Battaglia del monte Ortigara: differenze tra le versioni
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La preparazione di un attacco italiano nell'[[altopiano dei Sette Comuni]] fu autorizzata dal [[capo di stato maggiore]] del [[Regio Esercito]], [[Luigi Cadorna]], il 27 febbraio 1917, in risposta a una lettera del comandante della 6ª Armata [[generale]] [[Ettore Mambretti]], che sollecitava Cadorna in tal senso. I due concordavano infatti che era necessario rettificare il fronte venutosi a creare dopo il [[Battaglia degli Altipiani|massiccio attacco austro-ungarico]], svoltosi durante i mesi di maggio e giugno 1916, che aveva respinto l'esercito italiano da ingenti porzioni di territorio dell'altopiano: gli austro-ungarici si erano attestati su posizioni molto favorevoli, affacciate sulla [[pianura Padana]], dalle quali potevano minacciare alle spalle le armate nel [[Cadore]], nella [[Carnia]] e lungo l'[[Isonzo]]. Si avviarono quindi i preparativi per un'offensiva di grosse proporzioni che avrebbe permesso di riconquistare le importanti vette di [[cima Portule]] e [[monte Zebio]] e nel contempo rioccupare le posizioni perse sull'Altipiano<ref name="Pieropan 2009 293-294">{{cita|Pieropan 2009|pp. 293-294}}.</ref>. Inoltre, a seguito della [[conferenza di Pietrogrado]] del febbraio 1917, l'Italia si impegnò con gli Alleati a operare tra aprile e maggio prima sull'altopiano dei Sette Comuni e successivamente sul Carso, per adempiere all'iniziativa promossa dal governo britannico, il quale, dopo il [[Campagna di Romania|crollo della Romania]], per tastare il polso dell'esercito russo ormai in crisi, aveva spinto per imbastire una serie di offensive alleate sui fronti [[Fronte occidentale (1914-1918)|occidentale]], [[Fronte orientale (1914-1918)|orientale]] e [[Fronte italiano (1915-1918)|italiano]]<ref>{{cita|Pieropan 2009|p. 252}}.</ref>.
La 6ª Armata di Mambretti fu costituita sulla preesistente struttura del Comando truppe Altopiano, già dipendente dalla [[1ª Armata (Regio Esercito)|1ª Armata]], riconoscendo al territorio una fondamentale importanza strategica, accresciuta dopo la controffensiva italiana del giugno-luglio 1916, volta a rioccupare velocemente i territori persi durante la ''Strafexpedition'': essa era tuttavia fallita nel novembre dello stesso anno a causa delle abbondanti nevicate<ref>{{cita|Pieropan 2009|p. 293}}.</ref>. Data la riservatezza del piano, il capo di stato maggiore invitò Mambretti a utilizzare convenzionalmente il termine "Difensiva ipotesi uno", per far credere a tutti che i preparativi fossero predisposti solo in chiave difensiva. Durante il periodo successivo, la 6ª Armata richiese l'invio di artiglierie e truppe da montagna e allo stesso tempo Cadorna ventilò l'ipotesi di estendere il fronte d'attacco a sud verso monte Zebio, trovando l'approvazione di Mambretti che precisò come il fronte, in questo modo, sarebbe stato lo stesso che prevedeva l'offensiva sospesa nell'autunno dell'anno prima, ossia l'«Azione K»<ref name="Pieropan 2009 293-294"/>. L'ampliamento dell'offensiva venne approvato dal comando supremo l'8 maggio, assicurando l'invio di un'altra divisione di fanteria, quattro batterie di bombarde, dodici batterie di medio calibro e un gruppo di artiglieria da montagna, mentre nel frattempo sarebbero dovute rientrare quattordici batterie inviate sull'Isonzo (nonostante l'imminente inizio della [[Decima battaglia dell'Isonzo|decima battaglia sul fronte isontino]]) e quelle di [[monte Cengio]]<ref name="Pieropan_2009">{{
Il comando della 6ª Armata predispose l'«ordine di operazioni n° 1» il 28 maggio 1917, dove erano comunicati il giorno dell'attacco e le direttive dell'offensiva. La data venne poi anticipata, come riporta la testimonianza del generale Mambretti: «L'offensiva, prevista in dipendenza dei trasporti in corso di artiglierie e truppe, e delle condizioni della neve, per la seconda quindicina di giugno, venne anticipata al 10 di detto mese, su richiesta del Comando Supremo cui premeva di alleviare la [[3ª Armata (Regio Esercito)|3ª Armata]] dalla energica pressione nemica<ref>La Rassegna Italiana, anno XII, serie II n. 130, Marzo 1929. Vedi: {{Cita|Volpato 2014|p. 15}}.</ref>». La necessità di anticipare l'attacco fu in parte decisa dal contrattacco austro-ungarico a seguito della decima battaglia dell'Isonzo, che investì proprio la 3ª Armata sul fronte del Carso tra il 4 e il 7 giugno, e che comportò la perdita del [[Battaglia di Flondar|settore di Flondar]] e quella di ben 21.888 uomini tra morti, feriti, dispersi e prigionieri (quasi la metà per quest'ultimo caso)<ref>{{cita|Volpato 2014|p. 14}}.</ref>.
