Ferruzzi: differenze tra le versioni
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Dopo avere preso il controllo della [[Montedison]] con una spesa di circa {{formatnum:2000}} miliardi di [[lira italiana|lire]] dell'epoca, il gruppo Ferruzzi-Montedison diventò il secondo gruppo industriale privato italiano con ricavi per circa {{formatnum:20000}} miliardi di lire, con {{formatnum:52000}} dipendenti e più di 200 stabilimenti in tutto il mondo, oltre che il maggior produttore europeo di [[Saccarosio|zucchero]] e in posizioni di vertice per quello che riguarda olii di semi, farine proteiche e [[amido]]; in parallelo alla taglia, cresceva però anche l'indebitamento del gruppo, che riguardava sia la [[holding]] ''Ferfin'' che le controllate.
Attraverso Montedison, la Ferruzzi si ritrovò coinvolta nell'affare [[Enimont]] (la fusione dei due colossi chimici del Paese, Montedison ed [[EniChem]]), che si trascinò per due anni tra il 1989 e il 1990, e che si concluse con la quasi totale uscita della Montedison dal settore chimico. Nel giugno 1991, in modo abbastanza inaspettato, Gardini fu estromesso da tutte le cariche che ricopriva nelle società del gruppo, sostituito in Ferfin da Arturo Ferruzzi e in Montedison da [[
Negli stessi giorni la Ferfin dichiarò la propria incapacità di fare fronte al pagamento degli interessi sul debito e la famiglia Ferruzzi conferì a un comitato di banche creditrici (coordinato da [[Mediobanca]]) un «mandato esclusivo ed irrevocabile» per la predisposizione di un piano di ristrutturazione, rinunciando nel contempo a tutte le cariche societarie, a qualsiasi decisione strategica riguardante il gruppo e infine alle proprie azioni, conferite in pegno ai creditori. Con l'accordo del 17 giugno 1995 le banche (ben 311) rinunciarono a 1126 miliardi di lire di crediti e comprarono a 1950 lire l'una, al doppio cioè delle quotazioni di Borsa, le azioni Ferruzzi rimaste in mano alla famiglia che così poté riprendersi le tenute in Argentina, proprietà come la villa a Roma sull'Appia Antica, qualche decina di miliardi di liquidità.<ref>Anna Di Martino, ''Il Mondo'', 28 giugno 2002. Cfr Massimo Mucchetti, ''Licenziare i padroni?'', Milano, Feltrinelli, 2003, p. 72.</ref> Anni dopo,
{{citazione|...Maranghi (allora a capo di Mediobanca) aveva delineato un quadro drammatico della situazione della Ferruzzi-Montedison. Aveva detto che non c'era più nulla da fare perché il debito era diventato insostenibile. L'indebitamento ammontava a 25 mila miliardi, in gran parte faceva capo alle società industriali del Gruppo che erano in ottima salute. Ed era minore di quello della [[FIAT]], di cui nessuno sosteneva la drammaticità della situazione. Inoltre noi avevamo un maggiore ''[[cash flow]]''. Dove stava dunque la drammaticità?|
In realtà l'indebitamento era di 31 mila miliardi di lire.<ref>Il 13 marzo 1995 Enrico Cuccia rispose al pubblico ministero Francesco Mauro Iacoviello che lo interrogava a Ravenna: "Nella mia esperienza io non ho mai conosciuto una ristrutturazione finanziaria dell'ordine di 31 mila miliardi. L'unico precedente paragonabile (...) si riferisce al 1933 quando venne costituito l'IRI per rilevare le immobilizzazioni della Comit, del Credit e della Banca di Roma per 12 miliardi di lire dell'epoca che corrisponderebbero grosso modo ai 31 mila miliardi attuali o forse anche meno. Ma occorre anche considerare che nel caso del Gruppo Ferruzzi le banche non erano 3 ma 311". Cfr Fulvio Coltorti, ''La Mediobanca di Cuccia'', Torino, G.Giappichelli Editore, 2017, p.43.</ref> Inoltre Mediobanca tentò anche di consentire alla famiglia ravennate di mantenere una partecipazione quale azionista di riferimento "ma i Ferruzzi si rifiutarono di conferire le risorse. Contavano forse sul principio (errato) che Mediobanca dovesse aiutare le famiglie a scapito delle imprese".<ref>Fulvio Coltorti, ''La Mediobanca di Cuccia'', op.cit., p. 33.</ref>
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