Vincenzo Calmeta: differenze tra le versioni

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Si tratta del compianto per un giovane poeta di recente defunto, il quale era stato allievo di Vincenzo: la scena si svolge nella selva ultraterrena, dove il fanciullo allieta le anime dei defunti con le canzoni che Vincenzo gli ha insegnato, e dove appare inaspettatamente una Beatrice che altri non può essere che la stessa duchessa Beatrice d'Este, già morta da anni. Da ciò si comprende che Vincenzo aveva continuato a scrivere poesie in sua memoria, le quali insegnò al proprio allievo: riconosciutele, Beatrice prende per mano il fanciullo defunto e lo interroga sul benestare di Vincenzo, dicendo di perdonarlo per le sue "curis secundis", verosimilmente traducibile con "successivi amori", in quanto intrattenuti dopo la morte della duchessa. In seguito, in una successiva edizione dell'epicedio, il nome di Vincenzo venne rimosso, mentre quello di Beatrice subì varie sostituzioni: si tentò dapprima di trasformarlo in quello di una anonima Lycore; fallito questo tentativo, il nome ''Beatrix'' venne trasformato in ''Hermosine'', misteriosa donna amata da [[Angelo Colocci]].<ref name=":10">Medioevo e umanesimo, Volume 17, Editrice Antenore, 1974, pp. 276, 309-313.</ref> Si trattò di un vero e proprio "furto letterario" perpetrato dal Colocci ai danni del Calmeta, al cui nome sostituì il proprio come dedicatario fittizio nell'epicedio del Giustolo, probabilmente dopo la sua morte nel 1508. Questa fu la versione che andò a stampa.<ref name=":9">Lettere italiane, Volume 34, Giuseppe Searpat, Leo S. Olschki Editore, 1982, p. 138.</ref> Esso fu invece presumibilmente composto dal Giustolo a [[Fano]], nel 1501, e inviato a Napoli al Calmeta, il quale era allora al servizio del Valentino. I veri nomi dei protagonisti furono riscoperti solo nella seconda metà del XX secolo da [[Augusto Campana]].<ref name=":10" /><ref name=":9" />
 
Alcuni numerosi sonetti attribuiti, con maggiore o minore certezza, al Calmeta, sono stati rinvenuti in diversi manoscritti, e datati approssimativamente agli ultimi anni del XV secolo,<ref name=":11">Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei, Classe di scienze morali, storiche e filologiche, L'Academia, 1892, pp. 375-377.</ref> altri ai primi del secolo successivo.<ref name=":12">Alcuni componimenti del Calmeta e un codice cinquecentesco poco noto, Franca Ageno, Vol. 13, No. 3 (Luglio-Settembre 1961), pp. 295-315.</ref> I sonetti amorosi parlano tutti di un amore infelice, non corrisposto e non realizzabile. Così per esempio il VII contenuto nel manoscritto Par. It. 1543, dove egli lamenta di non poter sfogare "el martir mio tanto atroce", col rivelare a tutti il proprio desiderio, poiché sarebbe una grave minaccia all'[[onore]] della dedicataria (mantenuta anonima), ragione per cui aveva scelto di soffrire e di tacere il proprio amore: "cussì l'un via a me, l'altra ad te noce, unde pel meglio mi consumo e taccio, e cerco cun mio damno conservarte, perché in te sta de me la meglior parte".<ref name=":12" /> Un altro parla della bellezza e della crudeltà dell'amata, che non lo corrisponde.<ref name=":12" /> In una epistola metrica (di attribuzione anch'essa incerta) parla invece di un amore finalmente corrisposto: un "licito amor" di cui "l'oneste accoglienze siano il frutto", ma precisa che si tratta di una donna di bassa condizione sociale, che infatti non può sposare.<ref name=":12" />
Quanto ai ''Triumphi'', essi iniziano col poeta che piange la prematura morte della "sua cara compagna" Beatrice, e si esprime addirittura con queste struggenti parole:
 
Quanto ai ''[[Triumphi di Vincenzo Calmeta|Triumphi]]'', essi iniziano col poeta (Vincenzo) che piange la prematura morte della "sua cara compagna", la duchessa Beatrice, e si esprime addirittura con queste struggenti parole:
 
