Secessione dell'Aventino: differenze tra le versioni

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Il 30 maggio [[1924]] il deputato socialista [[Giacomo Matteotti]] prese la parola alla [[Camera dei deputati del Regno d'Italia|Camera dei deputati]] per contestare i risultati delle [[Elezioni politiche italiane del 1924|elezioni]] tenutesi il precedente 6 aprile. Matteotti denunciò apertamente tutta una serie di violenze, illegalità ed abusi commessi dai fascisti per condizionare il risultato elettorale e vincere le elezioni.
 
Il 10 giugno [[1924]], intorno alle ore 16.15, Giacomo Matteotti uscì a piedi dalla sua abitazione romana per dirigersi verso il Palazzo di [[Montecitorio]], sede della Camera dei deputati. In [[lungotevere Arnaldo da Brescia]], secondo le testimonianze,<ref>ASR, FM, vol 1, Testimonianze Amilcare Mascagna e Renato Barzotti, vol.1, fol.22</ref> era ferma un'auto con a bordo alcuni individui. Due degli aggressori balzarono addosso al parlamentare socialista. Matteotti riuscì a divincolarsi buttandone uno a terra e rendendo necessario l'intervento di un terzo che lo stordì colpendolo al volto con un pugno. Gli altri due intervennero per caricarlo in macchina. In seguito i testimoni identificarono la vettura, descritta come "un'automobile, nera, elegante, chiusa",<ref>ASR, FM, vol 1, fol.8 Testimonianza Giovanni Cavanna</ref> per una Lancia Lambda<ref>Gianni Mazzocchi, [[Quattroruote]] Luglio 1984, pag. 54"</ref>. Due giorni dopo il rapimento fu individuata l'auto che risultò proprietà del direttore del ''[[Corriere Italiano (1923-1924)|Corriere Italiano]]'' [[Filippo Filippelli]].
 
Il 13 giugno [[Mussolini]] parlò alla Camera dei deputati affermando di non essere coinvolto nella scomparsa di Matteotti, ma anzi di esserne addolorato. Al termine il [[Presidenti della Camera dei deputati (Italia)|Presidente della Camera]] [[Alfredo Rocco]] aggiornò i lavori parlamentari ''[[sine die]]'', annullando di fatto la facoltà di replica dell'opposizione all'interno del Parlamento.
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Il 12 settembre 1924, per vendicare la morte di Matteotti, il militante comunista [[Giovanni Corvi]] uccise in un tram il deputato fascista [[Armando Casalini]], provocando un ulteriore irrigidimento della compagine governativa. Il 20 ottobre il leader comunista [[Antonio Gramsci]] propose invano che l'opposizione aventiniana si costituisse in "antiparlamento", in modo da segnare nettamente la distanza tra i secessionisti e un Parlamento composto di soli fascisti. Inoltre, Gramsci avanzò al «Comitato dei sedici» - il nucleo dirigente dei gruppi aventiniani - la proposta di proclamare lo sciopero generale che però fu respinta, soprattutto a causa del pessimo ricordo del clamoroso fallimento dello [[sciopero legalitario]] alla vigilia della [[marcia su Roma]]. I comunisti uscirono allora dal «Comitato delle opposizioni» aventiniane il quale, secondo Gramsci, non aveva alcuna volontà di agire: ha una «paura incredibile che noi prendessimo la mano e quindi manovra per costringerci ad abbandonare la riunione».<ref>Lettera a Giulia Schucht, 22 giugno 1924</ref>
 
