=== Le successioni feudali dal XV al XIX secolo ===
A partire dagli inizi del XV secolo, e fino all'abolizione della feudalità (prima decade dell'Ottocento), Pesco fu quasi sempre unito a Pietrelcina. Già nel 1415, infatti, queste due terre facevano parte dei beni feudali di Filippo Caracciolo e nel 1458, dopo la congiura dei Baroni, si ritrovarono ancora unite sotto Nicola Caracciolo. Alla morte di quest'ultimo, avvenuta nel 1493, i feudi di Pescolamazza e di Pietrelcina furono ereditati dal figlio primogenito Giovan Battista che ne ottenne solenne investitura dal re di Francia, Carlo VIII, con diploma sottoscritto a Napoli l'8 marzo del 1495. La figlia Dionora, nel 1511, li portò in dote a Giovan Tommaso II Carafa, conte di Cerreto, che, nel 1522, ne vendette le rendite a Carlo Mormile per la somma di 9.000 ducati con il patto di ricompra. Nel 1523, mentre era al servizio di Carlo V a Milano, durante la guerra contro il re di Francia, Giovan Tommaso venne ucciso in duello da Fabrizio Maramaldo. Ereditò il suo titolo e le sue sostanze il primo figlio maschio, Diomede III, che, essendo allora quinquennecinquenne, ebbe come tutore il nonno paterno Diomede II. Alla morte di quest'ultimo, Diomede III, dopo essere stato per un certo tempo sotto la tutela di un non meglio precisato "priore di Napoli", sposò, ancora adolescente, Roberta Carafa che gli fece anche da tutrice. E nel 1537, con l'assenso di sua moglie, fu proprio lui a disfarsi definitivamente dei feudi di Pesco e Pietrelcina vendendone a Bartolomeo Camerario (1497-1564), per 5.000 ducati, il diritto di riscatto di cui era ancora titolare. Questi, a sua volta, nel 1550, alienò i due feudi a Lucrezia Pignatelli, moglie di Giovan Vincenzo Caracciolo. Alla morte di quest'ultimo subentrò il figlio Marcello che pagò la tassa di successione (relevio) il 19 ottobre del 1564. Marcello, nominato marchese di Casalbore da Filippo II di Spagna il 27 aprile del 1569, cessò di vivere nell'agosto del 1585 lasciando il primogenito Giovan Vincenzo II erede del suo titolo e delle terre di Casalbore, Ginestra degli Schiavoni, Pietrelcina, Pescolamazza, Torre di Pagliara, Saggiano e di alcuni territori feudali nei pressi di Montesarchio. Giovan Vincenzo II, nel 1603, diede le terre di Pescolamazza e di Pietrelcina al fratello Francesco per la somma di 50.602 ducati col patto di ricompra. Successivamente, nel 1614, su richiesta dei creditori del marchese di Casalbore, il tribunale del Sacro Regio Consiglio aggiudicò questi due feudi, per la somma di 46.200 ducati, a Giovanni d'Aquino che, nel luglio del 1623, ebbe il titolo di principe di Pietrelcina. Alla morte di Giovanni, avvenuta il 4 marzo del 1632, subentrò il primogenito Cesare che, con assenso regio del 9 febbraio 1661, diede in pegno al fratello Francesco la terra di Pescolamazza per la somma di 11.000 ducati. Cesare fu assassinato il 27 febbraio del 1668, all'età di 43 anni. L'8 marzo del 1669 fu dichiarata erede dei suoi beni feudali la figlia Antonia. Nel 1676, però, con decreto del Sacro Regio Consiglio, la terra di Pietrelcina fu assegnata a Girolamo, fratello di Cesare. Comunque, alla morte di Francesco e di Girolamo d'Aquino, Pescolamazza e Pietrelcina ritornarono alla loro nipote Antonia con l'aggiunta del feudo di Monteleone che, nel frattempo, Girolamo aveva acquistato da Giacomo II de Brier. Dopo la morte di Antonia, avvenuta senza eredi il 6 settembre del 1717, Ferdinando Venato, duca di S. Teodoro, suo parente di quarto grado, le subentrò nel 1724 previo pagamento al fisco di 20.200 ducati. Poco tempo dopo (30 aprile 1725) il duca di S. Teodoro vendette questi tre feudi, per la somma di 75.000 ducati, a Francesco Carafa che, con diploma spedito da Vienna il 17 novembre del 1725, ottenne il titolo di principe di Pietrelcina dall'imperatore Carlo VI d'Austria. Francesco Carafa morì il 9 gennaio del 1768; ma solo il 20 novembre del 1772, con decreto della Gran Corte della Vicaria, fu dichiarato erede dei suoi beni feudali Pietro Maria Firrau, principe di Luzzi. Dopo la morte di quest'ultimo, avvenuta il 24 novembre del 1776, fu riconosciuto erede il figlio Tommaso Maria con decreto della Gran Corte del 21 gennaio del 1777. A partire dal 1779 entrò in possesso di questi beni feudali Luigi Carafa di Milizia della Stadera alla cui morte subentrò il conte di Policastro e duca di Forlì, Francesco Carafa, che fu l'ultimo barone di Pesco (pagine 25-28 "Pesco Sannita. Storia di un millennio").
=== Rapporto con Monteleone ===
Monteleone, di origine longobarda, oggi è una frazione di Pesco. Fino all’unione con questo feudo, avvenuta sotto Antonia d’Aquino, ebbe, però, vita autonoma. Stando ad alcuni antichi documenti, il castello avrebbe dovuto essere annesso al territorio beneventano per renderne più sicuri i confini. Ma già nel 1269 era entrato a far parte del regno angioino. Abitato a quell’epoca da non più di venti famiglie, dopo alcuni passaggi di proprietà, ritornò al suo legittimo proprietario, Alferio. Per lungo tempo, poi, non se ne sentì più parlare. Dopo circa due secoli, durante i quali Monteleone si spopolò completamente, se ne ritrovano tracce nella seconda metà del Quattrocento, quando lo acquistò Marcantonio Calenda la cui famiglia ne rimase proprietaria fino al 1616, anno in cui fu rilevato da Giovan Geronimo Nani, nobile savonese. Nella prima metà del Seicento il feudo, con tutte le sue pertinenze, passò nelle mani di Giovanni de Brier, il cui nipote, Giacomo II, lo vendette a Girolamo d'Aquino. Cosicché, morti Francesco e Girolamo d'Aquino, Monteleone si trovò, come già detto, unito a Pescolamazza sotto la nipote Antonia, loro erede universale (pagine 27-30 "''Storia di Pesco Sannita''"). ▼
Monteleone è oggi una frazione di Pesco Sannita. In realtà la storia narra che inizialmente, fino al momento della sua unione al feudo di Pescolamazza sotto Antonia d'Aquino, ebbe vita autonoma.