{{Citazione|Tolto m'ha morte el ben,<ref>Da notare che il bene, nella lingua letteraria, significa la persona amata.{{Cita web|url=https://www.dizionario-italiano.it/dizionario-italiano.php?parola=bene|titolo=bène 1|citazione=11 per estensione letterario persona amata: l'amato bene {{!}} il mio bene {{!}}[...]}}</ref> spietata e cruda, {{!}} del qual l'avaro Ciel me fu sì largo, {{!}} lassando nostra età di gloria nuda; e però aver vorrei le luce d'[[Argo Panoptes|Argo]], {{!}} che queste doi mei fonti<ref>I due fonti sono gli occhi</ref> han perso el lume {{!}} per le lacrime amar che ognora spargo. {{!}} Io son qual cigno in sul [[Meandro (fiume)|Meandro]] fiume {{!}} che la propinqua Morte canta e plora {{!}} scotendo spesso le sue bianche piume;<ref>Secondo il mito il cigno, già caro ad Apollo per la soavità del canto, canta ancor più soavemente quando si sente vicino alla morte. Il Meandro è un fiume della Lidia nelle cui acque vivevano molti cigni.</ref> {{!}} over qual [[Filomela|Filomena]] in su l'aurora {{!}} ch'empie di meste note la campagna {{!}} perché l'antiqua offesa ancor l'acora; {{!}} over qual tortorella che se lagna {{!}} in turbida acqua o in arbor senza fronde {{!}} poi che ha perduta sua cara compagna.<ref>Della tortora si dice che "non fa mai fallo al suo compagno, e se l'uno more, l'altro osserva perpetua castità, e non si posa mai su ramo verde e non beve mai acqua chiara", essa è dunque il miglior simbolo di un amore puro, fedele ed eterno.</ref>|Triumphi (I, 10-24)}}
Egli non fa che inveire contro il crudele [[Fato]], e tessere gli elogi della defunta, che è la "chiara luce al mio scuro intellecto" e invocare"del mio ardente cor vera fenice", e invoca addirittura la morteMorte affinché glilo siafaccia morire al più presto e gli concessoconceda di riposare accanto alle sue "caste ossa":{{Citazione|Pallida [[Morte personificata|Morte]], el tuo furor non temo, {{!}} ché se a felice già foste acra e bruna, {{!}} sareste or dolce a me in tal caso extremo. {{!}} Più de uom che viva qua sotto a la luna {{!}} felice fui, or son sopra la terra {{!}} remasto per exemplo di [[Fortuna]]. {{!}} Tu sola trar mi puoi di tanta guerra: {{!}} vien, sorda! Perché 'l tuo soccorso invoco, {{!}} il colpo acro e funesto in me disserra. {{!}} E tu beato saxo e dolce loco, {{!}} dove reposte son quelle caste ossa {{!}} che m'han per lacrimar già fatto roco, {{!}} perché a mia carne lacerata e scossa {{!}} non concedette per extrema pace {{!}} ivi propinqua la sua eterna fossa? {{!}} Dura terra, orbo mondo e ciel rapace, {{!}} fra voi diviso avete un tanto bene, {{!}} perché d'un loco sol non fu capace [...]|Triumphi (I, 43-60)}}[[File:Ludovico il Moro and Beatrice d'Este.jpg|miniatura|323x323px|[[Cenotafio di Ludovico il Moro e Beatrice d'Este]], stampa antica.]]Passa poi a una più profonda meditazione sulla miseria umana, sulla [[Fortuna]] e su Dio:
 
{{Citazione|E però spinto da un furore immenso, {{!}} a gridar cominciai con tal furia {{!}} ch'ancora abruscio e tremo quando el penso: {{!}} « O de mortali detestanda iniuria! {{!}} che l'om col proprio pianto quando nasce {{!}} subito ogni miseria e mal s'auguria! {{!}} Al mondo nudo vien, poi delle fasce {{!}} per conservar i membri è avolto e cinto, {{!}} sol con l'altrui mezanità si pasce. {{!}} Gli altri animal tutti hanno el suo d'istinto: {{!}} chi al corso, chi al natar, chi al volo è pronto {{!}} come più e meno da natura è spinto; {{!}} lui in questa valle de miseria gionto, {{!}} inerme e vinto iace mansueto, {{!}} quasi simili ad om che sia defunto. {{!}} Non è suo proprio istinto altro che 'l fleto, {{!}} sol tra tanti animali a pianger nato: {{!}} ah, de nostra natura impio decreto! [...] perché col tempo cresce la malizia, {{!}} la superbia, luxuria, ira e perfidia, {{!}} la ceca ambizione e l'avarizia. {{!}} Gli è ricco: orsù ognun li porta invidia; {{!}} gli è sano: infirmità lo expecta al varco; {{!}} gli è giovene: vechieza ognor lo insidia; {{!}} gli è virtuoso e d'ogni bontà carco: {{!}} sì ben, ma povertà li fa tal guerra {{!}} ch'oltra el dovere è nel suo viver parco. {{!}} Nessun felice mai se trovò in terra; {{!}} dunque l'umana specie è sempre in doglia; {{!}} se nulla è in ciel, chi more è for de guerra.|Triumphi (II, 121-138)}}
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== Aspetto e personalità ==
Nulla ci è noto dell'aspetto fisico di Vincenzo. Francesco Oriolo lo definisce "cruccioso in vista", cioè d'aspetto stizzoso.<ref name=":2" /> Il suo temperamento iracondo, per certi aspetti arrogante, trova conferma anche all'interno delle ''[[Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua|Prose]]'' di [[Pietro Bembo]], pur suo nemico: qui Vincenzo è descritto mentre, in seguito a una vivace discussione letteraria, "tutto cruccioso e caldo [adirato]" si separa dalla compagnia.<ref>Biblioteca dell'"Archivum romanicum.": Storia, letteratura, paleografia, Volumi 215-216, L. S. Olschki, 1988, p. 76.</ref> In un compimento che porta il suo nome, ma d'attribuzione incerta, egli si descrive come un capitano d'armate, che per amore non si dedica a balli e giochi, bensì a giostre e a tornei, e che anche in battaglia trae coraggio dal pensiero della donna amata.<ref name=":12" />
 
