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Una volta trasferite le quote all'Istituto, questo avviò una propria campagna di mobilitazione del credito attraverso lo strumento delle obbligazioni industriali garantite dallo Stato. L'operazione fu l'applicazione in larga scala di quanto era già stato abbozzato con l'INA, ovvero l'organizzazione del piccolo risparmio che le banche, vincolate in legami a doppio filo con il sistema industriale, non riuscivano ad impiegare in reali processi di sviluppo.
 
In questo modo l'IRI, e quindi lo [[Stato]], smobilizzò le banche miste, diventando contemporanenamente proprietario di oltre il 20% dell'intero capitale azionario nazionale e di fatto il maggiore [[imprenditore]] italiano, con aziende come [[Ansaldo]], [[Ilva]], [[Cantieri Riuniti dell'Adriatico]], [[TelecomSIP Italia- Società Idroelettrica Piemontese|SIP]], [[SME (azienda)|SME]], [[Acciaierie di Terni|Terni]], [[Edison]]. Si trattava in effetti di aziende che già da molti anni erano vicine al settore pubblico, sostenute da politiche tariffarie favorevoli e da commesse belliche. Inoltre l'IRI possedeva le tre maggiori banche italiane.
 
Al 1934, il valore nominale del patrimonio industriale era di 16,7 miliardi di lire, pari al 14,3% del Pil. Tra i principali trasferimenti all'ente figuravano<ref>Mimmo Franzinelli, Marco Magnani, ''Beneduce, il finanziere di Mussolini'', Mondadori 2009, pagg. 229-230</ref>: