Arbegnuoc: differenze tra le versioni

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=== La nuova resistenza ===
La nuova resistenza ebbe inizio nel [[Lasta]] per iniziativa dell'irriducibile Hailù Chebbedè<ref name="DelBoca">{{citaCita|Del Boca|vol. III, p. 113}}</ref>, e si estese progressivamente in gran parte delle regioni etiopiche prendendo sempre più la forma di una lotta indipendentistica patriottica che ottenne sostegno dalla popolazione sollecitata dai proclami dei guerriglieri ad aderire al movimento e aiutare i combattenti<ref>{{cita|Dominioni|pp. 263-264}}</ref>. La nuova resistenza coinvolse persone di ogni razza e religione e venne combattuta con il favore di buona parte della popolazione, esasperata dal comportamento brutale dell'occupante e timorosa di un vero e proprio sterminio. Nel Goggiam nell'estate 1937 venne proclamata da parte degli ''arbegnuoc'' una guerra santa in risposta alle repressioni seguite all'attentato al governatore Graziani e alle violenze del capitano Gioacchino Corvo a Bahar Dar<ref>{{cita|Dominioni|p. 263}}</ref>. I comandi italiani non compresero realmente il fenomeno e ancora nei rapporti della fine del 1937 i ribelli venivano considerati poco pericolosi e privi di unità; si parlava di "briganti" (''Shiftà'') che si "accontentano di vivere di razzie"<ref>{{cita|Dominioni|pp. 264-265}}</ref>. Il maresciallo Graziani rilevò il cambiamento delle tattiche dei resistenti e il passaggio alla guerriglia, ma ritenne che queste innovazioni tattiche fossero suggerite da "mente europea"<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, p. 107}}</ref>.
 
Il governatore quindi espresse ottimismo e non mostrò allarme per gli indizi di una possibile ripresa dell'opposizione armata all'occupante; egli riteneva che la situazione fosse molto favorevole e fosse possibile rimpatriare, accogliendo le pressioni di Lessona e Mussolini, una parte delle sue forze. Il 1 luglio 1937 Graziani disponeva di 177.000 soldati rispetto al 288.000 presenti dopo la caduta di Addis Abeba; il maresciallo faceva pieno affidamento sui nuovi collegamenti stradali, aerei e ferroviari aperti negli ultimi mesi e all'inizio di agosto, proprio alla vigilia della rivolta generale, lasciò la capitale per recarsi per via stradale ad [[Asmara]]<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 110-111}}</ref>. L'ottimismo del viceré era del resto condiviso dalle altre autorità italiane sul posto compresi l'ammiraglio [[Vincenzo De Feo]], governatore dell'Eritrea, e il generale [[Alessandro Pirzio Biroli]], governatore proprio del territorio [[Amhara (popolo)|Amhara]] dove stava per esplodere la rivolta<ref>{{cita|Del Boca|vol.name="DelBoca" III, p. 113}}</ref>.
 
Nella primavera del 1937 si era svolto in una località a nord di [[Ambò]], nel [[Ghindeberat]], una riunione dei principali capi della resistenza durante la quale erano state prese le nuove decisioni operative e studiate le tattiche della guerriglia; in questa occasione si cercò anche di organizzare una struttura di comando unificata e venne eletto un comitato dirigente sotto la guida politica del [[Titoli nobiliari etiopici|blatta]] [[Tecle Uolde Hawarit]]; altri dirigenti che ebbero un ruolo fondamentale furono [[Mesfin Scilesci]] e Abebe Aregai che, eletto comandante supremo, preferì tuttavia lasciare il comando nominale degli ''arbegnuoc'' al più anziano [[Auraris Dullu]]<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, pp. 107-108}}</ref>.
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=== Caratteristiche della guerriglia degli ''arbegnuoc'' ===
 
Gli ''arbegnuoc'' dovettero adottare tattiche nuove di guerriglia che si distaccavano profondamente dalla tradizione militare nazionale fondata sul coraggio personale e sullo scontro in campo aperto di fronte al nemico; gli stessi combattenti della resistenza erano consapevoli di impiegare metodi di combattimenti estranei al passato bellico abissino<ref>{{cita|Dominioni|p. 265}}</ref>. Gli ''arbegnuoc'' giunsero al punto di definire la loro guerra di guerriglia una "guerra dei codardi", ma affermarono che "avevano imparato ad essere codardi", che avevano compreso l'efficacia della guerriglia e che solo queste tattiche sarebbe state "la via che ci permetterà di sconfiggere gli italiani"<ref name="Dominioni">{{cita|Dominioni|p. 277}}</ref>.
 
