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=== Storia del genere umano ===
{{leggi il testo|sezione=s|[[s:Operette morali/Storia del genere umano|Storia del genere umano]]}}
[[File:Adam Eva, Durer, 1504.jpg|thumb|left|upright=0.7|''Adamo ed Eva'', secondo la ''genesi'' tradizionale della [[Chiesa (istituzionecomunità)|Chiesa]], profondamente rivista da Leopardi: causò dapprima ''un'avvertenza ai lettori'' sugli errori del poeta, poi la messa all'[[Indice dei libri proibiti|Indice]] dell'intero libro. [[Albrecht Dürer|Dürer]], [[incisione]] su rame, 1504.]]
 
{{citazione|[...]s'ingannano a ogni modo coloro i quali stimano essere nata primieramente l'infelicità umana dall'iniquità e dalle cose commesse contro agli Dei; ma per lo contrario non d'altronde ebbe principio la malvagità degli uomini che dalle loro calamità.<ref name="SDGU">Secondo il Timpanaro fu proprio questo pensiero a destare il maggior scandalo quando furono pubblicate le Operette. Le convinzioni leopardiane si sarebbero scontrate frontalmente con l'ottimismo provvidenziale della [[Chiesa cattolica]].</ref>|Ibidem}}
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{{citazione|Dimandato a che nascano gli uomini, rispose per ischerzo: a conoscere quanto sia più spediente il non esser nati.|ibidem<ref>Zibaldone, p.[https://it.wikisource.org/wiki/Pagina:Zibaldone_di_pensieri_II.djvu/139 139]</ref>}}
 
Con un andamento sempre più aforistico, vicino allo stile dello Zibaldone, il capitolo si apre con un incitamento all'azione che allontana dalla noia e un'interessante allegoria del ''carciofo'' per spiegare il '''piacere''' umano,<ref>Il piacere umano è come un carciofo, per arrivare alla parte migliore (il cuore, il centro) bisogna prima mangiare le foglie dure e meno buone. Una felice metafora usata, in tempi più recenti, anche da [[Italo Calvino|Calvino]], (''Il carciofo della dialettica'', Una Pietra sopra, Saggi, 1981) per spiegare la complessità del reale e le difficoltà dello scrittore a raccontarla. </ref>, ritenuto dal filosofo il peggior momento della vita umana. La speranza e la rimembranza dei piaceri sono infatti cose migliori e più dolci degli stessi diletti. Tra questi, ritiene che i ricordi scaturiti dall'odorato sono i migliori, perché le cose gustate piacciono meno che a odorale. <ref>Anche in questo passo troviamo un'interessante riflessione su un tema poetico molto caro ad alcune avanguardie del novecento: si pensi alla [[Madeleine (gastronomia)|madeleine]] nell'opera di [[Marcel Proust|Proust]] in cui certi odori giocano un ruolo fondamentale nell'aprirsi della memoria, diventando protagonisti assoluti della costruzione narrativa</ref>. Usava spesso definire la vita come un ''letto duro'' dove si corica il malcapitato che per tutta la notte tenta invano di addormentarsi; ma quando è sul punto di farlo, senza essersi mai riposato, giunge l'ora di alzarsi.
 
{{QuoteCitazione|[...]essendo (gli uomini) sempre infelici, che meraviglia è che non sieno mai contenti?|ibidem}}
 
Nessuno è contento della propria condizione;<ref>Leopardi riporta una ''questione'' di [[Quinto Orazio Flacco|Orazio]], ''Satire'', I, I vv.1-3:
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Contentus vivat, laudet diversa sequentis?
</poem>''
Il poeta romano è ricordato anche nella battuta finale di Ercole sugli ''uomini giusti'' nel ''Dialogo di Ercole e Atlante. </ref> tutti sperano sempre in un miglioramento, in un avanzamento del proprio stato: l'uomo più FELICE della terra che non può avanzare in nessun modo la sua condizione, è il più misero di tutti!
 
