Cecilio Stazio: differenze tra le versioni

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[[File:Roman masks.png|thumb|left|upright=1.4|[[Mosaico]] romano del [[I secolo a.C.]] raffigurante le [[maschera teatrale|maschere]] [[tragedia|tragica]] e [[commedia|comica]] ([[Roma]], [[Musei capitolini]]).]]
 
Cecilio Stazio nacque attorno al [[230 a.C.]], nel territorio dei [[Galli]] [[Insubri]], probabilmente a ''[[Mediolanum]]'' (l'odierna [[Milano]]), secondo anonime testimonianze riportate nel ''[[Chronicon (Girolamo)|Chronicon]]'' di [[Sofronio Eusebio Girolamo|Girolamo]].<ref name="Girolamo">Girolamo, ''Chronicon'', 179 a.C.:{{Citazione|Si sa che Cecilio Stazio, celebre autore di commedie, era gallo insubre di nascita e dapprima compagno di Ennio. Alcuni riferiscono che fosse milanese. Morì l'anno successivo alla morte di Ennio e fu sepolto vicino al Gianicolo.||''Statius Caecilius comoediarum scriptor clarus habetur natione Insuber Gallus et Enni primum contubernalis. quidam Mediolanensem ferunt. mortus est anno post mortem Enni et iuxta Ianiculum sepultus.''|lingua=la}}</ref><ref name="Pontiggia_286">{{Cita|Pontiggia; Grandi|p. 286}}.</ref> Fu fatto prigioniero nel corso delle [[guerre tra Celti e Romani#Scontri del III secolo a.C.|guerre]] tra gli Insubri e l'[[esercito romano]] tra il [[222 a.C.|222]] e il [[219 a.C.]],<ref name="Beare_100">{{Cita|Beare|p. 100|Beare}}.</ref> forse a seguito della [[battaglia di Clastidium]],<ref name="Pontiggia_286" /> e giunse dunque a [[Roma (città antica)|Roma]] come [[schiavitù nell'antica Roma|schiavo]], secondo la testimonianza dell'erudito del [[II secolo|II secolo d.C.]] [[Aulo Gellio]], che scrisse nelle sue ''[[Noctes Atticae]]'':
{{Citazione|[Cecilio] era di condizione servile, e perciò prese il ''[[convenzione dei nomi romani#Cognomen|cognomen]]'' di Stazio.|Aulo Gellio, ''Noctes Atticae'', IV, 20, 13.|[''Caecilius''] ''seruus fuit et propterea nomen habuit Statius.''|lingua=la}}
Non risulta possibile, tuttavia, accertare se le parole di Gellio rispecchiassero la verità o se fossero soltanto un'inferenza originata dal fatto che il ''cognomen'' di Stazio, dal significato letterale di "attendente", era spesso attribuito agli schiavi. È infatti probabile che Gellio abbia voluto spiegare perché Cecilio portasse un nome solitamente attribuito agli schiavi, ideando la motivazione in un momento in cui le reali notizie biografiche sul drammaturgo erano andate perdute.<ref name="Beare_100" />
 
