citazione=The commitment shown by the school authorities to impose the ‘good’ models of the literary language led to such radical stigmatisation of the local dialects (called malerba dialettale or ‘dialectal weeds’), that for the first 100 years the mastery of the national language in schools was used as an instrument of social selection. […] The situation changed in the 1960s when attendance of the lower secondary school (three years in addition to primary level) became compulsory, and when this middle school became comprehensive with the reform scuola media unica in 1963.|accesso=24 febbraio 2025}}</ref><ref name="trecc-marcato" /><ref name="mari" />. Un ulteriore cambiamento di prospettiva, in positivo, si ebbe con i nuovi programmi della scuola media del 1979<ref name="avolio" />.
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