[[File:Kuntze-Konicz Fortune.jpg|thumb|upright =0.7|[[Taddeo Kuntze]] La Fortuna, olio su tela, 1754 ]]La volontà umana non è libera e l'uomo non è, come credono alcuni filosofi, padrone del suo destino. I beni e i mali non sono nella potestà dell'essere umano, che liberamente decide come ''evitarli, mantenerli o liberarsene''. Mente e corpo, inscindibili, sono soggetti al decadimento; si spengono lentamente, colpiti da ''innumerevoli morbi e infiniti accidenti''; la felicità e la beatitudine non dipendono dalle nostre scelte:
 
{{QuoteCitazione|[...] l'uomo tutto intero, e sempre, e irrepugnabilmente, è in potestà della fortuna.
|ibidem}}
 
'''Capitolo terzo'''<br />
 
Il capitolo si apre con una rapida analisi sul dolore della perdita della persona amata. (<ref>cfr. anche la canzone ''Per una donna inferma di malattia lunga e mortale'', del 1819, vv.1-13:
Riga 398:
Negli scambievoli rapporti si solidarietà umana, sia il tempo del dolore sia il tempo dell'allegria sono ostacoli alla compassione verso il prossimo. Entrambe le passioni riempiono l'uomo del ''pensiero di se medesimo'' e non lasciano spazio alle preoccupazioni altrui.
 
{{QuoteCitazione|[Nel] il tempo del dolore, perché l'uomo è tutto volto alla pietà di sé stesso; [nel tempo] della gioia, perché allora tutte le cose umane ci si rappresentano lietissime e piacevolissime, [...] e le sventure e i travagli paiono quasi immaginazioni vane [...] troppo discordi dalla presente disposizione del nostro animo|ibidem}}
 
Le migliori occasioni di vedere gli uomini disposti alla compassione e all'azione lodevole e disinteressata si presentano quando la gioia nasce da pensieri vaghi e da oggetti indeterminati, provocando una ''tranquilla agitazione dello spirito'' che predispone volentieri a gratificare gli altri.
 
Non è vero che l'infelice trova maggiore comprensione presso suoi simili, anzi, più spesso, invece di partecipare al dolore, gli sventurati spostano l'attenzione sulla loro condizione, cercando di convincere che i propri malanni siano ''più gravi''. Quando Priamo supplica Achille per la restituzione del copro dell'amato figlio Ettore, l'eroe inizia a piangere non per compassione dell'anziano genitore ma per il ricordo di suo padre e dell'amico morto in battaglia, Patroclo.
 
[[File:Priamo chiede ad Achille il corpo di Ettore di Antonio Giaccarelli, 1819-25 ca. (particolare).JPG|thumb|400pxupright=1.8|Priamo chiede ad Achille il corpo di Ettore di Antonio Giaccarelli, 1819-25]]
 
La crudeltà e la malvagità, invece, nascono spesso dalla negligenza e dalla leggerezza delle nostre azioni, piuttosto che dalla ''pessima qualità morale'' degli uomini. Spesso però, nella piccola economia dei rapporti umani, è meno grave ricevere un'offesa manifesta (per maleducazione o per malvagità) che un ''piccolo'' riconoscimento per una ''grande'' azione di cui si è artefici; perché, in questo secondo caso, da un lato si priva il benefattore della ''nuda e infruttuosa gratitudine dell'animo'' (il fare qualcosa per la gloria, ecc.); dall'altro gli impedisce di lamentarsi per il torto ricevuto. Allo stesso modo, siamo portati a non riconoscere le buone qualità negli altri quando non sono a nostro vantaggio. <ref>''Quando non siano a nostro vantaggio, le buone qualità degli altri, se pure le scorgiamo, vogliamo celare a noi stessi di scorgerle''. Porena, ''Operette Morali'', Milano Hoepli, 1921</ref>
 
'''Capitolo quarto'''<br />
 
Ha per argomento i ''generi'' di persone.
 