[[File:Arbegnuoc.jpg|thumb|right|upright=1.3|Alcuni guerriglieri ''arbegnuoc'' durante una pausa delle operazioni di resistenza.]]
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La nuova organizzazione degli ''arbegnuoc'' comprendeva le forze combattenti regolari, il cosiddetto ''Dereq'', che erano il nucleo più agguerrito e attivo in permanenza sul territorio, e una milizia irregolare, il ''Mededè'', arruolata tra la popolazione contadina che veniva mobilitata per periodi limitati per rafforzare i combattenti del ''Dereq''<ref name="DB108">{{cita|Del Boca|vol. III, p. 108}}</ref>. Questa struttura organizzativa permetteva agli ''arbegnuoc'' di costiture in brevissimo tempo gruppi d'azione numerosi ed aggressivi che poi venivano dispersi sul territorio in piccoli formazioni per evitare la reazione delle colonne coloniali del nemico<ref name="DB108"/>; anche i grandi capi come Abebe Aregai e Mangascià Giamberiè, si muovevano in bande costituite da un piccolo nucleo di fedeli guerrieri, 200-300 uomini, e superavano agevolmente le linee di sbarramento avversarie; in situazioni pericolose le formazioni di suddividevano in gruppi più piccoli e i capi, seguiti da poche decine di compagni, riuscivano ad evitare di essere intercettati<ref name="MD268">{{cita|Dominioni|p. 268}}</ref>.
 
L'attività della guerriglia si sviluppava soprattutto durante la stagione delle grandi piogge nel corso della quale gli ''arbegnuoc'' si impegnavano in numerosi, piccoli attacchi, diffusi sul territorio, contro vie di comunicazione, presidi militari e colonne isolate del nemico<ref name="MD268"/>. I guerriglieri disponevano di buone e numerose armi individuali, fucili e pistole, ma mancavano completamente di artiglieria e mitragliatrici; erano diffuse anche le armi bianche tradizionali che venivano impiegate negli scontri ravvcinati<ref name="Dominioni_A">{{citaCita|Dominioni|p. 269}}</ref>. Gli ''arbegnuoc'' trovarono notevoli difficoltà nel reperimento delle munizioni, e anche nel approvvigionarsi di cibo e acqua, essendo generalmente stanziati nelle zone più aride e impervie dell'altopiano; le bande guerrigliere si procuravano il vettovagliamento generalmente depredando i territori sottomessi o collaborazionisti con l'occupante; in misura minore ricorrevano alle modeste forniture dei contadini poveri che sostenevano il movimento<ref name="MD270">{{cita|Dominioni|p. 270}}</ref>.
 
In battaglia gli ''arbegnuoc'' erano combattenti disciplinati e aggressivi che mostravano notevoli qualità combattive e una naturale abilità nelle manovre di infiltrazione e accerchiamento; agendo in gruppi autonomi, i comandanti delle bande più piccole eseguivano spontaneamente le manovre sul campo, seguendo le direttive generali dei grandi capi<ref name="DB108"/>. I guerriglieri abissini erano estremamente mobili e molto coraggiosi; inoltre non necessitavano di grandi apparati logistici<ref name=GR86>{{Cita|Rochat|p. 86}}</ref>. Tuttavia, non disponendo di armi pesanti, non avevano la possibilità di conquistare posizioni nemiche solidamente fortificate né erano in grado di difese prolungate; le bande sfuggivano sfruttando le loro capacità di movimento su terreno difficile<ref name="GR86"/>. Le bande erano anche prive di moderni sistemi di comunicazione; i capi principali della resistenza entravano occasionalmente in contatto con messaggi scritti per organizzare incontri al vertice o coordinare grandi operazioni ma in generale non erano costantemente in collegamento; in battaglia gli ''arbagnuoc'' utilizzavano segnali di fumo o il suono dei tamburi per comunicare tra loro<ref name="MD270"/>.
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Gli ''arbagnuoc'' combattenti potevano sfruttare il sostegno presente in gran parte della popolazione; in particolare era attivo un vasto apparato di spionaggio e cospirazione che aiutava la resistenza; i cosiddetti ''ya west arbagnoch'' erano militanti che agivano nella massima segretezza dall'interno e fornivano informazioni e aiuti di personale specializzato e materiali; i ''qafir'' invece erano resistenti che individuavano tempestivamente i movimenti delle truppe italiane e avvertivano in anticipo i reparti combattenti<ref>{{cita|Dominioni|pp. 268-269}}</ref>. I contadini infine sostenevano la resistenza con l'erogazione di tributi e la distribuzione di vettovaglie; in caso di azioni repressive nemiche queste persone, esposte alla rappresaglia, abbandonavano i villaggi e seguivano gli ''arbagnuoc''. I patrioti etiopi cercavano in ogni modo di stimolare la resistenza nelle campagne e di estendere il consenso alla loro lotta; spesso ricorrevano alla propaganda organizzando missioni improvvise nei mercati dei villaggi per illustrare le loro azioni e leggere i proclami dei grandi capi della resistenza<ref>{{cita|Dominioni|pp. 269-270}}</ref>.
 
