Francesco Delfino: differenze tra le versioni
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Il successivo 11 aprile, durante una [[perquisizione]], vengono rinvenute presso l'abitazione di Delfino due borse non in commercio prodotte in esclusiva per un'azienda legata ai Soffiantini; queste borse sono ritenute dagli inquirenti quelle impiegate dalla famiglia per la consegna ad ignoti di un miliardo di lire, che essi ritenevano destinato ai rapitori del loro congiunto, al fine di ottenerne la liberazione. Viene inoltre rinvenuta una [[banconota]] facente parte di tale somma (le banconote erano state tutte fotocopiate prima della loro consegna). Delfino, ancora a piede libero, replica animosamente, dicendosi vittima di una macchinazione e dichiarando che «non perdona»<ref name=ImpastatoCrono0498 />.
Nel quadro delle conseguenti indagini, il 14 aprile Delfino viene tratto in [[arresto]] assieme all'imprenditore Giordano Alghisi. Viene inoltre indagato il capitano dei carabinieri [[Arnaldo Acerbi]], allora comandante del [[nucleo operativo]] dei carabinieri di Brescia, al quale viene contestato di non aver riferito all'[[autorità giudiziaria]] - com'era suo dovere - le confidenze da lui raccolte da Carlo Soffiantini sul ruolo svolto da Delfino nella vicenda per la quale quest'ultimo veniva tratto in arresto<ref name=ImpastatoCrono0498 />. In un primo tempo, Delfino tenta di sottrarsi al carcere ottenendo il ricovero presso l'[[ospedale militare del
Difeso dall'[[avvocato]] [[Pierfrancesco Bruno]], interrogato il 17 aprile, Delfino respinge le accuse che gli vengono mosse, ma successivamente viene reso noto che il generale avrebbe ammesso che, a suo dire, Giordano Alghisi, amico di famiglia dei Soffiantini, gli avrebbe consegnato 800 milioni a titolo di "acconto" per la vendita della sua villa a [[Meina]]; pochi giorni dopo, il 22 aprile, il generale, rinchiuso presso il [[carcere]] militare di [[Peschiera del Garda]], tenta il [[suicidio]]<ref name=ImpastatoCrono0498 /> battendo violentemente il capo nella cella. Ricoverato a [[Verona]], viene rapidamente dichiarato fuori pericolo<ref>[http://www.repubblica.it/online/fatti/soffiantini/suicidio/suicidio.html La Repubblica, "Delfino: "Non so cosa mi è successo", 23 aprile, 1998]</ref>. Nel libro scritto nel 1998<ref name=libro>Francesco Delfino, ''La verità di un generale scomodo'', Verona, IET, 1998</ref>, Delfino nega decisamente ogni addebito, evocando peraltro la figura di [[Giovanni Prandini]], notabile democristiano e amico di Soffiantini, del quale i rapitori avrebbero, sostiene, affannosamente cercato libretti al portatore in casa del rapito (Soffiantini smentì altrettanto decisamente)<ref>Si veda anche l'[http://www.cisf.it/fc99/0199fc/0199fc74.htm intervista rilasciata ad Alberto Chiara e Luciano Scalettari]</ref>.
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