Ilaria Alpi: differenze tra le versioni

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Ilaria Alpi giunse per la prima volta in [[Somalia]] nel dicembre [[1992]] per seguire, come [[Inviato|inviata]] del [[TG3]], la missione di pace ''[[UNITAF|Restore Hope]]'', coordinata e promossa dalle [[Organizzazione delle Nazioni Unite|Nazioni Unite]] per porre fine alla [[guerra civile in Somalia|guerra civile]] scoppiata nel [[1991]], dopo la caduta di [[Mohammed Siad Barre|Siad Barre]]. Alla missione prese parte anche l'Italia, superando in tal modo le riserve dell'inviato speciale per la Somalia, [[Robert B. Oakley]], legate agli ambigui rapporti che il governo italiano aveva intrattenuto con Barre nel corso degli [[Anni 1980|anni ottanta]].
 
Le inchieste della giornalista si sarebbero poi soffermate su un possibile [[traffico di armi]] e di [[rifiuti tossici]] che avrebbero visto, tra l'altro, la complicità dei [[servizi segreti italiani]] e di alte istituzioni italiane:<ref name="F.Q. 2012" /><ref name="F.Q. 2014" /><ref>{{Cita news|autore=Andrea Palladino|url=http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/18/caso-alpi-barre-duranio-dossier-dei-servizi-negli-atti-parlamentari-segreti/917395/|titolo=“Caso Alpi-barre d’uranio”: dossier dei servizi negli atti parlamentari segreti|pubblicazione=[[Il Fatto Quotidiano]]|data=18 marzo 2014|accesso=23 ottobre 2016}}</ref><ref>[http://www.libreidee.org/2010/07/armi-e-rifiuti-tossici-ilaria-alpi-il-martirio-della-verita/ Armi e rifiuti tossici: Ilaria Alpi, il martirio della verità]</ref> Alpi avrebbe infatti scoperto un traffico internazionale di rifiuti tossici prodotti nei Paesi industrializzati e dislocati in alcuni paesi africani in cambio di tangenti e di armi scambiate coicon i gruppi politici locali. Nel novembre precedente l'assassinio della giornalista era stato ucciso, sempre in Somalia e in circostanze misteriose, il sottufficiale del [[Servizio per le informazioni e la sicurezza militare|SISMI]] [[Vincenzo Li Causi]], informatore della stessa Alpi sul traffico illecito di scorie tossiche nel paese africano.<ref>[http://www.ilariaalpi.it/index.php?id_sezione=3&id_notizia=288 Rassegna stampa su ilariaalpi.it]</ref>
 