Gli ''indecisi'' sono sempre quelli più determinati nel perseguire i loro propositi perché temono, a causa dell'ansia e dell'incertezza in cui vivono quotidianamente, di tornare in quella condizione di ''perplessità e sospensione d'animo'' che alimenta le loro esistenze: la vera sfida non è l'oggetto dell'impresa, ma vincere sé stessi. Negli uomini, sia antichi che moderni, la ''grandezza'' è frutto dell'eccesso di una loro particolare ''qualità'', tanto che la ''straordinarietà'' non si acquisisce se le qualità di un uomo importante siano ''bilanciate'' tra loro.
Riga 430:
# ''tollerabile'': quando la corruzione superò ogni limite e l'uomo imparò a disprezzare la virtù e ad avere esperienza dell'arido vero, la vecchiaia divenne tollerabile a causa del ''decadere fisico del corpo'', che mitigava, con il raffreddarsi del cuore e con la debolezza dei sensi, l'inclinazione alla malvagità.
 
'''Capitolo quinto'''<br />
 
{{citazione| [...] il vivere, per sé stesso non è bisogno; perché disgiunto dalla felicità non è BENE|ibidem}}
Riga 437:
Oggi lodare qualcuno significa misurare la soddisfazione “nel bene o nel male” che si ha di lui. Non si può amare senza un rivale: chiedere un piacere a qualcuno produce l'odio di una terza persona; alla fine i nostri desideri non saranno esauditi per timore dell'ira e dell'odio degli altri uomini. Oggi se servi qualcuno nella speranza di essere ricompensato non otterrai nessun risultato: le persone sono facili a ricevere e difficili a rendere.
 
Alcuni pensieri sono rivolti alla MODA, che ha un potere grandissimo, capace di far cambiare idea e costumi alle persone più radicali, tanto da convincerle ad abbandonare le loro precedenti convinzioni. (rif. Dialogo della Moda e della Morte); e al RISO: si ride di tutto tranne delle cose veramente ridicole.
 
Ciascuna generazione crede la precedente migliore della successiva: eppure si crede che i popoli migliorino più ci si allontana da una condizione ''primitiva'' e che fare un passo indietro significherebbe peggiorare.
 
Il VERO non è bello. Ma quando manca, il BELLO è da preferire a ogni altra cosa. Le città grandi sono luoghi di infelicità e miseria, dove si respira solo falsità perché ogni cosa è finta e vana. Per gli spiriti ''delicati'' sono il posto peggiore del mondo. OCCUPARE la vita è un bisogno maggiore del vivere stesso: il vivere per sé stesso non è BISOGNO perché separato dalla felicità non è BENE.
 
Sul finale un curioso riferimento all'innesto del vaiolo e una battuta sulla retorica: fatta promessa di non lodare nessuno, torna su i suoi passi per non dimenticare l'arte del ''ben parlare''.
 
'''Capitolo sesto'''<br />
 
Capitolo che, come il successivo, gioca sugli aforismi in maniera marcata. Qui sono contrapposti quelli di autori famosi, spesso commentati dal filosofo, mentre nel successivo sono riportati esclusivamente motti dell'Ottonieri.
 
Il capitolo si divide in de parti:
Riga 453:
'''I parte. Motti antichi.'''
 
L'ignoranza produce ''speranza''; la conoscenza produce l'oblio: la prima è un BENE la seconda un MALE. Secondo gli Egesiaci il vero piacere deriva dall'assenza di ogni dolore e quindi nella morte.<ref>Egesia, filosofo cirenaico del III sec a.C. era chiamato ''persuasor di morte'', cfr. ''Dialogo di Plotino e di Porfirio''</ref>
 
Di conseguenza gli uomini che cercano la felicità sono quelli più tormentati: i più fortunati traggono piacere da gioie minime che appena trascorse possono essere rivissute attraverso il ricordo (la rimembranza);<ref>La prima parte è una sentenza di [[Bione di Boristene]], filosofo cinrenaico del II sec. a.C.</ref>
 