La sua nascita risale probabilmente al periodo della dominazione sveva. Secondo antichi documenti, il castello avrebbe dovuto essere annesso al territorio beneventano per renderne più sicuri i confini. Ma già nel 1269 era entrato a far parte del regno angioino. Probabilmente abitato a quel tempo da non più di venti famiglie, dopo alcuni passaggi di proprietà, Monteleone ritornò al suo legittimo proprietario, Alferio. In epoca angioina vi sono scarse notizie.
▲Dopo circa due secoli, durante i quali Monteleone si spopolò completamente, se ne ritrovano tracce nella seconda metà del Quattrocento, quando lo acquistò Marcantonio Calenda la cui famiglia ne rimase proprietaria fino al 1616, anno in cui fu rilevato da Giovan Geronimo Nani, nobile savonese. Nella prima metà del Seicento il feudo, con tutte le sue pertinenze, passò nelle mani di Giovanni de Brier, il cui nipote, Giacomo II, lo vendette a Girolamo d'Aquino. Cosicché, morti Francesco e Girolamo d'Aquino, Monteleone si trovò, come già detto, unito a Pescolamazza sotto la nipote Antonia, loro erede universale (pagine 27-30 "''Storia di Pesco Sannita''").
=== La popolazione dal XVI al XVIII secolo ===
Alla fine del XVI secolo, cominciano ad aversi notizie riguardanti direttamente il popolo pescolano e le sue condizioni di vita: una pergamena del 1577 contiene, ad esempio, un elenco consistente di cittadini che permette di risalire alle radici di molte famiglie e di seguire i mutamenti grafici dei principali cognomi pescolani. Agli inizi del Seicento, a causa della pressione fiscale, Pesco si era indebitato al tal punto da essere costretto a vendere al barone dell'epoca, Giovanni d'Aquino, i due forni (Castello e Valle) e la taverna. Da questo atto di compravendita nacque una lunga controversia giudiziaria che si trascinò fino agli inizi dell'Ottocento. La parte centrale del XVII secolo è dominata dall'infuriare della peste che, nel 1656, decimò i pescolani, tanto che il 20 ottobre del 1657, data in cui il nuovo parroco Don Domenico Palumbo prese possesso della chiesa, la popolazione contava appena 230 anime. Nella parte centrale del Settecento, invece, la popolazione contava un migliaio di abitanti, ma con un analfabetismo che raggiungeva circa l'80% per gli uomini (con l'esclusione della categoria dei sarti) e il 100% delle donne. Malgrado lo sfruttamento sistematico al quale la popolazione era sottoposta, il tenore di vita di Pesco, rapportato al periodo storico, era divenuto accettabile. Queste condizioni favorevoli si mantennero per lungo tempo . Tanto è vero che, verso la fine del secolo, la popolazione aveva raggiunto le 1636 unità.
Agli inizi del Seicento, a causa della pressione fiscale, Pesco si era indebitata al tal punto da essere costretta a vendere al barone dell'epoca Giovanni d'Aquino i due forni (Castello e Valle) e la taverna. Da questo atto di compravendita nacque una lunga controversia giudiziaria che si trascinò fino agli inizi dell'Ottocento.
Tra i fatti notevoli del XVII secolo bisogna ricordare anche la partecipazione del cosiddetto marchese di Pesco (in realtà principe di Pietrelcina già citato d'Aquino) alla lotta contro i popolani di Napoli al tempo della rivoluzione di Masaniello (1647-1648).
La parte centrale del XVII secolo è dominata dall'infuriare della peste che, nel 1656, decimò i pescolani, tanto che il 20 ottobre del 1657, data in cui il nuovo parroco Don Domenico Palumbo prese possesso della chiesa, la popolazione contava appena 230 anime.
Nella parte centrale del Settecento, invece, la popolazione contava un migliaio di abitanti, ma con un analfabetismo che raggiungeva circa l'80% per gli uomini (con l'esclusione della categoria dei sarti) e il 100% delle donne.
Malgrado lo sfruttamento sistematico al quale la popolazione era sottoposta, il tenore di vita di Pesco, rapportato al periodo storico, era divenuto accettabile. Queste condizioni favorevoli si mantennero per lungo tempo: verso la fine del secolo la popolazione aveva raggiunto le 1636 unità. (pagine 31-48 "''Storia di Pesco sannita''")
=== L'Ottocento ===
I rapporti tra feudatario e popolo pescolano, già tesi in precedenza, si logorarono ulteriormente dopo la rivoluzione napoletana del '99. Luigi Carafa, barone dell'epoca, cercò di far leva sul sentimento religioso, facendo rinnovare nel 1801 la concessione di indulgenza plenaria per la cappella del SS. Rosario e ottenendo dal Papa l'istituzione della Via Crucis nella chiesa del SS. Salvatore. Nel 1802, infine, donò al popolo di Pescolamazza il corpo di Santa Reparata martire ricevuto a Roma dalle mani del cardinale Benedetto Fenaja. Ma, nonostante tutto ciò, subito dopo l'emanazione del decreto di Giuseppe Bonaparte che aboliva la feudalità, il comune di Pescolamazza, assistito dall'avvocato Antonio Vitale, chiamò in giudizio davanti alla Commissione feudale il suo successore, Francesco Carafa, conte di Policastro e duca di Forlì. Gli si contestava, tra l’altro, l'esazione di 110 ducati annui sui forni Castello e Valle, di 30 ducati per erbaggio e di alcuni censi in denaro e in natura senza che esistessero i relativi strumenti. Gli si contestava, inoltre, la pretesa del “terraggio” sull’intero territorio comunale (compresi i fondi “appadronati”). Il comune vinse su tutto il fronte, tranne che per l’esazione dei 110 ducati annui sui due forni, considerando che questa somma fosse dovuta al barone a titolo di intereresse per il capitale di 2.200 ducati concesso in prestito nel 1617 all’università di Pescolamazza da Giovanni d’Aquino. Al momento dell’esecuzione della sentenza, però, sorsero dei problemi che si rivelarono insormontabili. Mentre il rappresentante del comune, infatti, chiedeva che la tenuta di Monteleone fosse parzialmente ripartita tra i cittadini pescolani per compensare i cosiddetti “usi civici”, l’ex barone, per bocca del suo agente, sosteneva che essa, in qualità di feudo separato, non fosse automaticamente assoggettabile alla ripartizione e che, comunque, la controversia dovesse essere portata dinanzi ai tribunali ordinari. Siccome, però, Winspeare, regio procuratore generale sostituto presso la Gran Corte di Cassazione, si era schierato apertamente a favore della tesi sostenuta dal comune, il conte di Policastro, sentendosi battuto, si rivolse direttamente a lui, chiedendo una breve sospensione per avere il tempo di esibire alcuni documenti comprovanti i suoi diritti. Federico Cassitto, incaricato della divisione dei demani alle dipendenze del consigliere Paolo Giampaolo, però, pur accordandogli dieci giorni per esibire i documenti promessi, ordinò che i periti continuassero la misurazione del feudo. La causa di questa lotta serrata contro il tempo dipendeva dal fatto