Negli ultimi due mesi del 1924, Amendola decise di abbandonare la velleitaria linea insurrezionale, ritornando alla scelta iniziale di confidare sull'appoggio del sovrano per scalzare Mussolini. Tramite il [[gran maestro]] del [[Grande Oriente d'Italia]] [[Domizio Torrigiani]], Amendola, iscritto alla [[massoneria]], era venuto in possesso di due memoriali che accusavano Mussolini come mandante del delitto Matteotti. Il primo di [[Filippo Filippelli]], coinvolto nel delitto per aver fornito ai sequestratori la [[Lancia Lambda]] su cui il deputato socialista era stato rapito ed ucciso<ref>[http://books.google.it/books?id=k5ElJqytAvUC&pg=PA170&dq=%22Filippo+Filippelli%22&lr=&cd=15#v=onepage&q=%22Filippo%20Filippelli%22&f=false Enzo Magrì] books.google.it</ref>. In esso Filippelli accusava [[Amerigo Dumini]], [[Cesare Rossi]], il [[Quadrumvirato|quadrumviro]] [[Emilio De Bono]] e lo stesso [[Benito Mussolini|Mussolini]]. Si citava inoltre l'esistenza di un organismo di polizia politica interno al Partito nazionale fascista, la cosiddetta [[Ceka]] fascista, diretta dal Rossi, dal quale sarebbe stato organizzato l'assassinio <ref>[[Peter Tompkins]], ''Dalle carte segrete del Duce'', Marco Tropea, Milano, 2001, p. 174</ref>. Il secondo, di analogo contenuto, del capo della polizia segreta Cesare Rossi, su cui Mussolini stava tentando di rovesciare ogni responsabilità. In una riunione con Torrigiani ed [[Ivanoe Bonomi]], anch'egli massone, si decise che quest'ultimo, che aveva libero accesso al [[Palazzo del Quirinale|Quirinale]], avrebbe sottoposto i due memoriali in visione a Re [[Vittorio Emanuele III di Savoia|Vittorio Emanuele III]] per convincerlo a licenziare Mussolini e formare un governo militare di transizione. L'incontro avvenne ai primi di novembre del 1924 ma non ebbe alcun esito. Il re, infatti, quando si rese conto delle terribili accuse contenute nei due memoriali, si nascose il viso dicendo di "essere cieco e sordo", e che i suoi occhi e le sue orecchie erano la camera ed il senato. Quindi, riconsegnò i documenti al loro latore senza prendere provvedimenti.<ref>{{Cita libro|titolo=L'età contemporanea|autore=Peppino Ortoleva e Marco Revelli|editore=Bruno Mondadori|città=Milano|anno=1998|pagina=123}} Secondo Ortoleva e Revelli, però, ad incontrarsi con il re non fu Bonomi, bensì il senatore [[Pompeo di Campello (1874)|Campello]]. Anche il senatore [[Ettore Viola|Viola]] , secondo la testimonianza di [[Emilio Lussu]], fece un tentativo di convincere il sovrano. Presidente dell'Associazione Nazionale Combattenti, Viola si recò con una una delegazione a [[San Rossore]], ma senza risultati: "Mia figlia, stamani, ha ucciso due quaglie": così Vittorio Emanuele III rispose a Viola che gli aveva presentato un documento con dure accuse al fascismo e alle sue responsabilità nel [[delitto Matteotti]]: Emilio Lussu, ''Marcia su Roma e dintorni'', 1933.</ref><ref>Peter Tompkins, ''cit.'', p. 216</ref>
 
L'8 novembre [[1924]], su impulso di Amendola, un gruppo di "aventiniani" costituì una nuova formazione politica in rappresentanza dei principi di libertà e di democrazia, "fondamento dell'Unità d'Italia e delle lotte risorgimentali, prevaricati e perseguitati dall'insorgente regime fascista" come asserito nel documento sottoscritto dagli aderenti<ref>''Il Mondo'', 18 novembre 1924</ref>. Al nuovo partito politico, denominato [[Unione Nazionale (Italia)|Unione nazionale delle forze liberali e democratiche]], aderirono undici deputati, sedici ex-deputati e undici senatori, che si costituirono in gruppo politico<ref>Manifesto dell'Unione Nazionale di Giovanni Amendola {{cita web |url=http://www.repubblicanidemocratici.it/opinioni_condivise/manifesto_unione_nazionale.htm |titolo=Copia archiviata |accesso=19 novembre 2011 |urlmorto=sì |urlarchivio=https://web.archive.org/web/20121106022930/http://www.repubblicanidemocratici.it/opinioni_condivise/manifesto_unione_nazionale.htm |dataarchivio=6 novembre 2012 }}, e: Francesco Bartolotta, ''Parlamenti e Governi d'Italia'', Vito Bianco Editore, Roma, 1970</ref>. Ciò favorì il consolidamento della componente "amendoliana" della secessione e il suo allargamento a personalità di diversa estrazione politica quali i liberal-democratici [[Nello Rosselli]] e [[Luigi Einaudi]], i radicali come [[Giulio Alessio]], i socialdemocratici come [[Ivanoe Bonomi]], [[Meuccio Ruini]] e [[Luigi Salvatorelli]], indipendenti come [[Carlo Sforza]] e, in seguito, repubblicani come il giovane [[Ugo La Malfa]]<ref>{{cita libro | cognome=Galante Garrone| nome=Alessandro| titolo=I radicali in Italia (1849-1925)| città=Milano | editore=Garzanti |anno=1973|pagine=405-406}}</ref>.
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