Fu senz'altro un'anima inquieta, la cui costante malinconia molto si riflette nelle sue poesie. Vincenzo stesso dichiarava il proprio proposito di mantenersi a ogni costo fedele alla virtù, ma il suo animo inclinava talvolta alla superbia. Nell'opera di [[Baldassarre Castiglione]], il [[Il Cortegiano|''Cortegiano'']], alla dichiarazione di [[Federigo Fregoso|Federico Fregoso]] che la miglior via di conseguire i favori sia il meritarli, Vincenzo obietta che l'esperienza insegna il contrario, ossia che solo i presuntuosi sono favoriti dai principi, non i modesti, e cita a esempi gli spagnoli e i francesi. Per presunzione egli intende tuttavia la sfrontatezza, cioè l'ardire di domandare grazie ai principi e di farsi notare, senza attendere di essere spontaneamente favoriti da loro in virtù dei propri buoni meriti, cosa che a parer suo capita assai di rado.<ref name=":6" />
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che mai via ho d'uscir fuor di martiro. [...]|Capitulo di Vincenzo Calmeta, in Compendio de cose nove etc}}
 
=== OpereComposizioni poetiche sopravvissute ===
Numerose rime, sonetti, [[strambotto|strambotti]], epistole e capitoli metrici<ref name=":5" /> sono tramandati dai manoscritti e dalle opere a stampa sotto il nome di Vincenzo Calmeta, Vincenzo Collo (Colli), indicato più semplicemente come Calmetta (Calmete) o Vincentius (Vincentii). Benché le attribuzioni siano sempre incerte, esse lo sono specialmente nel caso in cui vi compare il solo nome, che può riferirsi anche al contemporaneo poeta Vincenzo Pappacorda. La maggior fama del Calmeta, tuttavia, induce a credere che solo a lui potessero riferirsi senza necessità di indicare il cognome.<ref name=":12" /><ref name=":11" /> Si aggiungono tuttavia le incertezze dovute alle frequenti confusioni autoriali fra Vincenzo e il suo amico Serafino Aquilano, anch'egli indicato col solo nome Seraphinii, e con altri poeti del medesimo circolo.<ref name=":12" /><ref name=":11" />
 
# Rime, conosciu<nowiki/>te da varie edizioni:<ref name=":5" /> alcuniAlcuni [[sonetto|sonetti]] amorosi e un lungo malinconico componimento intitolato ''Capitulo'', incentrato sui temi della Fortuna e della sventura umana, sicuramente posteriore alla morte della duchessa, sono contenuti in ''[https://www.google.it/books/edition/Compendio_de_cose_noue_de_Vicenzo_Calmet/MbgOBBhXK2YC?hl=it&gbpv=0 Compendio de cose noue de Vicenzo Calmeta & altri auctori]'', stampato a [[Venezia]] nel 1508. Incerta è pure l'attribuzione di tre ottave del codice Sessoriano 413: ''Mille falaci, strani e van pensieri''; ''La fede non va più vestita a biancho''; ''Gli vengonoocchi ancheche attribuitipria alcunimiraro el tuo bel volto''.<ref>[[strambotto|strambottiLettere italiane]], Volume 13, 1961, p. 313.</ref>
 
