Volontà: differenze tra le versioni

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Leibniz accettò l'idea della volontà come semplice autonomia dell'uomo, ossia accettazione di una legge che egli stesso riconosce come tale, ma cercando di conciliarla con la concezione cristiana della libertà individuale e della conseguente responsabilità.<ref>Egli sostenne infatti che «quando si discute intorno alla libertà del volere o del libero arbitrio, non si domanda se l'uomo possa far ciò che vuole, bensì se nella sua volontà vi sia sufficiente indipendenza» (Leibniz, ''Nuovi saggi'', II, 21).</ref>. Egli ricorse pertanto al concetto di [[monade]], ossia di "centro di forza" dotato di una propria volontà, che sussiste insieme ad altre infinite monadi, tutte inserite in un quadro di armonia prestabilita, la quale però non è dominata da una razionalità rigidamente meccanica. Si tratta quindi di una razionalità superiore, voluta da Dio per un'esigenza di moralità, da comprendere in un'ottica [[finalismo|finalistica]], nella quale anche il male trova la sua giustificazione: come elemento che nonostante tutto concorre al bene e che ''all'infinito'' si risolve in quest'ultimo.
 
Per Kant la volontà è lo strumento che ci permette di agire, obbedendo sia agli imperativi ipotetici (in vista di un obiettivo), sia a quelli categorici, dettati unicamente dalla legge morale. Solo nel caso degli imperativi categorici la volontà è ''pura'', perchè in tal caso non comanda alcunchè di particolare: essa è formale, cioè prescrive solo come la volontà debba atteggiarsi, non quali singoli atti deve compiere.
 
In un mondo dominato dalle leggi deterministiche della natura (fenomeni), la volontà morale è ciò che rende possibile la libertà, perchè obbedisce ad un comando che essa stessa si è liberamente dato, non certo in maniera arbitraria, bensì conformemente alla sua natura razionale (noumeno). Essa però non comanda il "Bene": per Kant l'unica cosa buona è la volontà intrinsecamente buona.
 
Riprendendo il Kant della ''Critica del Giudizio'', [[Fichte]] e [[Friedrich Schelling|Schelling]] esaltarono la volontà come assoluta attività dell'Io, o dello [[Spirito]], in contrapposizione alla passività del non-io, o della Natura, nell'ottica però di un rapporto [[dialettica|dialettico]] che si risolve nella supremazia rispettivamente dell'etica, o dell'arte.
Per [[Hegel]] invece un tale rapporto si risolve nella supremazia della Ragione dialettica stessa, dando adito alle critiche di chi, come Schelling, sostenne l'impossibilità di ricondurre un libero atto di volontà entro il rigido schema razionale della dialettica.
 
 
Kant arriva a concludere che l'etica non è fondabile razionalmente ma che è un imperativo categorico che la volontà deve darsi liberamente.