che, mentre Francesco Carafa cercava di procurarsi le carte comprovanti i propri diritti, Ferdinando Cini, il suo agente, aveva indotto sindaco e decurioni a presentare, a nome del comune, un atto di rinuncia al beneficio della ripartizione anche nel caso in cui questa fosse stata prescritta dalle leggi. A questo punto, visto che l’amministrazione comunale aveva ritirato il suo appoggio, si fecero avanti tre privati cittadini pescolani (Dionisio Guerra, Antonio Orlando e Gennaro Vetere) che continuarono a loro spese l’azione che era stata intrapresa contro il conte di Policastro. Il Cini, allora, non potendo raggiungere legalmente il suo scopo, ricorse all’inganno e alla violenza. Fu così che, approfittando del fatto che erano suoi ospiti l’intendente Giacomo Mazas e il comandante della provincia, venuti a Pescolamazza per seguire da vicino lo sviluppo dell’affare, fece convocare i tre a casa sua. Simulando, poi , il loro rifiuto a presentarsi, indusse i due funzionari a ordinarne l’arresto immediato. I custodi del carcere fecero il resto. Questi, infatti, maneggiati dal Cini, sottoposero i malcapitati a “maltrattamenti e villanie inaudite”. Il Mazas, inoltre, cogliendo l’occasione propizia, destituì Dionisio Guerra dal suo impiego di “cancelliere archivario” presso il comune. Malgrado tutto ciò, il Cassitto, fatta ultimare rapidamente la misurazione e la valutazione dell’ex feudo, suggerì che, per compensare i diritti dei pescolani a “pieni e comodi usi civici” riconosciuti dalla sentenza della Commissione feudale del 3 aprile 1810, si dovesse distaccare e ripartire tra i cittadini una metà del territorio boscoso, un terzo dell’”incolto erboso” e un quarto del “seminatorio”, per un ammontare complessivo di 1144,16 tomoli. Sfortunatamente, però, a nulla valse il lavoro portato a termine a tamburo battente dal Cassitto. Infatti, in seguito al regio decreto firmato da Gioacchino Murat il 27 dicembre del 1811, il compito di decidere sulla questione era stato tolto al commissario del re e affidato all’intendente della provincia. E il Mazas, che parteggiava apertamente per il conte di Policastro, ricevuto ufficialmente l’incarico il 18 gennaio del 1812, emise, il 31 marzo dello stesso anno, un’ordinanza definitiva in cui dichiarava che l’ex feudo di Monteleone, essendo distinto e separato dal territorio di Pescolamazza, non era ripartibile a vantaggio dei suoi cittadini. Per giunta, poi, condannò anche Dionisio Guerra, Antonio Orlando e Gennaro Vetere a pagare una multa di 35,20 lire, somma corrispondente alle spese sostenute da due decurioni pescolani che si erano recati ad Avellino per partecipare alla discussione del caso. Ciononostante, però, Gennaro Vetere non si diede ancora per vinto. Tanto è vero che nel 1817 si rivolse alla Gran Corte dei Conti per chiedere l’annullamento dell’ordinanza di Mazas per “difetto di notifica e per eccesso di facoltà nella persona dell’Intendente”. Questa, però, con sentenza del 22 giugno 1818, dichiarò inammissibile il reclamo facendogli salvo il solo “diritto di ricorrere a un giudice competente per dimostrare la perpetuità della sua colonia”. Gennaro Vetere, comunque, non intraprese mai questo nuovo procedimento legale. Solo dopo circa un ventennio (24 gennaio 1837) il comune di Pescolamazza, avuta la relativa autorizzazione con” real rescritto” del 7 dicembre 1836, chiamò in giudizio Francesco, Laura e Teresa Carafa per sostenere questo diritto in nome di alcuni privati cittadini. Avendo il tribunale di Avellino rigettato questa istanza, fu presentato appello alla Gran Corte Civile di Napoli che, con decisione del 27 dicembre 1840, invitò il comune e i privati cittadini “a provare, con titoli e testimoni, la esistenza delle colonie”. Il procedimento, che si trascinò per un’altra decina d’anni, si chiuse con la vittoria definitiva degli eredi Carafa. La Gran Corte Civile, infatti, con sentenza del 30 luglio 1851, per “la inverosimiglianza e le contradizioni delle prove esibite”, dichiarò “non giustificata la colonia perpetua” e condannò il comune e i privati cittadini al pagamento delle spese di giudizio ammontanti a 634,38 ducati. Solo nel 1853, per semplice tornaconto e non certo per merito delle reiterate e sfortunate azioni legali fino ad allora portate avanti, la famiglia Carafa concesse l’ex feudo di Monteleone in “enfiteusi perpetua” al comune di Pescolamazza il quale, a sua volta, lo suddivise in quote che assegnò a tutti i capifamiglia del paese in cambio di un canone annuo di 23,45 lire. Il lavoro di quotizzazione, iniziato subito dopo la firma del relativo atto notarile, venne terminato solo nel 1870. Le sue fasi conclusive, perciò, si intrecciarono con le vicende connesse con l’unità d’Italia. E Pesco, anche se venne appena sfiorato dal brigantaggio che imperversò nei paesi vicini tra il 1860 e il 1880 (si ha notizia solo dell’assassinio di un certo Giuseppe Pennucci per mano del famigerato capobrigante Michele Caruso), ebbe un notevole peso nei moti reazionari che insanguinarono la provincia di Benevento nell’estate del 1861. Qui, infatti, all’alba del 10 agosto, il filo borbonico Luigi Orlando venne catturato nel suo palazzo e passato per le armi da un plotone di bersaglieri comandati dal colonnello Pier Eleonoro Negri. Questo episodio, insieme alla sonora sconfitta subita nelle stesse ore a Pietrelcina dalla banda di Francesco Saverio Basile alias Pilorusso per opera dei bersaglieri del maggiore Rossi e alla fucilazione di ben undici cittadini inermi catturati nelle loro case, diede la stura alla spedizione punitiva contro Casalduni e alla distruzione di Pontelandolfo avvenute il 14 agosto del 1861. Il pescolano Francesco Esci, infatti, avuta notizia delle feroci esecuzioni avvenute a Pesco e a Pietrelcina, alla testa di una banda reazionaria, si portò il giorno 11 a Casalduni, dove ordinò ai suoi uomini la fucilazione di quaranta bersaglieri e quattro carabinieri che erano stati appena catturati insieme al loro comandante, il tenente Cesare Augusto Bracci. E fu proprio quest’ultimo fatto a scatenare la violenta azione di ritorsione avvenuta il 14 agosto a Casalduni e a Pontelandolfo per ordine, rispettivamente, del maggiore Carlo Melegari e del colonnello Pier Eleonoro Negri. È opportuno precisare, però, che tra i responsabili dell’eccidio non compare il nome di Esci ma solo quello del suo luogotenente, Angelo Pica alias Picozzo. E questo perché, quando il processo fu istruito, Francesco Esci era già morto. In seguito a consiglio di guerra tenutosi a Benevento, infatti, era stato fucilato a Pescolamazza il 24 settembre del 1861, in contrada Vignale di Iorio, da un picchetto del 62° Fanteria, insieme al capobanda Michele Zeuli da Alberona.