Dalla ''[[gens]]'' cui entrò a far parte, Stazio trasse il ''[[convenzione dei nomi romani#Nomen|nomen]]'' di Cecilio. Della sua carriera rimangono pochissime notizie: si dedicò esclusivamente alla composizione di [[palliata|palliate]], ma l'accoglienza inizialmente riservata alle sue opere, rappresentate sulla scena nel momento di massima celebrità di Plauto, fu fredda. Il pubblico romano, amante del carattere [[Farsa (genere teatrale)|farsesco]] e vivace del teatro plautino, non poteva apprezzare pienamente le commedie di Cecilio, più attento all'approfondimento psicologico e alla verosimiglianza delle vicende inscenate.<ref name="Pontiggia_286" /> Tuttavia, il capocomico e impresario teatrale Ambivio Turpione, che aveva acquistato le opere dell'autore e che quindi aveva l'incarico di metterle in scena, riuscì infine a portarle al successo. Nel prologo dell{{'}}''[[Hecyra]]'' di [[Publio Terenzio Afro|Terenzio]], lo stesso Turpione, che rappresentava il [[Prologo|personaggio protatico]], raccontava le vicende degli esordi di Cecilio paragonandole a quelle, analoghe, che aveva in seguito vissuto nel tentativo di portare al successo anche le opere di Terenzio:
{{Citazione|Io mi presento a voi in costume da prologo, ma in funzione di avvocato. Fate che io sia un avvocato capace di vincer la causa, così che mi sia dato godere da vecchio del privilegio medesimo di cui ho goduto da giovane; quando sono riuscito a far sopravvivere delle opere fischiate da nuove e ad impedire che scomparissero, insieme col loro autore. Per le commedie di Cecilio, delle quali ebbi a curare la prima rappresentazione, in parte feci fiasco, in parte la spuntai di stretta misura. Sapendo che la fortuna delle opere drammatiche è dubbia, mi volli accollare, pur in una incerta speranza, un carico certo: mi rimisi a rappresentare le stesse commedie, per poterne mettere in scena altre dello stesso autore, con gran passione, in modo da non distogliere lui dalla passione sua. Ho ottenuto che fossero rappresentate; appena conosciute, hanno avuto successo. Così ho rimesso in onore un poeta, che la malignità dei suoi avversari per poco non aveva allontanato dalla sua occupazione prediletta e dal suo lavoro e dalla creazione poetica. Che se io avessi senz'altro buttato in un canto l'opera sua e avessi voluto di proposito scoraggiarlo, così da indurlo a star in ozio piuttosto di continuare a lavorare, facilmente l'avrei distolto dallo scrivere altre commedie.|Terenzio, ''Hecyra'', vv. 9-27; trad. di A. Arici in Terenzio, ''Commedie'', Zanichelli.|''Orator ad vos venio ornatu prologi:<br />sinite exorator sim <eo>dem ut iure uti senem<br />liceat quo iure sum usus adulescentior,<br />novas qui exactas feci ut inveterascerent,<br />ne cum poeta scriptura evanesceret.<br />in is quas primum Caecili didici novas<br />partim sum earum exactu', partim vix steti.<br />quia scibam dubiam fortunam esse scaenicam,<br />spe incerta certum mihi laborem sustuli,<br /><ea>sdem agere coepi ut ab eodem alias discerem<br />novas, studiose ne illum ab studio abducerem.<br />perfeci ut spectarentur: ubi sunt cognitae,<br />placitae sunt. ita poetam restitui in locum<br />prope iam remmotum iniuria advorsarium<br />ab studio atque ab labore atque arte musica.<br />quod si scripturam sprevissem in praesentia<br />et in deterrendo voluissem operam sumere,<br />ut in otio esset potiu' quam in negotio,<br />deterruissem facile ne alias scriberet.''|lingua=la}}
Raggiunto l'apice del successo attorno al [[179 a.C.]], dopo la morte di Plauto nel [[184 a.C.]],<ref name="Girolamo" /> Cecilio intrecciò un legame di amicizia con il coevo poeta e drammaturgo [[Quinto Ennio]], assieme al quale fu alla guida del ''collegium scribarum histrionumque'', un'associazione di tipo corporativo, fondata nel [[207 a.C.]] in seguito alla composizione, da parte di [[Livio Andronico]], dell'inno a ''Iuno Regina'', che riuniva gli attori e gli autori delle rappresentazioni drammatiche allora presenti in Roma.<ref name="Pontiggia_286" />
 
