Teodicea babilonese: differenze tra le versioni

Contenuto cancellato Contenuto aggiunto
Nessun oggetto della modifica
mNessun oggetto della modifica
Riga 1:
Con il titolo moderno di "Teodicea babilonese" si indica, a partire da Wilfred G. Lambert che lo ha pubblicato nel 1960<ref>In Wilfred G. Lambert ''Babylonian Wisdom Literature'', 1960, Oxford, Oxford University Press, pp. 63-91.</ref>, un testo redatto in lingua accadica rinvenuto incompleto in una dozzina di tavole e frammenti nella biblioteca reale del palazzo del re[[ Assurbanipal]] (Aššur-bāni-apli) a Ninive, capitale dell'impero assiro; e in due frammenti recuperati a Sippar. Lambert ritiene di datarlo intorno all' XI secolo a.C.
 
Il testo è in XXVII strofe, composte di undici versi ognuna, questi raggruppati in cinque distici e un verso soprannumerario in posizione libera.
 
I versi del poema seguono la tecnica dell'acrostico, i versi di ogni strofa iniziano infatti con la stessa sillaba finendo per costituire una frase di ventisette sillabe che si può ricostruire anche per le strofe mancanti:
Riga 10:
Le strofe seguono un dialogo pacato tra il "Sofferente" e il suo "Amico", i quali conversano sulla natura del male nel mondo e sulla "giustizia degli dèi". Il Sofferente osserva come non ci sia alcuna giustizia nel mondo: il potente opprime il più debole, il ricco il più povero, e gli dèi si disinteressano di coloro che li onorano cercandone la giustizia. L'Amico lo invita a non essere blasfemo e gli ricorda che i disegni degli dèi sono imperscrutabili per gli uomini, in realtà il potente e il ricco che si comportano ingiustamente non restano mai tali, ma le disgrazie li inseguono. Viceversa, coloro che sono giusti e onorano gli dèi vengono da questi accuditi anche se con poco e l'ingiustizia subita viene per loro eliminata.
 
A differenza dell'analogo testo biblico in lingua ebraica, il ''[[Libro di Giobbe'']] (`Iyyov, איוב) risalente al VI secolo a.C., qui l'Amico non muove alcuna accusa al Sofferente, al Giobbe mesopotamico, il quale risponde sempre pacatamente.
 
Il dialogo non offre una soluzione definitiva, ma conclude comunque con la fiducia nella giustizia di Šamaš (il dio Sole, l'Utu sumerico, dio della giustizia divina), nonostante le amare esperienze della vita.