I rapporti tra feudatario e popolo pescolano, già tesi in precedenza, si logorarono ulteriormente dopo la rivoluzione napoletana del '99. Luigi Carafa, barone dell'epoca, cercò di far leva sul sentimento religioso, facendo rinnovare nel 1801 la concessione di indulgenza plenaria per la cappella del SS. Rosario, ottenendo anche dal Papa l'istituzione della via crucis nella chiesa del SS. Salvatore. Nel 1802, infine, donò al popolo di Pescolamazza il corpo di Santa Reparata martire ricevuto a Roma dal cardinale Benedetto Fenaja. Ma nonostante tutto, subito dopo l'emanazione del decreto di Giuseppe Bonaparte che aboliva la feudalità, il comune di Pescolamazza, assistito dall'avvocato Antonio Vitale, chiamò in giudizio il suo successore Francesco Carafa conte di Policastro e duca di Forlì. Gli si contestava l'esazione di una certa cifra di ducati annui su proprietà di cui non esistevano i relativi “strumenti” (documenti), la pretesa del terraggio sull'intero territorio e il pagamento di alcune somme al comune. Il comune vinse sulla maggior parte delle richieste effettuate, ma al momento della divisione dei demani, non si poté rendere esecutiva la sentenza perché il barone affermava che Monteleone era un feudo distinto e separato che non si poteva ripartire. Ma Winspeare, regio procuratore generale sostituto presso la Gran Corte di Cassazione, capovolse la situazione, legittimando la tesi sostenuta dal comune. A questo punto, il conte di Policastro, sentendosi battuto, si rivolse direttamente a Winspeare, chiedendo una breve sospensione per avere il tempo di esibire alcuni documenti comprovanti i suoi diritti. Dopo l'incontro con l'ex barone, Winspeare, inaspettatamente, rimise la questione.
Intanto, l'agente del barone stava cercando di impedire la ripartizione corrompendo l'incaricato; fu così che il sindaco presentò a nome del comune un atto di rinuncia al beneficio della divisione. Ma l'agente del barone, Ferdinando Cini, fece ricorso all'inganno e alla violenza: approfittando del fatto che erano suoi ospiti l'intendente Mazas e il comandante della provincia, fece convocare a casa sua i rappresentanti del comune. Poi simulò il loro rifiuto a presentarsi, per cui i due funzionari ne ordinarono l'arresto immediato. In carcere i custodi sottoposero gli arrestati a “maltrattamenti e villanie inaudite”.
Il rappresentante comunale continuò comunque l'operazione di misurazione del feudo e a partire dal gennaio 1812 ordinò di procedere alla divisione. Ma essa fu ostacolata con ogni mezzo: i periti furono minacciati di morte e i rappresentanti del comune furono insultati.
Nel frattempo il conte di Policastro aveva aggirato l'ostacolo.
Un regio decreto del 27 dicembre 1811 aveva tolto al commissario del re il compito di decidere sulla questione e l'aveva affidato all'intendente della provincia, in questo caso il Mazas. Come già visto, quest'ultimo parteggiava apertamente per il conte di Policastro ed emise un'ordinanza definitiva in cui dichiarava che l'ex feudo di Monteleone, essendo distinto e separato dal territorio di Pescolamazza, non era ripartibile a vantaggio dei cittadini pescolani: anzi, tre rappresentanti della cittadinanza che volontariamente avevano operato le misurazioni, furono prima perseguitati e poi condannati ad una multa.
Alcuni cittadini nel frattempo avevano pensato ad un ricorso, ma per problemi vari non se ne fece nulla. È da notare che di questo “affare” si era addirittura occupato Gioacchino Murat in persona, nella riunione del Consiglio dei Ministri del 3 agosto 1812. Comunque la vittoria del conte di Policastro fu totale e definitiva. Grande fu il senso di sfiducia della popolazione verso le autorità. Altre azioni legali furono intraprese negli anni, sempre terminate a vantaggio della famiglia Carafa. Solo nel 1853, per il mutato orientamento legislativo in materia feudale, e non certo per merito di quelle sfortunate azioni legali, i Carafa concessero in enfiteusi perpetua al comune di Pescolamazza l'ex feudo di Monteleone, che fu finalmente “quotizzato”, operazione terminata nel 1870.
Le fasi conclusive della divisione del demanio si intrecciarono con le vicende connesse all'unità d'Italia. Alcuni documenti testimoniano in tutto il circondario di Pescolamazza una situazione completamente sotto controllo, con cittadini tranquilli, sereni e “plaudenti” verso il Governo. Ma al momento opportuno, anche Pescolamazza aderì al centro insurrezionale vitulanese, offrendo un gruppo di uomini armati che avrebbero ingrossato le file del corpo garibaldino dei “Cacciatori Irpini”.
