Giovanni Pascoli: differenze tra le versioni

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===La poesia come "mondo" che protegge dal mondo===
Per quello scemo di
Per Pascoli la poesia ha natura irrazionale e con essa si può giungere alla verità di tutte le cose; il poeta deve essere un poeta-fanciullo che arriva a questa verità mediante l'irrazionalità e l'intuizione. Rifiuta quindi la ragione e, di conseguenza, rifiuta il Positivismo (che era l'esaltazione della ragione stessa e del progresso), approdando, come si è detto, al decadentismo. La poesia diventa così analogica, cioè senza apparente connessione tra due o più realtà che vengono rappresentate; ma, appunto, solo apparentemente: in realtà c'è una connessione (a volte anche un po' forzata) tra i concetti ed il poeta spesso e volentieri è costretto a "voli vertiginosi" per mettere "in comunicazione" questi concetti. La poesia irrazionale o analogica è una poesia di svelamento o di scoperta e non di invenzione. I motivi principali di questa poesia devono essere "umili cose": cose della vita quotidiana, cose modeste o familiari. Nella vita dei letterati italiani degli ultimi due secoli ricorre pressoché costantemente la contrapposizione problematica tra mondo cittadino e mondo agreste, intesi come portatori di valori opposti: mentre la [[Campagna (ambiente)|campagna]] appare sempre più come il "paradiso perduto" dei valori morali e culturali, la [[città]] diviene simbolo di una condizione umana maledetta e snaturata, vittima della degradazione morale causata da un ideale di progresso puramente materiale. Questa contrapposizione può essere interpretata sia alla luce dell'arretratezza economica e culturale di gran parte dell'[[Italia]] rispetto all'evoluzione industriale delle grandi nazioni [[Europa|europee]], sia come conseguenza della divisione politica e della mancanza di una grande metropoli unificante come erano [[Parigi]] per la [[Francia]] e [[Londra]] per l'[[Inghilterra]]. I "luoghi" poetici della "terra", del "borgo", dell'"umile popolo" che ricorrono fino agli anni del [[Prima guerra mondiale|secondo dopoguerra]] non fanno che ripetere il sogno di una piccola [[patria]] lontana, che l'ideale unitario vagheggiato o realizzato non spegne mai del tutto.<br/>
Decisivo nella continuazione di questa tradizione fu proprio Pascoli, anche se i suoi motivi non furono quelli tipicamente [[ideologia|ideologici]] degli altri scrittori, ma nacquero da radici più intimistiche e soggettive. Nel [[1899|'99]] scrisse al pittore De Witt: {{citazione necessaria|«''C'è del gran dolore e del gran mistero nel mondo; ma nella vita semplice e familiare e nella contemplazione della natura, specialmente in campagna, c'è gran consolazione, la quale pure non basta a liberarci dall'immutabile destino''».}}
In questa contrapposizione tra l'esteriorità della vita sociale (e cittadina) e l'interiorità dell'esistenza familiare (e agreste) si racchiude l'idea dominante - accanto a quella della morte - della poesia pascoliana.<br/> Dalla casa di [[Castelvecchio]], dolcemente protetta dai [[bosco|boschi]] della [[Media Valle del Serchio]] vicino al borgo medievale di [[Barga]], Pascoli non "uscì" più (psicologicamente parlando) fino alla morte.<br/> Pur continuando in un intenso lavoro di pubblicazioni [[poesia|poetiche]] e [[saggio|saggistiche]], e accettando nel [[1905]] di succedere a Carducci sulla cattedra dell'[[Università di Bologna]], egli ci ha lasciato del mondo una visione univocamente ristretta attorno ad un "centro", rappresentato dal mistero della natura e dal rapporto tra amore e morte.<br/> Fu come se, sopraffatto da un'angoscia impossibile a dominarsi, il poeta avesse trovato nello strumento intellettuale del componimento poetico l'unico mezzo per costringere le paure ed i fantasmi dell'esistenza in un recinto ben delimitato, al di fuori del quale egli potesse continuare una vita di normali relazioni umane. A questo "recinto" poetico egli lavorò con straordinario impegno creativo, costruendo una raccolta di versi e di forme {{citazione necessaria|che la letteratura italiana non vedeva, per complessità e varietà, dai tempi di [[Gabriello Chiabrera|Chiabrera]].}} La ricercatezza quasi sofisticata, e artificiosa nella sua eleganza, delle [[metrica|strutture metriche]] scelte da Pascoli - mescolanza di [[novenari]], [[quinari]] e [[quaternari]] nello stesso componimento, e così via - è stata interpretata come un paziente e attento lavoro di organizzazione razionale della forma poetica attorno a contenuti psicologici informi e incontrollabili che premevano dall'inconscio. Insomma, esattamente il contrario di quanto i [[Simbolismo|simbolisti]] francesi e le altre avanguardie artistiche del primo [[XX secolo|Novecento]] proclamavano nei confronti della spontaneità espressiva. Anche se l'ultima fase della produzione pascoliana è ricca di tematiche socio-politiche (''Odi e inni'' del [[1911]], i ''Poemi italici'' e i ''Poemi del Risorgimento'', postumi; nonché il celebre discorso ''La grande Proletaria si è mossa'' tenuto nel [[1911]] in occasione di una manifestazione a favore dei feriti della [[Guerra Italo-Turca|guerra di Libia]]), non c'è dubbio che la sua opera più significativa è rappresentata dai volumi poetici che comprendono le raccolte di Myricae e dei [[Canti di Castelvecchio]] ([[1903]]). Il "mondo" di Pascoli è tutto lì: la natura come luogo dell'anima dal quale contemplare la morte come ricordo dei lutti privati. {{Quote|Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensiero della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico. D'altra parte queste poesie sono nate quasi tutte in campagna; e non c'è visione che più campeggi o sul bianco della gran nave o sul verde delle selve o sul biondo del grano, che quella dei trasporti o delle comunioni che passano: e non c'è suono che più si distingua sul fragor dei fiumi e dei ruscelli, su lo stormir delle piante, sul canto delle cicale e degli uccelli, che quello delle Avemarie.''Era uno stronzo