Di dubbia attendibilità<ref name="Beare_101">{{Cita|Beare|p. 101|Beare}}.</ref> risulta invece l'aneddoto riportato da [[Gaio Svetonio Tranquillo]] nella ''[[Vita Terentii]]'', che pone in diretto contatto l'attività di Terenzio con la figura di Cecilio:
{{Citazione|[Terenzio] scrisse sei commedie. Di queste, quando presentò agli edili la prima, l{{'}}''Andria'', essendogli stato imposto di recitarla dapprima a Cecilio ed essendo andato da lui mentre pranzava, si racconta che abbia letto il principio della commedia stando seduto su uno sgabello presso il letto tricliniare, per il fatto che era vestito con un abito molto dimesso; ma, dopo pochi versi, fu invitato a prender posto ed a pranzare insieme a lui; quindi lesse tutto il resto, non senza grande ammirazione di Cecilio.|Svetonio, ''Vita Terentii'', 3; trad. di O. Bianco in Terenzio, ''Commedie'', UTET.|''Scripsit comoedias sex, ex quibus primam "Andriam" cum aedilibus daret, iussus ante Caecilio recitare, ad cenantem cum venisset, dictus est initium quidem fabulae, quod erat contemptiore vestitu, subsellio iuxta lectulum residens legisse, post paucos vero versus invitatus ut accumberet cenasse una, dein cetera percucurrisse non sine magna Caecilii admiratione.''|lingua=la}}
 
Secondo la testimonianza di Girolamo,<ref name="Girolamo" /> Cecilio morì nel [[168 a.C.]], un anno dopo Ennio, ma se si volesse dare credito all'aneddoto narrato da Svetonio la data dovrebbe essere posticipata almeno al [[166 a.C.]] poiché l{{'}}''[[Andria (Terenzio)|Andria]]'' fu rappresentata per la prima volta soltanto in quell'anno.<ref name="Pontiggia_286" /><ref name="Beare_101" /> Il drammaturgo fu sepolto nelle vicinanze del colle [[Gianicolo]].<ref name="Girolamo" />
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Non mancano, tuttavia, passi che separino nettamente l'opera di Cecilio dal modello stilistico plautino: nei ''Synephebi'' il personaggio della ''meretrix'' ([[Cortigiano|cortigiana]]), nella palliata tradizionalmente avida e venale, appare al contrario generoso e disinteressato, pronto a sacrificarsi per l{{'}}''adulescens'' amato.<ref>''Synephebi'', vv. 211-214 Ribbeck:{{Citazione|O dei, e voi, giovani e concittadini tutti, io invoco, imploro, impetro, prego, scongiuro il vostro aiuto! Quel che succede in città è roba da patibolo: una meretrice non vuole accettare denaro dal suo amante.|Adattamento della trad. di G. Pontiggia in ''Letteratura latina. Storia e testi'', Principato.|Pro deum, popularium omnium, omnium adulescentium<br />Clamo postulo obsecro oro ploro atque inploro fidem!<br />Hoc in civitate fiunt facinora capitalia:<br /><Nam> ab amico amante argentum accipere meretrix noenu volt.|lingua=la}}</ref><ref name="PontiggiaGrandi" /> Cecilio fu inoltre autore di alcune sentenze di tono grave e patetico sul tema della vecchiaia<ref>''Ephesio'' vv. 28-29 Ribbeck:{{Citazione|E poi penso che sia questa la disgrazia peggiore quando si è vecchi: accorgersi che a quell'età si è di peso agli altri.|Trad. di G. Pontiggia in ''Letteratura latina. Storia e testi'', Principato.|Tum equidem in senecta hoc deputo miserrimum,<br />Sentire ea aetate eumpse esse odiosum alteri.|lingua=la}}</ref><ref>''Plocium'', vv. 173-175 Ribbeck:{{Citazione|Ahimè, o vecchiaia, se anche non portassi con te nessun altro malanno, quando vieni, basterebbe questo solo, che vivendo a lungo si vedono molte cose che non si vorrebbero vedere.|Trad. di G. Pontiggia in ''Letteratura latina. Storia e testi'', Principato.|Edepol, senectus, si nil quicquam aliud viti<br />Adportes tecum, cum advenis, unum id sat est,<br />Quod diu vivendo multa quae non volt videt.|lingua=la}}</ref> e di altrettante, di carattere più generale, sull'esistenza umana:<ref>''Plocium'', v. 177 Ribbeck:{{Citazione|Vivi come puoi, se non puoi vivere come vuoi.|Trad. di G. Pontiggia in ''Letteratura latina. Storia e testi'', Principato.|Vivas ut possis, quando nec quis ut velis.|lingua=la}}</ref><ref>''Fabula incognita'', v. 266 Ribbeck:{{Citazione|Spesso anche sotto un sordido mantelluccio si rifugia la saggezza.|Trad. di G. Pontiggia in ''Letteratura latina. Storia e testi'', Principato.|Saepe est etiam sup palliolo sordido sapientia.|lingua=la}}</ref> da situazioni comiche e farsesche, seppe dunque anche cogliere lo spunto per avviare riflessioni serie.<ref name="Pontiggia_293">{{cita|Pontiggia; Grandi|p. 293}}.</ref>
 