A differenza dei paesi vicini, Pesco fu appena sfiorato dal brigantaggio che infuriò tra il 1860 e il 1880 in tutta la provincia. L'unico episodio di cui si trova traccia riguarda l'assassinio di un garzone pescolano (Filippo Pennucci), che lavorava insieme al figlio Giuseppe, alle Camerelle, in territorio beneventano. Il brigante Michele Caruso, dopo un duro scontro con i soldati a Francavilla, si rifugiò con la sua banda proprio in questa masseria e con due fucilate uccise il suddetto Pennucci, malmenandone poi il figlio. (pagine 49-63 "''Storia di Pesco sannita''")
=== Storia amministrativa ===
Pescolamazza, per la sua posizione geografica, ebbe una certa importanza nell'assetto amministrativo ottocentesco. Già a partire dal 1812, infatti, fu scelto come capoluogo del circondario (nell'ambito del [[distretto di Ariano]]) al posto di Fragneto Monforte e mantenne questa sua prerogativa anche dopo la nascita della provincia beneventana, divenendo sede di pretura, di carcere mandamentale e di ufficio di bollo e registro, fino al 1889. Malgrado, però, questa sua posizione privilegiata ede il notevole sviluppo demografico ed edilizio, Pescolamazza mancava delle opere essenziali per la salute pubblica e per le comunicazioni. Solo nel 1832 l'amministrazione comunale mise in bilancio la costruzione di due acquedotti per portare nell'abitato le acque didel Romito e dell'Acquafresca. Stabilì, inoltre, di stanziare la somma di centocinquanta ducati annui, fino al completamento dell'opera, per costruire una strada rotabile di circa due miglia tra la cappella della Madonna dell'Arco e Vallone Pilone che consentisse uno un spostamentocollegamento più agevole con Napoli e Terra di Lavoro. IMentre si sa con certezza che i nuovi acquedotti furono completati nel 1837, manessuna nonnotizia abbiamosi nessunariesce notiziaa trovare circa il buon esito della strada per Vallone Pilone. Un altro problema che le amministrazioni comunali dovettero affrontare fu quello della costruzione del cimitero. A tale proposito, già nel 1817 era stato scelto un appezzamento di terreno nella contrada del Fornillo che, pur non essendo stato ritenuto idoneo dalle autorità competenti, venne temporaneamente adoperato a questo scopo a partire dal dicembre del 1838. Non si conosce né la progettatadurata di questa sistemazione provvisoria, né l'anno in cui fu decisa l'edificazione dell'attuale cimitero. Si sa, comunque, che venne stanziata la somma di 1.300 ducati da spendersi, per il completamento dell’opera, nel quinquennio 1853-1857 e che solo nel 1856 fu messa in bilancio la somma necessaria alla costruzione della strada di collegamento con il centro abitato Naturalmente tutti questi ritardi contribuirono a deteriorare ancora di più le già precarie condizioni igieniche del paese. Si pensi che Pescolamazza, nel 1846, fu tra i pochi comuni del Principato Ultra colpiti dall’epidemia di vaiolo. Il problema delle comunicazioni, infine, fu risolto, almeno in parte, con la costruzione della Strada Val Fortore (l’attuale S. S. 212) e della linea ferroviaria Benevento-Campobasso-Termoli, inaugurata, nel tratto Pietrelcina-Pescolamazza (fino a S. Giuliano), il 12 febbraio del 1882. Per quanto riguarda il collegamento ferroviario, però, si trattò di un’occasione mancata. L’ubicazione della stazione, infatti, posta a oltre quattro chilometri dal centro abitato, risultò di scarsa utilità e contribuì in maniera determinante a tenere praticamente isolato il paese fino alla metà del Novecento.
Un altro problema da affrontare fu quello della costruzione del cimitero. Già tempo prima era stato scelto un appezzamento di terreno in contrada del Fornillo. Frattanto sembrava che la zona non fosse più adatta, anche se una disposizione del re proprio di quei giorni, proibì le inumazioni in chiesa; poiché il corpo insepolto di una ragazza giaceva lì da due giorni, si decise che una piccola porzione di quel terreno fosse utilizzata temporaneamente. Non si conosce né la durata di questa sistemazione provvisoria, né l'anno in cui fu decisa l'edificazione dell'attuale cimitero.
Inoltre solo nel 1856 fu stanziata una somma per la costruzione della strada di collegamento con il paese. Questi ritardi contribuirono a deteriorare le già precarie condizioni igieniche del paese: Pesco nel 1846 fu tra i pochi comuni del Principato Ultra colpiti dall'epidemia di vaiolo.
Il problema delle comunicazioni fu risolto, almeno in parte, con la costruzione della strada Valfortore (l'attuale [[Strada statale 212 della Val Fortore|SS 212]]) e della [[Ferrovia Benevento-Campobasso|linea ferroviaria Benevento-Campobasso]]. In realtà Pescolamazza era stato escluso inizialmente dal tracciato della Valfortore. Fortunatamente, un consigliere provinciale propose di costruire a spese delle provincie “la strada per Val Fortore” che partendo dal luogo detto i “Mosti” passa per Pescolamazza e San Marco dei Cavoti. Secondo questa proposta, quindi, la via avrebbe dovuto attraversare Vallone Pilone. Quando poi si passò al progetto vero e proprio il tracciato venne notevolmente allungato per comprendere anche Pietrelcina.
Un altro importante momento per la storia pescolana fu la costruzione della linea ferroviaria Benevento-Campobasso, inaugurata nel tratto Pietrelcina-Pescolamazza il 12 febbraio 1882. Purtroppo, a causa della posizione non centrale della [[stazione di Pescosannita-Fragneto L'Abate]], il paese rimase alquanto isolato fino alla metà del nostro secolo (pagine 63-66 "''Storia di Pesco sannita''")
=== La Galleria dei personaggi celebri ===
Tra i personaggi di origine pescolana, degni di essere menzionati sono: Giandonato Orlando (1834-1883), il figlio prete del filo borbonico Luigi, che collaborò come epigrafista con il famoso archeologo padre Raffaele Garrucci della Compagnia di Gesù, il commediografo dialettale Giandomenico Viglione (1862-1922), il letterato e professore universitario Francesco Viglione (1879-1969), universalmente noto per i suoi studi foscoliani (''Sul teatro di Ugo Foscolo'', Nistri, Pisa, 1905; ''Catalogo dei manoscritti foscoliani,'' Fusi, Pavia, 1909; ''Ugo Foscolo in Inghilterra'', Muglia, Catania, 1910; ''Scritti vari inediti di Ugo Foscolo'', Giusti, Livorno, 1913), don Ruggiero Pilla (1911-1987), economo generale dei Salesiani dal 1963 al 1983, Luigi Augusto Pilla (1935-2015), prefetto di Enna, Matera e Campobasso, Ruggero Pilla, procuratore della Repubblica presso il tribunale di Benevento dal 1994 al 2008, e Fernando Masone (1936-2003), capo della Polizia di Stato tra il 1994 e il 2000 e, successivamente, direttore del CESIS (l’organismo che coordina l’attività dei servizi segreti) fino al giorno della sua morte. Nel campo dello sport Pesco ha avuto due campioni italiani di atletica leggera (Luciano Possumato, titolo juniores indoor 1986 negli 800 m, e Maurizio Gifaldi, titolo italiano assoluto1994 nel salto triplo) e uno di nuoto (Fabiola Caruso, titolo italiano categoria propaganda 2007 nei 50 m rana). Per quanto riguarda il ciclismo, inoltre, degni di nota sono i fratelli Olindo e Nicola Fiore che, verso la fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, trasferitesi a Torino, hanno avuto modo, nella categoria allievi, di confrontarsi alla pari con atleti del calibro di Italo Zilioli e Franco Balmamion. La loro esperienza, però, fu di breve durata. Dopo la morte di Olindo, avvenuta per leucemia il 10 marzo 1960, anche Nicola abbandonò definitivamente le corse. Pesco, inoltre, vanta due generali (Antonio Severino, 1911-1997, e Bruno Capozza, classe 1947) e un uomo politico (Costantino Boffa, classe 1957, deputato al parlamento nazionale tra il 2006 e il 2013). Per quanto concerne lo spettacolo bisogna ricordare che Pesco ha un posto di rilievo nell’ambito circense. Basti pensare a tale proposito che il ''Circo Castellucci'' e il ''Circo Martin Show'' sono stati fondati dai nostri compaesani Attilio Castellucci e Angiolino Martino, rispettivamente. Da non dimenticare, infine, che Silvio Orlando, vincitore della coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile alla Mostra del Cinema di Venezia 2008 ne ''Il papà di Giovanna'' di Pupi Avati, ha sangue pescolano nelle vene. Suo padre Nicola, infatti, pronipote del succitato filo borbonico Luigi, era nato e cresciuto a Pesco.
