Vittorio Cini: differenze tra le versioni

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|immagine = Vittorio Cini.gif
|didascalia = Il conte Vittorio Cini nel 1934
|carica = [[Ministri delle Posteposte del Regno d'Italia|Ministro delle Comunicazionicomunicazioni]]
|mandatoinizio = 6 febbraio [[1943]]
|mandatofine = 24 luglio 1943
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Fece parte del [[consiglio di amministrazione]] della [[Società Adriatica di Elettricità|Sade]] dal 1924 al 1943.
 
[[Ministri delle Posteposte del Regno d'Italia|Ministro perdelle le Comunicazionicomunicazioni]] nel febbraio 1943 (ultimo [[Governo Mussolini|gabinetto Mussolini]]), lasciò la carica dopo sei mesi per profonde divergenze con il [[Benito Mussolini|capo del governo]]. Dopo l'[[Armistizio di Cassibile|armistizio dell'8 settembre]] venne catturato dai tedeschi e internato a [[Campo di concentramento di Dachau|Dachau]], da dove il figlio [[Giorgio Cini (imprenditore)|Giorgio]] (che aveva ricavato del denaro vendendo tutti i gioielli della madre, l'attrice [[Lyda Borelli]]) riuscì a farlo evadere corrompendo i guardiani delle [[Schutzstaffel|SS]]. Si ritrovò con Volpi in [[Svizzera]] e nel loro esilio strinsero amicizia con personaggi della futura [[Democrazia Cristiana]].
 
Nel 1949 Giorgio Cini, suo unico figlio maschio, morì in un incidente di volo e, per alcuni anni, Vittorio Cini si ritirò completamente dagli affari e dalla politica, dedicando la sua vita a opere di [[filantropia]]. Domandò e ricevette in concessione dallo Stato un'intera [[isola]], quella di [[San Giorgio Maggiore (isola)|San Giorgio]], davanti alla riva di [[piazza San Marco]]. Dopo aver finanziato gli importanti lavori di restauro necessari, istituì la [[Fondazione Giorgio Cini]], centro d'[[arte]] e di [[cultura]], sede di istituti di preparazione professionale e di addestramento dei giovani alla vita sul mare. In seguito alla profonda crisi spirituale per la morte del figlio, si allontanò dalla [[Massoneria]] ferrarese, da lui a lungo frequentata, per avvicinarsi all'[[Compagnia di Gesù|ordine dei Gesuiti]].<ref>Antonio Giangrande, ''Bologna e l'Emilia Romagna: Quello che non si osa dire'', p. 419.</ref>