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Certamente la fallimentare offensiva italiana sull'altopiano non fu riconducibile a errori ben individuabili, bensì a una serie di errori di valutazioni e incertezze che, nel rapido susseguirsi degli eventi, non permisero alle truppe italiane di avere la meglio sugli avversari. Fin dai preparativi ci furono grosse lacune organizzative e strategiche; prima di tutto la mancata segretezza che avrebbe dovuto caratterizzare la "Difensiva ipotesi uno" della quale, probabilmente già nell'inverno 1916-1917, gli austro-ungarici vennero a conoscenza. Da come riporta lo storico [[Gianni Pieropan]], grosse mancanze ci furono anche durante la preparazione del piano: la dispersione di forze lungo un fronte di svariati chilometri, la poca riservatezza della stampa italiana sull'imminente battaglia e la sfiducia che pervadeva alcuni comandanti. Il generale Di Giorgio osservò ben prima della battaglia che l'artiglieria si sarebbe dovuta concentrare al settore nord Campigoletti-Ortigara, ossia il settore determinante che permetteva l'avanzata verso l'importante cima Portule, che presentava margini di manovra migliori rispetto al settore sud, dove le trincee fortificate austro-ungariche sorgevano a pochi metri da quelle italiane ed erano state ulteriormente rinforzate durante l'inverno<ref name="Pieropan 2009 300"/>. Qui fu grave l'errore delle artiglierie che cannoneggiarono con precisione la Brigata "Sassari", un fatto peraltro nascosto nelle pubblicazioni ufficiali dell'esercito, dove la verità si deduce solo perché l'assalto a cui dovevano partecipare sei battaglioni in effetti fu attuato da quattro compagnie<ref>{{cita|Silvestri 2006|pp. 104-105}}.</ref>. La sfiducia nelle narrazioni storiche ufficiali è accentuata dallo scrittore [[Mario Silvestri]], che pone seri dubbi sull'autenticità degli ordini dati in piena azione, secondo lui redatti a posteriori<ref>{{cita|Silvestri 2006|p. 104}}.</ref>. L'autore Sergio Volpato tratta in modo particolareggiato i rapporti tra il Comando supremo e la stampa che, tramite l'Ufficio Stampa e Propaganda, era a conoscenza di particolari sull'imminente battaglia che lasciò incautamente trapelare al pubblico<ref>{{Cita|Volpato 2014|p. 127}}.</ref>.
I comandi italiani erano poi discordanti sulle possibilità di successo e in alcuni casi non avevano neppure un buon ascendente sulle truppe. I generali Como Dagna e Montuori, venuti a conoscenza della dilatazione del fronte verso sud e delle previsioni meteorologiche, si dissero pessimisti circa l'esito dell'azione e, nonostante la fiducia che Cadorna riponeva in Mambretti, questi non era a conoscenza di un fatto in apparenza banale che lo riguardava e che preoccupava i soldati: si era diffusa la credenza che il comandante della 6ª Armata fosse uno [[iettatore]] e che ogni azione sotto il suo comando si sarebbe risolta nel peggiore dei modi<ref
Parallelamente però tutti i comandanti che presero parte alla battaglia dell'Ortigara individuarono il maltempo del 10 giugno come uno dei fattori più importanti che decisero lo scontro. I comandanti giudicarono differentemente l'effetto del maltempo; il generale Como Dagna trovò favorevole la presenza della nebbia e della pioggia che permisero ai suoi uomini di avvicinarsi al nemico senza essere visti. Il generale Di Giorgio indicò il maltempo quale fattore determinante per il quale le artiglierie non svolsero al meglio il loro lavoro di distruzione delle linee nemiche e appoggio alla fanteria<ref>{{Cita|Volpato 2014|pp. 22-23}}.</ref>. Difficilmente oggi si può dare un giudizio sugli effetti che ebbe il maltempo sulla riuscita dell'attacco del 10 giugno 1917; se da un punto di vista strategico il maltempo e soprattutto la nebbia furono uno dei fattori determinanti per il fallimento dell'azione, da un punto di vista tattico furono le componenti che contribuirono ai pochi successi della giornata. Sicuramente, tuttavia, un'azione offensiva di così vaste proporzioni in alta montagna avrebbe dovuto avere altri piani, basati sul terreno aspro e montagnoso che probabilmente avrebbe dovuto impegnare meno uomini, in ridotti ma efficaci colpi di mano per la conquista delle vette più alte<ref>{{Cita|Volpato 2014|p. 24}}.</ref>.
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