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== Monumenti e luoghi d'interesse ==
=== Architetture religiose ===
[[File:Pesco Sannita - Chiesa del Salvatore.jpg|miniatura|La Chiesa del Santissimo Salvatore]]
Alla fine del Seicento a Pesco c'erano, oltre al SS. Salvatore e a San Nicolò, altre due chiese (S. Croce e S. Rocco) ede un oratorio (S. Maria dell'Arco). Un'altra chiesa (S. Maria a Tamele) si trovava nel feudo di Monteleone. Dopo il terremoto dell'8 settembre 1694 le chiese di S. Maria a Tamele e di S. Rocco, irrimediabilmente danneggiate, furono chiuse al culto. Agli inizi del Settecento, poi, furono lasciati in abbandono anche S. Croce e l'oratorio di S. Maria dell'Arco. Quest'ultimo, meglio noto come “la Cappella”, riaperto al culto nell'Ottocento, fu abbellito esternamente con un dipinto su tavola di Francesco de Maio (ufficiale“commesso postalepostale” dell'epoca) e con un Cristo crocifisso scolpito in legno da un contadino pescolano (Giandomenico Pennucci). Il quadro, peròdipinto, la cui parte inferiore rappresentavarappresenta Piazza Gregaria (l'attuale Piazza Umberto I) con sullo sfondo via Cappella e Casale S. Antonio, è stato ormai quasi completamente deteriorato dalle intemperie, è stato restaurato nel 2008 da Antonio Solvino e utilizzato come pala d’altare dell’oratorio. Il Cristo ligneo, invece, è stato distrutto durante i lavori di messa in opera delle baracche per i terremotati del 1962. La chiesetta, ricaduta in abbandono nei primi decenni del Novecento, è stata fatta restaurare da donmons. Nicola D'Addona nel 1977 e da don Nicola Gagliarde nel 2008. Nessuna delle altre antiche chiese pescolane è giunta integra fino a noi. Di S.Croce e di S. Rocco, infatti, si sono perse completamente le tracce. La chiesa di S. Nicolò, invece, lasciata in abbandono poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, è stata demolita nella primavera del 1971. La chiesa del SS. Salvatore, infine, ristrutturata una prima volta verso la fine dell'Ottocento da don Giandonato Orlando, modificata agli inizi del Novecento dal suo successore don Domenico Sabella, ampliata tra il 1921 e il 1924 da don Emilio Parrella, è stata completamente rifatta da mons. Nicola D'Addona, sulla base di un progetto ideato insieme al fratello Ing. Luigi, e inaugurata nel 1968. La costruzione, pur apparendo a prima vista come un complesso architettonico progettato ''ex novo'', conserva, armonizzandoli pienamente, i segni delle ristrutturazioni precedenti (basti pensare alla presenza contemporanea di archi a sesto acuto, a tutto sesto e di architravi). L'unica parte della chiesa che non ha subito modifiche è l'ex cappella di S. Reparata che, però, è stata trasformata in sacrestia. Molto più recente, infine, è l'oratorio di Maria SS. Addolorata e di S. Giuseppe, fatto edificare da Pasquale De Simio in un fondo di sua proprietà e ultimato nel 1840.
Nessuna delle altre antiche chiese pescolane è giunta integra fino a noi. Di S.Croce e di S. Rocco, infatti, si sono perse completamente le tracce. La chiesa di S. Nicolò, poi, lasciata in abbandono poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, è stata demolita nella primavera del 1971.
La chiesa del SS. Salvatore, infine, ristrutturata una prima volta verso la fine dell'Ottocento da don Giandonato Orlando, modificata intorno al Novecento dal suo successore don Domenico Sabella, ampliata tra il 1921 ed il 1924 da don Emilio Parrella, è stata completamente rifatta da don Nicola D'Addona, sulla base di un progetto ideato insieme al fratello Ing. Luigi ed inaugurata nel 1968. La costruzione, pur apparendo a prima vista come un complesso architettonico progettato ex novo, conserva, armonizzandoli pienamente, i segni delle ristrutturazioni precedenti (basti pensare alla presenza contemporanea di archi a sesto acuto, a tutto sesto e di architravi). L'unica parte della chiesa che non ha subito modifiche è l'ex cappella di S. Reparata che, però, è stata trasformata in sacrestia.
Molto più recente, infine, è l'Oratorio di Maria SS. Addolorata e di S. Giuseppe, fatto edificare da Pasquale De Simio in un fondo di sua proprietà e ultimato nel 1840. (pagine 31-38 "''Storia di Pesco sannita''")
== Società ==
=== Evoluzione demografica ===
L'andamento demografico tra il 1697 e il 1857 mostra un progressivo aumento didella popolazione. PerGli esempioabitanti, nelinfatti, 1697che glisono abitanti sonoappena 461, nel 17221697, sonodiventano 706 nel 1722, 904 nel 1736, sono 904,1014 nel 1742, sono 1014, 1158 nel 1770, sono 1158, 2028 nel 1827 sonoe 2028,2460 nel 1857 sono 2460. Successivamente, aldopo il passaggio sotto il Regno d'Italia, la popolazione evolve come mostrato nel grafico:
{{Demografia/Pesco Sannita}}
==== Caratteristiche ====
* Molto caratteristica è la trasformazione delle sillabe ''scia-'', ''scio-'', ''sciu-'' di alcune parole napoletane (''fia-'', '' fio-'', ''fiu-'' in italiano) in ''hia-'', ''hio-'', ''hiu-'' con l'h aspirata (per es. nap. ''sciato'' = fiato, pesc. ''hiato'' oppure; nap. ''sciummo'' = fiume, pesc. ''hiumo'', ecc.).
* Nel dialetto pescolano la ''o'' finale assume un suono intermedio tra la ''o'' e la ''u'' quando la parola viene presa singolarmente o si trova alla fine di una frase, mentre diventa decisamente '' u'' quando sta al suo interno. La pronuncia della ''z'' è sempre sorda (come in ''marzo'') tranne che dopo la ''n'' (''‘nzèngale'', ''cunzèreva''), davanti ai dittonghi ''ia'', ''ie'', ''io'', ''iu'' e in alcuni vocaboli (''manazzèo'', ''zechetià'' e ''zurro'') dove diventa sonora. La ''s'' davanti a tutte le consonanti (fatta eccezione per ''d'' e ''t'') si pronuncia come il digramma ''sc'' davanti alle vocali ''i'' ed ''e''.