=== Opere perduteletterarie ===
 
==== sopravvissute ====
# ''Compendio dell'Ars Amandi'': [[volgarizzamento]] in terzine dell'opera di [[Publio Ovidio Nasone|Ovidio]] composto fra il 1494 e il 1497, quasi controvoglia, su richiesta di [[Ludovico il Moro]]. In esso Vincenzo sembra voler emulare il Dante nella [[Vita nuova|Vita Nova]] quando annuncia l'intenzione di comporre la Divina Commedia per l'amata, in quanto scrive: "Altrove mostrar spero l'intelletto | alzando a volo una immortal fenice | che sarà al basso stil mio alto suggetto".<ref name=":5" /> Si tratta sicuramente della duchessa Beatrice.<ref name=":0" />
# [[Triumphi di Vincenzo Calmeta|''Triumphi'']]: poemetto in memoria di [[Beatrice d'Este (1268-1334)|Beatrice d'Este]];<ref name=":5" />
# [https://play.google.com/books/reader?id=hjvVEHiosh4C&pg=GBS.PP34&hl=it&printsec=frontcover ''Vita di Serafino Aquilano''], composta nel 1504:<ref name=":5" /> breve scritto biografico in memoria del caro amico e poeta vagabondo [[Serafino de' Cimminelli|Serafino Aquilano]], nel quale ancora una volta coglie occasione per ricordare il tempo perduto ed elogiare la defunta duchessa Beatrice, nonché il fu re [[Ferdinando II di Napoli|Ferrandino]] ed [[Elisabetta Gonzaga]];
# ''Annotazioni e iudìci;''<ref name=":5" />
# Rime, conosciu<nowiki/>te da varie edizioni:<ref name=":5" /> alcuni [[sonetto|sonetti]] amorosi e un lungo malinconico componimento intitolato ''Capitulo'', incentrato sui temi della Fortuna e della sventura umana, sicuramente posteriore alla morte della duchessa, contenuti in ''[https://www.google.it/books/edition/Compendio_de_cose_noue_de_Vicenzo_Calmet/MbgOBBhXK2YC?hl=it&gbpv=0 Compendio de cose noue de Vicenzo Calmeta & altri auctori]'', stampato a [[Venezia]] nel 1508. Gli vengono anche attribuiti alcuni [[strambotto|strambotti]].
# ''S'egli è lecit''<nowiki/>''o giudicare i vivi o no'': difesa del poeta contro coloro che lo accusano di giudicare con presunzione i viventi. "E se costoro dicono a me ch'io sono presontuoso, risponderò esser molto più prosuntuosi loro, che hanno ardire di sindacar me, che tutto il mondo ho preso a bilanciare".<ref name=":8">{{Cita|Grayson|pp. 3-6}}.</ref>
# ''S'egli è possi''<nowiki/>''bile essere buon poeta volgare senza aver lettere latine'': la poesia è una dote innata, infusa da "divino furore", che non dipende dunque dall'ingegno dell'uomo, ma che deve essere comunque aiutata dallo studio e dalle lettere. "Non nego che al poeta non sia necessario prima portarsi la vena dal ventre della madre [...] ma dico, se non è aiutato dall'accidente, sarà come una veste di broccato ricchissimo fatta da inetto sartore, nella quale più sarà biasimato l'artificio che laudata la materia". Dunque chi vuol essere un elegante poeta non deve essere del tutto ignaro della lingua latina. "E però voi altri che avete gl'ingegni elevati, e che siate desiderosi nella poetica facultà far qualche frutto, vogliate nelle dottrine insudare, fuggendo la bestial persuasione di alcuni ignoranti, i quali per saper accordar quattro rime insieme, vestiti d'un bestial fumo, come hanno le loro inezie a qualche barbaro o feminella recitato, la ignoranza loro con la eccellenza del Petrarca non permuteriano".<ref>{{Cita|Grayson|pp. 7-11}}.</ref>
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# ''Della ostentaz''<nowiki/>''ione'';<ref>{{Cita|Grayson|pp. 37-46}}.</ref>
# ''Littera di Vin''<nowiki/>''cenzo Calmeta scritta all'Illustrissima Madama Marchesa nostra'': epistola sui capitoli, epistole ed elegie indirizzata a [[Isabella d'Este]];<ref name=":5" />
# Incerta è l'at<nowiki/>tribuzione di tre ottave del codice Sessoriano 413: ''Mille falaci, strani e van pensieri''; ''La fede non va più vestita a biancho''; ''Gli occhi che pria miraro el tuo bel volto''.<ref>[[Lettere italiane]], Volume 13, 1961, p. 313.</ref>
 
=== Opere perdute ===
 
==== Perdute ====
#''Nove libri del''<nowiki/>''la volgare poesia'': esposizione della sua teoria sulla lingua;<ref name=":5" />
#''Amoroso Pelleg''<nowiki/>''rinaggio'': [[prosimetro]] in tre libri, mai terminato;<ref name=":5" />