L'opera di Cecilio si pone infine tra Plauto e Terenzio nell'elaborazione dell'ideale che nel [[I secolo a.C.]] avrebbe preso il nome di ''[[humanitas]]'': Plauto aveva scritto, nell{{'}}''Asinaria'', «''lupus est homo homini, non homo, quom qualis sit non novit''» («l'uomo è un lupo per l'uomo, non un uomo, qualora si ignori chi sia»),<ref>Plauto, ''Asinaria'', v. 495.</ref> sostenendo dunque che un uomo sconosciuto dovesse essere trattato come una fiera selvaggia.<ref name="Pontiggia_293" /> Cecilio scrisse invece «''homo homini deus est, si suum officium sciat''» («l'uomo è un dio per l'uomo, se conosce il proprio dovere»):<ref>''Fabula incognita'', v. 265 Ribbeck.</ref> influenzato dalla [[stoicismo|filosofia stoica]], i cui insegnamenti sarebbero stati a pieno colti e rielaborati dagli esponenti del [[circolo degli Scipioni]] e da Terenzio, che avrebbe scritto infine «''[[homo sum, humani nihil a me alienum puto]]''»,<ref>Terenzio, ''Heautontimorumenos'', v. 77.</ref> Cecilio sostenne che gli uomini dovessero essere tra loro solidali e recarsi reciproco beneficio: tale doveva essere il dovere di ogni uomo.<ref name="Pontiggia_293" />
 
=== Fortuna ===
Il prologo dell{{'}}''Hecyra'' di Terenzio testimonia come le commedie di Cecilio, parallelamente a quanto era accaduto in Grecia a Menandro,<ref name="Beare_104" /> faticarono a raggiungere il successo finché Plauto fu in vita:<ref name="Hecyra">Terenzio, ''Hecyra'', vv. 9-27.</ref> il pubblico romano, che amava il carattere farsesco della palliata plautina, non poteva apprezzare pienamente l'approfondimento psicologico che Cecilio riservava ai suoi personaggi, né la ricerca della verosimiglianza nelle trame.<ref name="Pontiggia_286" /> Dopo la morte di Plauto, tuttavia, le opere di Cecilio ottennero un notevole successo e finirono per affermarsi su quelle degli altri autori: nella prima metà del [[I secolo a.C.]] l'erudito [[Volcacio Sedigito]] compose un canone dei maggiori poeti comici, in cui riconobbe la superiorità di Cecilio su tutti gli altri:<ref name="Pontiggia_447">{{Cita|Pontiggia; Grandi|p. 447}}.</ref>
{{Citazione|Abbiamo visto molti, incerti, rivaleggiare su questo problema, a quale poeta comico assegnare la palma. Grazie al mio giudizio ti scioglierò da quest'incertezza, affinché, se qualcuno la pensasse diversamente, smetta di farlo. Assegno la palma al poeta comico Cecilio Stazio. [[Plauto]], per secondo, facilmente supera i restanti. Poi [[Gneo Nevio|Nevio]], che arde, al terzo posto. Se ci dovrà essere un quarto posto, lo si assegnerà a [[Valerio Liciniano Licinio|Licinio]]. Poi stimo che Attilio segua Licinio. Al sesto posto fa seguito [[Publio Terenzio Afro|Terenzio]], [[Sesto Turpilio|Turpilio]] ottiene il settimo, [[Quinto Trabea|Trabea]] l'ottavo, e stimo che facilmente al nono posto ci sia [[Luscio Lanuvino|Luscio]]. Al decimo aggiungo, per via dell'antichità, [[Quinto Ennio|Ennio]].|Aulo Gellio, ''Noctes Atticae'', XV, 24.|''multos incertos certare hanc rem vidimus,<br />palmam poetae comico cui deferant.<br />eum meo iudicio errorem dissolvam tibi,<br />ut, contra si quis sentiat, nihil sentiat.<br />Caecilio palmam Statio do comico.<br />Plautus secundus facile exsuperat ceteros.<br />dein Naevius, qui fervet, pretio in tertiost.<br />si erit, quod quarto detur, dabitur Licinio.<br />post insequi Licinium facio Atilium.<br />in sexto consequetur hos Terentius,<br />Turpilius septimum, Trabea octavum optinet,<br />nono loco esse facile facio Luscium.<br />decimum addo causa antiquitatis Ennium''.|lingua=la}}
 