* Alcune parole maschili hanno unil plurale al femminile (''anéglio'' = anello, pl. ''Anèllureanèllure''; - ''carro'', pl. ''Carrecarre''; -ósso = ''osso'', pl. ''Òssereòssere'' -; ''óvo'' = uovo, pl. ''Òveòve'' -; ''pertuso'' = buco, pl. ''Pertósepertóse'' -; ''pùzzo'' = pozzo pl. ''Pùzzerepózzere'').
* Nel plurale alcuni vocaboli in dialetto pescolano conservano ancora tracce evidenti del genere neutro;. ad esempio, gliGli aggettivi ''tantoquanto'' e ''quantotanto'', ad esempio, si trasformano al plurale in ''quanta'' e ''tanta'' (neutro plurale latino di ''quantum'' e ''tantum'', rispettivamente).
* Gli infiniti dei verbi della prima coniugazione italiana e di quelli piani della seconda diventano tronchi per la perdita di ''-re'' finale (''abbicinà'' = avvicinare, ''tené'' = tenere). Quelli sdruccioli della IIseconda coniugazione e quasi tutti quelli della terza, invece, assumono la forma della terza persona singolare dell'indicativo presente (es. ''chiòve'' al posto di ''chiòvere'' = piovere, ''fenìsce'' al posto di ''fenì'' = finire). I verbi riflessivi diventano tutti sdruccioli, tranne qualche rara eccezione come ''arrènnerese'' = arrendersi, ''cèrnerese'' = ancheggiare e ''spégnerese'' = sciogliersi che sono bisdruccioli. Quelli della prima coniugazione, infatti, terminano in ''-àrese'', quelli della seconda in ''-èrese'' e quelli della terza in ''-ìrese''. I gerundi, infine, finiscono sempre in ''-ènne'' (mentre nel napoletano in ''-ànno'' quelli della Iprima coniug.coniugazione ede in '' -ènno'' tutti gli altri).
==== TerminologiaAlcuni termini dialettali ====
* '' Accunzà'' : v. tr. 1) aggiustareAggiustare. 2) condireCondire. Proverbio: ''lL'óssu vécchiovécchiu accònza la menèstra'' (l'osso vecchio condisce la minestra, cioè per risolvere i problemi ci vuole l'esperienza degli anziani).
* ''Bòsso'' : s. m. neologismoNeologismo importato dai primi Pescolani emigrati negli Stati Uniti d'America. Venne adoperato, specialmente tra il primo e il secondo dopoguerra, per indicare il padre neinelle discorsi con terziconversazioni da quanti ormai si vergognavano di usare la parola ''tata'' ma non erano ancora disposti a ricorrere al termine ''papà'', ritenuto un'esclusiva delle famiglie di ceto più elevato. Analogamente con la parola ''bòssa'' si indicava la madre. Etim.: dall'ingl. ''boss'' (capo, padrone).
* ''Cùccio'' : s. m. coniglioConiglio.
* ''Fìcura'' : s. f. ficoFico (albero oe frutto) /Varietà locali: Ficus carica serotina (''fìcura natalèse''), Ficus carica fasciata (''fìcura zengarellazengarèlla''), Ficus carica verdecchius (''fìcura verdesca''). “''/«A la fìcura''!”» era una minaccia che si faceva ai cani ed equivaleva a dire: “Ora«Ora ti ammazzo!”». Anticamente, infatti, si usava seppellire questi animali sotto gli alberi di fico per concimarli.
* ''Ócchio'' : s. m. occhioOcchio / ''FaFà l'ócchio'': far passare il mal di testa provocato dal malocchio. A questo scopo basta versare una goccia d'olio in un piatto pieno d'acqua, fare con il pollice della mano destra un segno di croce sulla fronte del malato e recitare la formula magica:” ''Lunnedì santu, martedì santu, mercudì santu, giovedì santu, vernedì santu, sabbetu santu… Duméneca è Pasqua e l'ócchiu casca''”. La formula in realtà viene borbottata per evitare che gli astanti riescano a comprenderne le parole (solo durante la notte di Natale, infatti, può essere detta chiaramente a quelli che vogliono impararla). Lo scongiuro riesce solo se la goccia d'olio si allarga fino ad occupare l'intera superficie dell'acqua. Il modo, poi, con cui l'olio si spande nel piatto permette anche di scoprire il sesso dell'autore della fattura. Se infatti la goccia allargandosi assume la forma di una collana (''cannàcca''), se cioè la sua circonferenza si ricopre lungo tutta la linea di minute goccioline, si può essere certi che il malocchio è stato fatto da una donna. ProverbioModo d dire: ''Accattà l'óglio pe' fa'fà l'ócchio'' (Comprarecomprare l'olio per togliere il malocchio, cioè appena qualche goccia): essere spilorcio.
* ''Parénti'' : s. m. pl. 1) Chiazze rosse che si formano sulle gambe per eccessiva vicinanza al fuoco del camino. 2) Consanguinei e affini. Proverbio: ''ILi parénti sóngosóngu cum'a li stivali, cchiù stritti sóngosóngu e cchiù fannfannu male'' (i parenti sono come gli stivali, più sono stretti e più fanno male).
* ''Pasquabifanìa'' : s. f. Epifania. / ''Pasquabifanìa tutte le fésti se porta via''. ''Dice Sant'Antóno:“Aspetta «Aspetta ca ce sta la mia!”»''. Con l'arrivo dell'Epifania non finiscono tutte le feste: prova ne sia che solo qualche giorno dopo, il 17 di gennaio, già si festeggia S. Antonio Abate.
* ''Rape'' : v. tr. Aprire. Proverbio: ''Chi te sape te rape'' (chi ti conosce ti apre, cioè viene a rubare da te solo chi frequenta la tua casa).
* ''SarecarèllaSalecarèlla'' : s. f. piccolo Pianta cespuglio,delle riferitoSalicacee solitamentemolto allediffusa piantelungo che crescono neii corsi d'acquad’acqua.
* ''Spulepà'' : v. tr. Spolpare. /''Te sî mangiata la carne, mó' spólepete l' ósso'': ti sei mangiata la carne, ora spolpati l'osso (hai dissipato tutte le tue sostanze, adesso arrangiati).