Perché ci lamentiamo della NATURA che ci nasconde il VERO con vane apparenze, belle e dilettevoli, ma che ci lasciano nello stesso tempo LIETI? <ref>A riprova si cita un passo di [[Plutarco]] tradotto da [[Marcello Adriani]] sulle ''buffonerie di [[Stratocle]]'' che persuase gli Ateniesi di aver riportato una grande vittoria, mentre avevano subito una sconfitta. ''[…] quale ingiuria riceveste da me, che seppi tenervi in festa ed in gioia per ispazio di tre giorni?'' cit. ibidem </ref>
 
L'unico cammino di lode e di gloria tra i giovani è quello che passa per il piacere (VOLUTTA'). Magnificarsi e pavoneggiarsi con infinite novelle su grandi imprese, spesso ritoccate o interamente false, davanti agli amici con lo scopo di ottenere effimeri lodi o riconoscimenti, è l'unico modo per ottenere la fama.<ref>Ad esempio di '''vera''' grande impresa l'autore porta la storica battaglia di Isso 333 a.C. combattuta fra Dario, re dei persiani, e Alessandro Magno.</ref>
 
'''II parte. Il valore di un bravo scrittore.'''
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[[File:JulianusII-antioch(360-363)-CNG.jpg|thumb|upright=0.7|[[Flavio Claudio Giuliano|Giuliano l'Apostata]] raffigurato su di una moneta.]] E i lettori lo apprezzano perché non esiste modo migliore per trattate con maggior ''verità'' ed ''efficacia'' le cose altrui che ''favellando'' delle proprie; perché tutti gli uomini si assomigliano tra loro, sia nelle gioie che negli accidenti, quindi non esiste espediente tecnico migliore che trattarli come ''fatti'' propri. Segue un elenco di esempi tratti da famosi oratori che hanno animato il loro auditorio, ad un certo punto dell'arringa, parlando di sé stessi come [[Demostene]] o [[Marco Tullio Cicerone|Cicerone]] nel [[Pro milione]]; [[Bousset]] per le sue orazioni funebri, e [[Giuliano imperatore]],<ref>Giuliano l'Apostata tentò di far ripartire il paganesimo in un periodo in cui il cristianesimo andava affermandosi.</ref> per le argute ironie contro i suoi detrattori; tra gli italiani, [[Lorenzino dei Medici]]<ref>Lorenzino dei Medici giustificò di aver fatto uccidere nel 1537 il duca Alessandro dei Medici.</ref> e la sua ''apologia di un omidicio'', e le ''lettere familiari'' del [[Torquato Tasso|Tasso]].
'''Capitolo settimo'''<br />
 
Si conclude in chiave ironica la seconda prosa in capitoli (vedi il Parini) in cui si riportano le migliori sentenze e risposte argute dell'Ottonieri. La battuta sulla ''signora attempata'' che ''non intende certe voci antiche'' presenti in alcune poesie giovanili del filosofo è ripresa integralmente dalla prima pagina dello Zibaldone; quella sul gruppo di ''antiquari'' è probabile riferimento all'esperienza negativa del soggiorno romano in casa di parenti, durante le frequentazioni dei vari circoli culturali. Leopardi se ne lamentava in diverse lettere indirizzate al fratello Carlo. Nei salotti romani dell'epoca un ''letterato'' era l'equivalente dell'Antiquario o Archeologo.
 
