Gaio Licinio Macro: differenze tra le versioni

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==Una fine controversa==
Della morte di Macro abbiamo tre fonti letterarie: [[Cicerone]], [[Valerio Massimo]] e [[Plutarco]].
Plutarco nella ''Vita di Cicerone'' scrive: «Licino Macro, uomo già potente nella città di per sé e per di più appoggiato da [[Marco Licinio Crasso|Crasso]]. Un'inchiesta per peculato fu condotta a suo carico da Cicerone. Licino Macro, confidando nel proprio potere e nei propri appoggi, quando ancora i giudici non avevano deciso il verdetto, tornò a casa, si fece tagliare i capelli e indossò in fretta un mantello bianco, per andare nel foro di nuovo, da vincitore. Sotto casa, però, incontrò Crasso, venuto a dirgli che era stato condannato all'unanimità. Tornò quindi indietro, si mise a letto e morì» <ref>Plutarco, Demostene e Cicerone 9 (a cura di C. Pecorella e B. Mugello)</ref>.Da quanto scrive Plutarco si dovrebbe ricavare la vicinanza di Macro a Crasso, informazione che non è convalidata dalle atre fonti. Questa idea potrebbe confermare la descrizione di Cicerone, che presenta Macro come inimicus. Nella Pro Rabirio perduellionis reo (orazione del 63 a.C.), tenuta davanti al popolo, in difesa di Rabirio, condannato a morte per l'uccisione del tribuno Saturnino nel 100 a.C., considerato delitto contro lo Stato. Cicerone rinvia a Macro: «A meno che tu non ritenga per caso che la tua accusa concernente la profanazione di luoghi e boschi sacri meriti una lunga confutazione, visto che a questo proposito ti sei limitato a dire che si tratta di un'imputazione formulata con Rabirio da Licinio Macro; ma sempre a questo proposito io mi meraviglio che tu, mentre hai ricordato l'accusa rivolta a Rabirio da Macro, su nemico hai invece dimenticato la sentenza pronunciata da giudici imparziali e sotto il vincolo del giuramento» <ref>M. Tullio Cicerone, Pro Rabirio perduellionis reo, in id. Le orazioni (a cura di Giovanni Bellardi):Nisi forte de locis religiosis ac de lucis quos ab hoc violatos esse dixisti pluribus verbis tibi respondendum putas; quo in crimine nihil est umquama abs te dictum, nisi a C. Macro obiectum esse crimen id C. Rabirio. In quo ego demiror meminisse te quid obiecerit C. Rabirio Macer inimicus, oblitum esse quid aequi et iurati iudices iudicarint</ref>. Cicerone ricorda che per difendere dalle accuse il suo assistito sarebbe sufficiente solo mezzora ma poi capisce che data la limitazione di tempo impostagli le accuse secondarie lo distoglierebbero dalla confutazione principale, inducendolo a perdere tempo rispetto la difesa. L'accusa secondaria è ripresa da una vecchia di Macro del 66 a.C. (tre anni prima del presente processo): aver violato luoghi sacri e boschi. Cicerone si stupisce della ripresa di questa infondata accusa e mette in luce che l'accusa di un avversario (“inimicus”) non può avere alcun valore e inoltre i giudici avevano non accettato le argomentazioni di Macro. [[Plutarco]] presenta Macro come convinto della sua assoluzione, per questo decide di indossare un abito bianco, simbolo della festa e della vittoria. [[Valerio Massimo]] invece riporta che Macro si sarebbe ucciso prima della condanna soffocandosi. [[Cicerone]] non pronunciò la sentenza ma questa descrizione è contestata dallo stesso Arpinate. [[Valerio Massimo]] nel capitolonono IXlibro dei suoi ''[[Factorum et dictorum memorabilium libri novemIX]]'' descrive le morti di uomini illustri, come [[Tullio Ostilio]], [[Eschilo]], [[Euripide]], [[Socrate]] e altri. Tra i personaggi ricordati c'è l'ex-pretore Gaio Licinio Macro, che salì sulla balconata della Basilica; durante il conteggio dei voti per l'accusa de repetundis (di concussione). Cicerone che presiedeva il tribunale, saputo che Macro con un fazzoletto si voleva soffocare («un fazzoletto per caso aveva in mano la bocca e la gola, si uccise per soffocamento, antivenendo così la sentenza» <ref>V. Massimo, Detti e fatti memorabili IX, 12 (a cura di R. Faranda):forte in manu habebat, ore et faucibus suis coartatis incluso spiritu poenam morte praecucurrit</ref>,decise di non pronunciare la condanna. Questa descrizione è contraddetta dallo stesso Arpinate in una lettera ad Attico, in cui dichiara di essersi comportato con indulgenza e che «Qui a Roma ho condotto a buon fine il processo di Gaio Macro, trovandomi sorretto dallo sbalorditivo consenso popolare, che proprio non mi aspettavo. Io, a dire il vero, mi ero comportato con ragionevole indulgenza nei riguardi dell'imputato, tuttavia la sua condanna mi ha fruttato, per quel che ne pensa la gente, prestigio molto maggiore di quello che ne avrei ottenuto dalla sua riconoscenza, se egli fosse stato assolto» <ref>M. Tullio Cicerone, Epistole, ad Attico II 4 (a cura di C. Di Spigno):Nos hic incredibili ac singulari populi [de] voluntate de C. Macro transegimus. Cui cum aequi fuissemus, tamen multo maiorem fructum ex populi existimatione illo damnato cepimus quam ex ipsius, si absolutus esset, gratia cepissemus</ref>.
 
==Note==