* ''Strùmmulo'': s. m. Trottola di legno. Lo ''strùmmulo'', a forma di pera rovesciata e dotato nella sua parte inferiore di una punta di ferro, viene lanciato e fatto girare per mezzo di una cordicella arrotolata intorno ad esso a partire quasi dall'estremità della punta fino a circa metà della sua parte in legno. Il lancio, una volta impugnato l'attrezzo con la punta rivolta verso l'alto e poggiata nell'incavo tra indice e pollice, avviene alzando e portando all'indietro il braccio e subito dopo muovendolo velocemente in avanti e verso il basso. A questo punto, effettuata una rapida torsione del polso, la mano che lo stringe viene aperta e contemporaneamente la cordicella tirata all'indietro per mezzo di un occhiello che, praticato alla sua estremità libera, è stato infilato in un dito. Il gioco, ormai da tempo caduto in disuso, si faceva a Pesco, in contrada S. Giuseppe, in occasione della festa del santo, cioè il 19 di marzo, sin dagli inizi degli anni quarantaQuaranta del diciannovesimo secolo, epoca in cui era stata aperta al culto l'omonima cappella. Esso, destinato ad un numero indeterminato di persone, consisteva nel lanciare uno per volta l'attrezzo in un cerchio (detto ''póce'') tracciato incidendo semplicemente il terreno con uno stecco o, nei casi più elaborati, facendo uso di polvere di gesso. I lanci continuavano fino a che lo ''strùmmulo'' di uno dei giocatori, alla fine della sua rotazione, non restava all'interno del cerchio. A questo punto gli altri lanciavano a turno i loro attrezzi su quello restato prigioniero cercando di spingerlo fuori o di spaccarlo. E proprio per scongiurare questa seconda eventualità si usava a volte proteggerlo con delle bullette da scarpa (le cosiddette ''centrelle'').
* ''Tarantéglio'' : s. m. Ghiacciolo a forma di stalattite che durante le notti invernali si genera per rapido congelamento delle gocce d'acqua che cadono dal tetto innevato. Etim.: probabilmente il riferimento alla tarantella è dovuto al fatto che quando questi ghiaccioli si formano, l'unico modo che si ha per vincere il freddo è quello di saltellare).''’Ucculàro'' s.m. Guanciale del maiale.
* ''Ucculàro'' : s. m. Guanciale del maiale.
== Economia ==
=== Agricoltura ===
* OLIO: Per- laLa produzione didell’olio, oliooltre spiccanoche i dalle cultivarantiche piantagioni di <nowiki>[[ortice]]</nowiki>, che è una tipologiavarietà autoctona del territorio presente nella maggior parte del sannioSannio, eproviene coltivazionianche didalla coltivazione del <nowiki>[[ogliarolaleccino]]</nowiki> e, in misura molto minore, da quella dell’<nowiki>[[leccinoogliarola]]</nowiki>, tipica cultivar pugliese.
* VINO: - La coltura della vite nellanell’agro zonapescolano è molto diffusa e le varietà più usate sono l'<nowiki>[[Aglianicoaglianico]]</nowiki> grosso detto "''aglianicone"'', vitigno autoctono del sannio eSannio, il <nowiki>[[Piedirossopiedirosso]] detto anche "pede e palomma" perché ha</nowiki>, il graspo<nowiki>[[barbera]]</nowiki>, di colore rosso a formala<nowiki>[[coda di piedevolpe]]</nowiki> die colombo anch'esso autocotono del sannio; nel corso dei secoli si è inoltre ottenuta naturalmente una selezione clonale del vitignola <nowiki>[[moscatomalvasia]]</nowiki>. tipicaIn dellaquesti zonaultimi chiamatoanni, "muscateglio"poi, e negli annisi è stataintrodotta inseritaanche la coltivazione del <nowiki>[[sangiovese]]</nowiki> e di altri vitigni tipici di altre zone della Campania come il <nowiki>[[fiano]]</nowiki>, greco e falanghina. I terroir migliori della zona sono: il cutino<nowiki>[[greco]]</nowiki> e in generale la zona collinare esposta a sud di contrada Monteleone<nowiki>[[falanghina]]</nowiki>.
*CEREALI – Il più noto tra i cereali coltivati nell’agro pescolano è il grano <nowiki>[[saragolla]]</nowiki> (''Triticum turgidum durum''), localmente chiamato ''saraólla'', appartenente alla famiglia del ''Khorasan'' (''Triticum turgidum turanicum''), il famoso “grano dei Faroni”, diffuso tra il quarto e il quinto secolo d. C. in una vasta zona dell’Italia meridionale comprendente la Lucania, la Campania, la Puglia e l’Abruzzo. Macinato ''in loco'', viene utilizzato quasi esclusivamente per la panificazione. Il nome <nowiki>[[saragolla]]</nowiki> deriva dall’ungherese ''sarga'' (giallo) e ''golyo'' (seme) e significa letteralmente “chicco giallo
* CEREALI: Tra i cereali coltivati in zona spicca la [[saragolla]] localmente detta "sarraolla" che è un'antica varietà di grano duro di colore giallo intenso che arriva dall'Egitto portata nel sannio dalle popolazioni protobulgare Altzec nel 400 d.C. saragolla risulta costituita dalle parole SARGA = giallo e GOLYO = seme e significa letteralmente “chicco giallo”. La stessa varietà che venne scoperta in Egitto e denominata "kamut". La saragolla in loco viene coltivata, molita da un molino locale e panificata, sempre il loco, dando origine al pane locale detto "Pane di Sarraolla". Questo tipo di grano essendo puro senza alterazioni risulta essere più digeribile anche per soggetti con allergie al glutine.
== Amministrazione ==
== Bibliografia ==
* AntonioAlfonso IamalioMeomartini, ''LaI reginacomuni deldella Sannioprovincia di Benevento'', ed.De ArdiaMartini, NapoliBenevento, 19181907.
*Antonio Mario D'AgostinoIamalio, ''StoriaLa diregina Pescodel SannitaSannio'', fratelliFederico Contee EditoriArdia, Napoli, 19811918.
* Mario D'Agostino, ''Dizionario Storia di Pesco PescolanoSannita'', ArteFratelli TipograficaConte EditriceEditori, Napoli, 20041981.
* Mario D'AgostinoD’Agostino, ''PescoLa Sannita.reazione Storiaborbonica diin unprovincia millenniodi Benevento'', VerejaFratelli EdizioniConte Editori, BeneventoNapoli, 20091987.
*Mario D’Agostino, ''Pesco Sannita tra cronaca e storia'', Arte Tipografica Editrice, Napoli, 2000.
*Mario D'Agostino, ''Dizionario Pescolano'', Arte Tipografica Editrice, Napoli, 2004.
*Mario D'Agostino, ''Pesco Sannita. Storia di un millennio'', Vereja Edizioni, Benevento, 2009.
*Mario D’Agostino, ''Vita da briganti. Il brigantaggio postunitario nel Beneventano'', Vereja Edizioni, Benevento, 2009.
*Mario D’Agostino, ''Legittimismo e brigantaggio in Campania'', Vereja Edizioni, Benevento, 2011
*Mario D’Agostino, ''Pesco Sannita. Storia e dialetto'', Ideas Edizioni, Benevento, 2016.
== Voci correlate ==
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