Anche le donne parteciparono attivamente al movimento di resistenza; all'interno delle bande erano sempre presenti le cosiddette ''gambogna'', le portatrici che svolgevano un fondamentale compito logistico trasportando i viveri e le bevande lungo le interminabili marce negli altopiani; esse inoltre alleggerivano la tensione della guerriglia allietando i combattenti durante gli spostamenti con canti di elogio o ironia verso i guerrieri<ref>{{cita|Dominioni|p. 269}}<name="Dominioni_A" /ref>. Altre donne svolsero compiti di vivandiere, staffette o infermiere; non mancarono tuttavia neppure personalità femminili con incarichi di comando militare all'interno del movimento ''arbegnuoc'' come le uizero [[Shoareghed Ghedle]], che fu torturata e imprigionata fino al 1941, Chebbedesh Sejum, Fantaye; Senedu Gebru e Tsgine Mangascià invece si occuparono soprattutto di migliorare il servizio sanitario della resistenza<ref>{{cita|Del Boca|vol. III, p. 114}}</ref>.
 
Il principale elemento di debolezza della guerriglia degli ''arbegnuoc'' fu costituito dall'insufficiente coordinamento e dalla mancanza di una reale dirigenza centralizzata in grado di sviluppare un progetto strategico unitario; le insurrezioni si svilupparono a livello territoriale in modo autonomo sotto la guida dei capi locali senza un collegamento con rivolte in altre zone del territorio etiopico<ref>{{cita|Rochat|pp. 85-86}}</ref>. Questa mancanza di coordinamento era dovuta in parte alle oggettive difficoltà di comunicazione ma anche alla tendenza, tradizionale nella cultura etiopica, all'autonomia locale. Inoltre i grandi capi della rivolta generale iniziata nel 1937 non erano più i vecchi ras e la gerarchia tradizionale dell'impero ma elementi nuovi provenienti da livelli medio-bassi della dirigenza che assunsero prestigio e potere sulla base della loro capacità e del loro coraggio sul campo<ref name=GR86 />.
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La resistenza, iniziata soprattutto come movimento di difesa contro la brutale repressione dell'occupante, si trasformò nel tempo in un movimento popolare di massa privo peraltro di connotazioni rivoluzionarie e di istanze sociali radicali; gli ''arbegnuoc'' combattevano in grande maggioranza per ripristinare la vecchia società feudale etiopica e i dirigenti erano sempre legati al Negus; le popolazioni non espressero richieste di sovvertimento della società anche se in parte il movimento di resistenza sviluppò una prima coscienza democratica antimperialista<ref>{{cita|Dominioni|p. 276}}</ref>. In questo senso la resistenza ''arbegnuoc'' fu un evento molto importante nella storia dell'Etiopia, favorì la partecipazione del popolo agli eventi politici e sviluppò i sentimenti di indipendenza e coesione nazionale<ref>{{cita|Dominioni|p. 262}}</ref>.
 
Gli ''arbegnuoc'' impegnati nella guerriglia erano numerosi; un numero variabile nel corso delle stagioni dell'anno tra i 40.000 e i 100.000 fu sempre attivo soprattutto nelle regioni dello Scioa e del Goggiam; la popolazione contadina incrementava questo numero partecipando temporaneamente alla lotta e unendosi alle bande; non mancavano peraltro contrasti interni e a volte gli ''arbegnuoc'' ricorrevano alle intimidazioni e alle vendette per ottenere l'appoggio e il sostegno della popolazione<ref>{{cita| name="Dominioni|p." 277}}</ref>. Le perdite dovute alla repressione e alle operazioni di rastrellamento delle forze militari italiane, furono pesanti; secondo i dati ufficiali forniti dal Negus, 75.000 "patrioti" furono uccisi in combattimento, 24.000 furono giustiziati dalle autorità nemiche, 35.000 morirono nei campi di concentramento; inoltre pesanti furono le vittime civili calcolate in oltre 300.000 persone<ref>{{cita|Dominioni|pp. 270-271}}</ref>. I dati italiani sono in parte differenti; 76.906 sarebbero stati gli ''arbegnuoc'' uccisi, 4.437 i feriti e 2.847 i prigionieri; il modesto numero dei prigionieri rispetto ai morti conferma la durezza della guerra in Africa orientale nel periodo 1936-1941 e la grande carica di violenza dispiegata dall'apparato repressivo italiano per cercare di sottomettere le popolazioni e schiacciare la resistenza<ref>{{cita|Dominioni|p. 271}}</ref>.
 
Il 5 maggio, anniversario della liberazione di Addis Abeba, in Etiopia viene festeggiato ogni anno lo ''Arbegnoch Qen'' (የአርበኞች ቀን), il giorno degli ''arbegnuoc'', in onore dei patrioti della resistenza contro l'Italia fascista; i reduci della guerriglia ancora viventi partecipano orgogliosamente alle manifestazioni di ricordo.