Alpi e Hrovatin furono uccisi in prossimità dell'ambasciata italiana a Mogadiscio, a pochi metri dall'hotel Hamana, nel quartiere Shibis; in particolare, in corrispondenza dell'incrocio tra via Alto Giuba e corso Somalia (nota anche come strada Jamhuriyada, corso ''Repubblica''). La giornalista e il suo operatore erano di ritorno da [[Bosaso]], città del nord della Somalia: qui Ilaria Alpi aveva avuto modo di intervistare il cosiddetto sultano di Bosaso, Abdullahi Moussa Bogor, che riferì di stretti rapporti intrattenuti da alcuni funzionari italiani con il governo di Siad Barre, verso la fine degli anni ottanta. La giornalista salì poi a bordo di alcuni pescherecci, ormeggiati presso la banchina del porto di Bosaso, sospettati di essere al centro di traffici illeciti di rifiuti e di armi: si trattava di navi che inizialmente facevano capo ad una società di diritto pubblico somalo e che, dopo la caduta di Barre, erano illegittimamente divenute di proprietà personale di un imprenditore italo-somalo. Tornati a Mogadiscio, Alpi e Hrovatin non trovarono il loro autista personale, mentre si presentò Ali Abdi, che li accompagnò all'hotel Sahafi, vicino all'aeroporto, e poi all'hotel Hamana, nelle vicinanze del quale avvenne il duplice delitto. A bordo del mezzo si trovava altresì Nur Aden, con funzioni di scorta armata.
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Il 6 giugno 1997, intanto, Panorama aveva dato conto, in un ampio reportage, di numerose violenze asseritamente commesse dalle truppe italiane in Somalia nell'ambito della missione Ibis ([[UNOSOM I]] e [[UNOSOM II|II]]), pubblicando alcune foto; inoltre, era stato diffuso un memoriale (''memoriale Aloi''), in cui l'estensore, un maresciallo all'epoca in servizio presso il [[1º Reggimento carabinieri paracadutisti "Tuscania"|reggimento Tuscania]], aveva denunciato una serie di presunte violenze messe in atto dal contigente italiano ai danni di civili somali, adombrando un ''possibile collegamento tra la morte della giornalista Alpi e certi comportamenti'' dei militari italiani. Al fine di accertare la perpetrazione di eventuali abusi nei confronti della popolazione, il 16 giugno fu nominata un'apposita commissione governativa d'inchiesta (presieduta da [[Ettore Gallo]] e composta da [[Tina Anselmi]], [[Tullia Zevi]], i generali Antonino Tambuzzo e Cesare Vitale). Di lì a poco, d'altra parte, emerse la mendacità delle affermazioni rilasciate nel corso dell'intervista a Panorama da uno degli accusatori<ref>[https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1997/06/27/ho-calunniato-esercito-per-fare-un.html La Repubblica, 27/06/1997, "Ho calunniato l'esercito per fare un po' di soldi"]</ref>, mentre la stessa commissione Gallo, al termine dei lavori, escluse che il contingente italiano si fosse reso responsabile, nel suo complesso, di atti di violenza contro i civili (al contrario di quanto fu accertato per il contingente canadese, nell'ambito del cosiddetto ''Somalia affair'', e per quello belga)<ref>La magistratura indagò sui seguenti fatti di reato: 1) il presunto stupro ed omicidio di un minore somalo presso l'ambasciata italiana a Mogadiscio, per il quale fu indagato un tenente colonnello della Folgore: fu provata la mendacità delle dichiarazioni accusatorie, peraltro rese da un civile che, in gioventù, aveva frequentato l'Accademia navale di Livorno e dalla quale era stato a suo tempo allontanato per motivi psichiatrici, con la diagnosi di note neurotoniche nevrasteniche; i giudici, in motivazione, stigmatizzarono la circostanza secondo cui i vertici militari non avrebbero collaborato alle indagini "per negligenza o altro"; 2) lo stupro di una giovane somala con un razzo illuminante; la vittima, individuata in Dhaira Salad Osman, sostenne che il fatto sarebbe stato commesso a [[Giohar]], mentre l'autore della fotografia disse di averla scattata a [[Balad (Somalia)|Balad]], presso il posto di blocco Demonio, il 14-15 giugno 1993; 3) le torture con elettrodi commesse al campo di Johar il 9-10 aprile 1993 ai danni di un prigioniero somalo, Aden Abukar Ali. Furono imputati, per il delitto di [[abuso di autorità contro arrestati o detenuti]], due militari: uno patteggiò la pena; l'altro fu condannato in primo grado a diciotto mesi di reclusione, ma nei suoi confronti fu poi pronunciata, in appello, sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione; 4) le sevizie commesse nei confronti di tre cittadini somali, poi ricoverati presso un ospedale di Mogadiscio gestito dagli Emirati Arabi Uniti: costoro erano stati arrestati il 2 luglio 1993 mentre, a bordo di un camion carico di armi, si stavano dirigendo verso il [[checkpoint Pasta]], in cui si stava svolgendo la [[battaglia del pastificio]], al fine di sostenere i miliziani somali (negli scontri persero la vita tre militari italiani); 5) un falso ideologico: i militari italiani autori dell'arresto suddetto, al fine di smentire quanto sostenuto dalle persone offese, produssero un documento falso in cui attestavano di aver consegnato i tre arrestati alla polizia somala il giorno successivo.</ref>.
 
Nel corso del 1997, un giornalista, [[Giovanni Maria Bellu]], portò alla luce una singolare circostanza. Dal momento che due componenti del commando erano rimasti feriti, Bellu, recatosi nella capitale somala, chiese ad un amministratore dell'ospedale Keysaney, unico presidio di Mogadiscio in grado di affrontare emergenze di una certa rilevanza, di poter visionare i registri delle persone che si erano presentate presso detto ospedale. A tal fine, Bellu fornì come pretesto la vicenda delle presunte violenze commesse dai militari italiani ai danni della popolazione civile e richiese i registri relativi a date disparate, tra le quali inserì però la data dell'agguato; ebbene, nel registro relativo al 20 marzo 1994, giorno dell'agguato, figuravano solo due feriti d'arma da fuoco e il nome di entrambi i pazienti era stato cancellato colcon il bianchetto e poi riscritto sopra.
 
Nei primi mesi del 1997, intanto, in un'intervista rilasciata a Isabel Pisano e Serena Purarelli per ''[[Mixer (programma televisivo)|Format]]'', Osman Omar Weile (detto Gasgas), colonnello della polizia di Mogadiscio nord, sostenne di avere i nominativi degli esecutori materiali dell'agguato: egli, infatti, era intervenuto sul luogo del delitto il giorno del tragico evento e aveva provveduto ad ascoltare alcune persone presenti sul posto per tentare di ricostruire la dinamica dell'agguato, incaricando poi il suo vice, Ali Jiro Shermarke, di redigere una dettagliata relazione. Il capo della polizia di Mogadiscio nord era, all'epoca dei fatti, il generale Ahmed Jilao Addo.