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L’approccio di Boatto è sempre stato caratterizzato dal bisogno di comprendere in profondità il presente, oltre gli schemi e gli automatismi dell’attualità, e dalla necessità di rinnovare la critica d’arte.
Distante tanto dai toni evocativi dei “critici-poeti” che dalla secchezza degli accademici, quella di Boatto si è così presentata sin dall’inizio come una visione autonoma, alimentata da una modernità eterodossa e cosmopolita, nutrita di filosofia, psicoanalisi e antropologia, in cui spiccano i grandi “distruttori” (
Boatto ha sempre puntato ad andare oltre all’efficacia immediata della scrittura critica, ideologica e mercantile, riaffermando al contrario l’esigenza “di una libertà non astratta ma concreta”, praticando uno sguardo dal di fuori, come recita il titolo di uno dei suoi libri più intensi e originali (1981; nuova edizione Castelvecchi 2013), ovvero adottando lo sguardo libero e incondizionato del naufrago e dell’astronauta.
Tracciando a caldo un giudizio dotato già di prospettiva storica, muovendosi all’indietro sino all’avanguardia di inizio Novecento e impegnandosi in una riflessione sulla modernità riletta attraverso Benjamin e [[Baudelaire]], Boatto univa infatti all’analisi della costellazione pop e dei maestri del new dada una riflessione sul destino dell’arte nell’epoca del consumo universale e della produzione di massa dotata di quell’urgenza e di quella lucidità che sole rendono davvero memorabile il precario esercizio della critica. A partire dalla fine degli anni settanta la sua scrittura si allontana sempre più dallo scenario artistico circostante per inoltrarsi in personalissime esplorazioni al confine tra letteratura, estetica, storia dell’arte.
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