Pur trattandosi di un'opinione personale, risulta verosimile che l'opinione di Volcacio fosse condivisa anche dagli altri [[filologia|filologi]] contemporanei.<ref name="Beare_133">{{Cita|Beare|p. 133|Beare}}.</ref> Poco tempo più tardi, Varrone sostenne che a Cecilio spettasse, tra i commediografi, la palma ''in argumentis'', ovvero per le trame:<ref name="Varrone">Varrone, ''Saturae Menippeae'', v. 399 Bücheler.</ref> Varrone, dunque, riconosceva probabilmente a Cecilio il merito di aver effettuato un'attenta scelta di quali fossero gli originali greci da tradurre, preferendo quelli la cui vicenda era più verosimile e meglio costruita.<ref name="Beare_101" />
 
Diverso fu invece il giudizio di Cicerone, che considerava la lingua di Cecilio ancora impura e attribuiva tale difetto alle origini straniere del drammaturgo:<ref name="Pontiggia_286" />
{{Citazione|Tralascio Gaio Lelio e Publio Scipione; fu proprio di quell'età il pregio di parlare un buon latino tanto quanto l'integrità morale; tuttavia non fu proprio di tutti: infatti vediamo che tra i loro contemporanei Cecilio e Pacuvio parlavano male: ma allora quasi tutti coloro che non erano vissuti al di fuori di questa città [Roma] e che non erano stati contaminati da alcun uso barbarico parlavano correttamente.|Cicerone, ''Brutus'', 258.|''mitto C. Laelium P. Scipionem: aetatis illius ista fuit laus tamquam innocentiae sic Latine loquendi--nec omnium tamen; nam illorum aequales Caecilium et Pacuvium male locutos videmus --: sed omnes tum fere, qui nec extra urbem hanc vixerant neque eos aliqua barbaries domestica infuscaverat, recte loquebantur''.|lingua=la}}
{{Citazione|Non ho seguito l'esempio di Cecilio, che è un cattivo modello di lingua latina, ma di Terenzio le cui opere, per l'eleganza del linguaggio, si riteneva fossero scritte da Gaio Lelio.|Cicerone, ''Epistulae ad Atticum'', VII, 3, 10.|''secutusque sum non dico Caecilium [...] (malus enim auctor latinitatis est), sed Terentium cuius fabellae propter elegantiam sermonis putabantur a C. Laelio scribi [...]''|lingua=la}}
Lo stesso Cicerone, tuttavia, riconobbe, come avevano fatto Volcacio Sedigito e i filologi a lui contemporanei, la superiorità di Cecilio sugli altri poeti comici.<ref>Cicerone, ''De optimo genere oratorum'', 2.</ref> Positivo fu invece il giudizio che dell'opera di Cecilio diede [[Quinto Orazio Flacco]]:
{{Citazione|Quando poi ci si chiede quale sia il maggiore [dei poeti], si definiscono Pacuvio 'il vecchio erudito', Accio 'il sublime', Afranio 'togato, ma dotato della sensibilità di Menandro', Plauto 'estroso come il suo modello, il siciliano Epicarmo', Cecilio 'il più profondo', Terenzio 'il più fine'.|Orazio, ''Epistulae'', II, 1, 59.|''ambigitur quotiens, uter utro sit prior, aufert<br />Pacuvius docti famam senis, Accius alti,<br />dicitur Afrani toga convenisse Menandro,<br />Plautus ad exemplar Siculi properare Epicharmi,<br />vincere Caecilius gravitate, Terentius arte''.|lingua=la}}
 