[[File:Carlo leopardi.jpg|thumb|left|upright=0.7|[[Carlo Leopardi]]]]{{citazione| Vi ho parlato solamente delle donne, perché della letteratura non so che mi vi dire. Orrori e poi orrori. I più santi nomi profanati, le più insigni sciocchezze levate al cielo, i migliori spiriti di questo secolo calpestati come inferiori al minimo letterato di Roma, la filosofia disprezzata come studi da fanciulli, il genio, l'immaginazione e il sentimento, nomi (non dico cose ma nomi) incogniti e forestieri ai poeti e alle poetesse di professione; l'Antiquaria messa da tutti in cima al sapere umano, e considerata costantemente e universalmente come l'unico vero studio dell'uomo [...] Letterato e Antiquario a Roma è perfettamente tutt'uno.|Lettera a Carlo Leopardi, Roma 16 dicembre 1822}}.
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{{S sezione|letteratura}}
{{leggi il testo|sezione=s|[[s:Operette morali/Dialogo di Plotino e di Porfirio|Dialogo di Plotino e di Porfirio]]}}
[[File:Plotinos.jpg|thumb|left|upright=0.7|[[Plotino]]]]Composto, probabilmente a [[Firenze]], nel 1827<ref name="Firenze1845" />, il Dialogo propone il tema del suicidio, che già aveva ispirato le poesie ''Ultimo canto di Saffo'' e ''Bruto minore'', affrontandolo però in una prospettiva diversa. Mentre nelle poesie il suicidio è la scelta legittima di un'anima nobile che rifiuta la bassezza della vita e della società, nel Dialogo Leopardi conclude che le ragioni per respingere il suicidio sono di carattere umanitario.<br />Il dialogo si svolge fra due filosofi neoplatonici. [[File:Porphyry.jpg|thumb|right|upright=0.7|[[Porfirio]]]][[Porfirio]], il più giovane, è intenzionato ad uccidersi e difende con argomenti razionali la validità di tale decisione; il suo maestro [[Plotino]] non tenta di confutare le argomentazioni di Porfirio, ma sostiene che il suicidio deve essere evitato per non rendere più gravi, con tale gesto, le sofferenze delle persone care. La conclusione è un invito a sopportare ciò che il destino impone all'umanità, aiutandosi l'un l'altro "per compiere nel miglior modo questa fatica della vita". Essa in ogni caso sarà breve, e al suo termine ci si potrà consolare pensando che gli amici conserveranno con affetto il ricordo.
 
=== Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere ===
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{{leggi il testo|sezione=s|[[s:Operette morali/Dialogo di Tristano e di un amico|Dialogo di Tristano e di un amico]]}}
 
[[File:Aleksander-d-store.jpg|thumb|right|upright=0.7|[[Alessandro Magno]]]]
[[File:Julius_Caesar.jpg|thumb|left|upright=0.7|[[Gaio Giulio Cesare|Giulio Cesare]]]]
{{citazione|[...] Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi.|ibidem}}
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Inserita nell'edizione del '34 a conclusione del libro, l'operetta rappresenta la difesa finale del pensiero leopardiano, consumatasi nella rottura definitiva col gruppo fiorentino de l'Antologia di [[Gian Pietro Vieusseux]] e [[Niccolò Tommaseo]].
 
 
Tristano, autore di un libro sull'infelicità e la miseria umana, rivela ad un amico, in modo ironico, di essersi sbagliato e che le sue teorie erano solo pazzie: la vita è felice,
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{{citazione|[...] È ben vero che alcune volte penso che gli antichi valevano, delle forze del corpo, ciascuno per quattro di noi. E il corpo è l'uomo; perché [...] la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere [...] dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; [...] la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono. [...] tra noi già da lunghissimo tempo l'educazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo spirito. [...] L'effetto è che a paragone degli antichi noi siamo poco più che bambini [...].|ibidem}}
 
[[File:Gino Capponi.jpg|thumb|right|upright=0.7|[[Gino Capponi]], amico di Giacomo, destinatario della famosa [[palinodia]].]]Le citazioni classiche<ref>[[Francesco Petrarca]], [[Salomone]], [[Omero]], [[Menandro]]</ref> fanno sempre da dotto contrappunto all'ironia del testo: Tristano crede nel secolo XIX, e nel progresso dell'umanità in ogni campo del sapere, tuttavia, stanco di vedere esaurita ''da ogni parte la favola della vita'', è spinto a disiderare ''solo la morte''.
 
Tornano riflessioni già affrontate in altre testi e più compiutamente in Plotino e Porfirio. La morte come fine delle sofferenze rimanda ad una conclusione cercata fuori dalla finzione narrativa ed è un effetto di costante sospensione per un finale che non arriva mai, incontrato spesso lungo tutta la lettura delle operette.
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== Note ==
{{<references|2}} />
 
== Bibliografia ==
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{{Leopardi}}
{{Portale|letteratura}}
 
 
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