Ugualmente lusinghiero fu il giudizio di [[Velleio Patercolo]]:
{{Citazione|Se non si risale col discorso alle espressioni contorte e rozze, e lodevoli per la novità, la tragedia romana si esaurisce con Accio e coloro che lo imitarono; e le eleganti facezie dell'arguzia latina risplendettero esclusivamente con Cecilio, Terenzio e Afranio, quasi contemporanei.|Velleio Patercolo, ''[[Historiae Romanae ad M. Vinicium consulem libri duo]]'', I, 17, 1.|''[...] nisi aspera ac rudia repetas et inventi laudanda nomine, in Accio circaque eum Romana tragoedia est; dulcesque Latini leporis facetiae per Caecilium Terentiumque et Afranium subpari aetate nituerunt''.|lingua=la}}
 
Decisamente negativo fu invece il parere di [[Marco Fabio Quintiliano]], esteso, peraltro, a tutto il genere comico. Egli sostenne, in particolare, la superiorità delle opere di Terenzio su quelle degli altri commediografi:
{{Citazione|Nella commedia, più che in ogni altro genere, lasciamo a desiderare, benché Varrone dica, citando la frase di Elio Stilone, che, se le Muse avessero voluto parlare latino, lo avrebbero fatto nella lingua di Plauto, nonostante le lodi che gli antichi rivolsero a Cecilio, e sebbene le opere di Terenzio siano attribuite a Scipione Africano (esse sono tuttavia le più raffinate in questo genere, e sarebbero state ancora più belle se fossero state scritte soltanto in trimetri giambici).|Quintiliano, ''Institutiones'', X, 1, 99.|''In comoedia maxime claudicamus. Licet Varro Musas, Aeli Stilonis sententia, Plautino dicat sermone locuturas fuisse si Latine loqui vellent, licet Caecilium veteres laudibus ferant, licet Terenti scripta ad Scipionem Africanum referantur (quae tamen sunt in hoc genere elegantissima, et plus adhuc habitura gratiae si intra versus trimetros stetissent)''.|lingua=la}}
 
Diversamente da quella antica, la critica moderna e contemporanea si trova nell'impossibilità di valutare l'opera di Cecilio, di cui non restano che pochi frammenti.<ref name="Traina_9596" /> La sua figura appare dunque ambigua, in parte ancora legata al modello plautino, in parte anticipatrice di quello terenziano: il suo stile risulta contraddistinto da una tensione che non arriva pienamente a raggiungere la creatività del predecessore, né la compostezza e la naturalezza del successore.<ref name="Traina_9596" /> A Cecilio si riconosce comunque il merito di aver agito da fondamentale anello di passaggio tra la palliata di Plauto e quella di Terenzio, permettendo il successivo svilupparsi in tutti i generi di una letteratura completamente ellenizzata nel contenuto e nello stile.<ref name="Beare_104" />